Di Donatella Di Pietrantonio

Certe volte che ti odio. Odio il tempo che mi costi. Sei stata avara di tempo con me, quando ero bambina le tue mani mi parevano d’ossa, mi arrivavano scarse e perpendicolari, mi lavavano, cambiavano, porgevano il cibo e poi via, verso campi da lavorare, animali da accudire, verso sacrifici e doveri che non mi riguardavano. Ci mancava il momento delle carezze inutili, del palmo tangente alla guancia, della pelle che si scalda e suda a contatto con l’altra.
Ubbidivi agli ordini del suocero-padrone, non era colpa tua. Ma qualche volta ti avrei voluta partigiana e rivoluzionaria, per me. Eri una madre inaccessibile, separata, non per disamore, per fretta, quest’altra forma del disamore. Ti inseguivo, certi giorni con l’andatura dimessa del cane pulcioso che esala disperazione dal muso. Solo la notte ti raggiungevo, infilandomi nel tuo letto. Annusavo dai capelli l’ordine del giorno appena trascorso: stalla delle mucche, pecorino fresco, foraggio, peperoni fritti. Di nuovo lontana, perduta nella profondità del sonno, ma ti stavo io accanto, espiravo sulla tua nuca, potevo vegliarti un po’ e poi finalmente dormire anch’io appoggiandoti una mano nell’incavo tra il collo e la spalla, dov’eri più morbida e viva. Sei stata il principio di tutti i miei desideri, la madre di ogni solitudine.
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