Il misantropo

di Claudio Merini

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La ragione vince sempre le scaramucce, ma mai una battaglia che conti.

(Qui pro quo, Gesualdo Bufalino)

– Ma ha visto l’ultimo sondaggio elettorale, quello che dà la Lega al 32 e mezzo per cento?

(Silenzio)

– Perché non mi risponde?

– Pensavo fosse una domanda retorica e aspettavo che aggiungesse qualcosa.

– Beh, quello che c’è da aggiungere è che gli italiani si sono bevuti il cervello. Ho visto un filmato della visita di Salvini a Viterbo in mezzo a due ali di folla osannanti, accolto come fosse il salvatore della patria. Roba da rabbrividire. Fino a poco tempo fa la Lega a Viterbo prendeva meno dell’uno per cento. Incredibile.

– (Silenzio)

– Come mai mi parla della Lega, cosa vuole dirmi?

– Voglio dirle che mi sento circondato da un branco di imbecilli. C’è da averne paura.

– E lei ha paura?

– Come si fa a stare tranquilli se gli imbecilli stanno ovunque. Per qualsiasi cosa si abbia bisogno è probabile cadere nella mani di uno stupido. Poco male se è un idraulico o un imbianchino, ma s’immagini un chirurgo o un dentista.

– Beh, anche uno psicoterapeuta.

– Eh, certo, anche uno psicoterapeuta imbecille può fare grossi danni.

– Lei qua si sente in pericolo?

– Non è come essere nelle mani di un chirurgo. Lì non hai nessun controllo, non sei più padrone di te stesso. Qui posso dire la mia. Più che altro non mi fa piacere aver bisogno di lei. Se non ci fossero i miei maledetti sintomi… Spero sempre che lei trovi il modo di farli sparire.

– Mi vede come un guaritore.

– Beh sì. Non è il suo compito? Lo fa con le parole invece che con le pozioni, ma in fondo è la stessa cosa.

– Io non mi sento un guaritore e non credo di esserlo.

– E cos’è allora?

– Sono uno che aiuta a capire, che accompagna, che dà un altro senso a ciò che le accade.

– E’ il suo modo di far guarire.

(Silenzio)

– Nel suo modo di far guarire forse c’è anche lo stare improvvisamente zitto quando io mi aspetto che dica qualcosa. Mi fa strano come produce questi piccoli e improvvisi silenzi. Sono abituato ai batti e ribatti che di solito si creano nelle discussioni. Ciascuno deve dire la sua sino alla morte. Un’altra delle tante stupidità della razza umana: bisogna aver ragione. E se fosse meglio avere torto? Chi ha detto che siamo migliori se abbiamo ragione?

– Sta usando il tono di quando inizia una filippica contro qualcuno. L’ha fatto anche prima riguardo agli italiani che votano per Salvini. E’ una sua modalità tipica. Chissà inconsciamente quante filippiche fa contro se stesso. Sembra che non veda l’ora di trovare un bersaglio esterno per non essere lei la vittima.

– Mi sta dicendo che altrimenti io mi darei dello stupido e dell’imbecille?

– Una cosa del genere.

(Silenzio)

– Io non mi sento un genio, ma nemmeno uno stupido. Sono un esemplare medio-alto dell’intelligenza umana. Sono uno che pensa, che ha opinioni proprie. Non faccio parte del gregge.

– Ma non è che sotto sotto teme di poterne far parte e attaccando il gregge se ne distingue?

– Mi vuol dire che faccio il lupo?

– Sì, e avere un lupo dentro non fa stare tranquilli. Meglio aizzarlo contro il gregge, altrimenti se gli vien fame si divora lei.

– Lei è un tipo fantasioso. Questa storia va bene per un bambino, non per me.

– Non crede di avere anche lei una parte infantile, quella che si spaventa se deve prendere l’aereo o passare su un viadotto? Quella parte secondo me ha paura del lupo, cioè della parte distruttiva che mira alla morte.

– Se esistesse un Premio Strega per gli psicoterapeuti lei avrebbe buone probabilità di vincerlo.

– Ora il lupo sta attaccando me?

– Lei è l’inventore della storia, lei lo sa.

– Rischiamo di finire in uno “stupido” battibecco in cui ciascuno cerca di aver ragione.

Silenzio. Si sente il borbottio dello stomaco dell’uomo sdraiato sul lettino. Dalla strada giungono le voci dei bambini che giocano. Il terapeuta pensa che il suo interlocutore teme di affezionarsi a lui, ma sa che è meglio non dirglielo, per ora. E poi vuole essere più sicuro che sia effettivamente così. Non gli piacciono le interpretazioni affrettate, basate su pochi indizi. Sa che ciò che è fondato si ripete e dunque basta avere pazienza per raccogliere indizi convergenti. Riflette sul fatto che anche l’interpretazione sulla parte distruttiva era probabilmente prematura. Riguardo al Premio Strega, dio solo sa quanto avrebbe voluto vincerlo per davvero. Poi pensa che la vita colloca ciascuno in un posto che è molto meno scelto di quanto possa sembrare: è semplicemente un posto necessario. Il suo compito è ascoltare i mali del mondo, così dice a se stesso, e nel dirselo avverte un senso di pace. Riflette sull’idiozia del mito del sogno americano e si accorge di essere per alcuni versi simile al suo interlocutore, il quale nel frattempo si sta visibilmente agitando.

– Cosa le succede?

– Mi sta salendo l’ansia. Non so perché.

(Silenzio)

– Forse perché sente che in questo momento è in conflitto con me.

– Non lo so, mi sento le gambe rigide.

– E se fosse rabbia?

– Posso avere un bicchiere d’acqua?

– Certo.

Il terapeuta esce dallo studio e torna poco dopo con un bicchiere d’acqua. L’uomo si siede di traverso sul lettino e manda giù l’acqua a piccoli sorsi. Poi si sdraia di nuovo.

– Come va?

– Un po’ meglio. Si potrebbe aprire la finestra?

Il terapeuta apre la finestra che sta di fronte al lettino e che dà sul giardino; poi si rimette al suo posto e mentre si siede pensa che il suo interlocutore si sta facendo curare da lui.

– Non so cosa mi è successo.

– Sa, l’ho vista in una versione molto diversa dal solito.

– Cioè?

– Lei di solito è agguerrito. Ora sembra… indifeso.

– Che figura! Ho perso il controllo. Mi spaventa sentire il mio corpo che se ne va per conto proprio.

– Forse il suo corpo le vuole dire qualcosa.

– Cosa?

– Non lo so. Provi a lasciar andare l’immaginazione.

Segue un silenzio rarefatto in cui i due sembrano l’uno concentrato in se stesso, l’altro, il terapeuta, sospeso.

– Mia madre non capiva un accidente – dice all’improvviso l’uomo sul lettino – era presa dalle sue ossessioni e fuori di quelle non si accorgeva di niente. Ero io che mi dovevo adattare a lei, alle sue sequenze rigide. Non mi sono mai ribellato, cazzo! Come ho fatto a resistere non lo so. Era roba da metterle le mani al collo. Non so cosa c’entrano i miei sintomi fisici, ma mi è venuto in mente questo.

– Magari i suoi sintomi hanno a che fare con l’odio che provava per sua madre.

– Io non la odiavo.

– L’odio rimosso.

– Lei trova sempre un modo di aggiustarsi le sue storie.

– Sente che anch’io non la capisco, come sua madre.

– Vede come se le aggiusta e le infioretta, mi fa incazzare. Scusi…

– Può riconoscere che ora mi odia?

– Sì.

L’uomo sul lettino prende il fazzoletto dalla tasca dei pantaloni e si asciuga la fronte.

– Ho bisogno di alzarmi.

– Prego.

L’uomo si alza e inizia a camminare avanti e indietro nello studio.

– Mi scusi, ma non riesco a stare fermo.

– Faccia pure, non si preoccupi.

Il terapeuta rimane al suo posto un po’ a disagio, senza guardare l’interlocutore che continua a muoversi nella stanza. A un certo punto l’uomo si ferma dietro di lui. Il terapeuta a un tratto si aspetta di essere aggredito e sente il suo corpo che si prepara a difendersi. Pensa che sarebbe meglio dire qualcosa per sfuggire al pericolo, ma non vuole cavarsela in modo superficiale. Non sa cosa fare, è stato colto di sorpresa. Poi si affida e si lascia andare. Appoggia la testa sullo schienale della poltrona e chiude gli occhi. Sente il respiro dell’altro che forse lo sta fissando, immagina che allunghi la sua mano per toccarlo sulla fronte e che il contatto lo plachi. Il ticchettio dell’orologio scandisce gli intervalli di un tempo lunghissimo in cui la realtà sembra divorata dall’immaginazione. Ascolta il gorgoglio dello stomaco e non sa se è il suo o quello dell’altro, un’auto che passa nella strada, il ronzio di una mosca. Si ricorda di quando da ragazzo dopo interminabili partite di pallone si sdraiava nella pineta e sentiva il suo corpo pulsare felice nel fresco del crepuscolo. Una volta gli capitò di addormentarsi e di risvegliarsi quando ormai s’era fatto buio. Gli sembrò d’essere una creatura dei boschi, tanto da non voler rincasare. Finché udì delle voci in lontananza che gridavano il suo nome. Solo allora a malincuore s’incamminò verso casa, lasciando quel luogo a cui sentiva di appartenere, come in una rivelazione che l’avrebbe accompagnato nel resto degli anni. Ecco, ora sente l’uomo che si muove, sente il rumore della pelle del lettino, apre gli occhi e vede che il suo interlocutore è sdraiato al proprio posto. Aspetta. Non vuole parlare per primo. Non ha idea di cosa dirà l’altro e gli piace che sia così – questi passaggi imprevedibili sono il sale del suo lavoro. Ama l’improvvisazione.

– Era insopportabile. Era capace di ripetermi venti volte la stessa cosa. Ho capito, le dicevo, ma lei la ripeteva lo stesso. Era totalmente impermeabile. Deve essere il motivo per cui mio padre se ne è andato, anzi è sparito. Ha pensato solo a se stesso, non a me. Mi ha lasciato in balia di lei, senza nemmeno un fratello o una sorella con cui dividersi il peso. Bello stronzo. E non so perché sono io che mi sento in colpa. In colpa di cosa?

(Silenzio)

– In colpa di cosa? – ripete l’uomo sul lettino – Lo sto chiedendo a lei.

– Se li odiava come faceva a non sentirsi in colpa. Erano comunque i suoi genitori.

– Questa è più convincente.

– L’ho sentito il suo odio e per un attimo ne ho avuto anche paura, la stessa paura che prova lei quando l’odio sta per emergere. Questa la convince?

– Non lo so, ci devo riflettere.

– Lei è un osso duro.

– Beh, le faccio guadagnare l’onorario.

L’analista pensa che il suo interlocutore non è certo un mostro di simpatia, ma gli piace la sua sincerità. In fondo gli piace anche la sua diffidenza per le interpretazioni: è lui stesso a diffidarne per primo. Sa che è molto facile prendere granchi, soprattutto proiettare le proprie problematiche sull’interlocutore analitico.

– Quindi, se ho capito bene, l’ansia terrificante che a volte mi prende è paura di quella che lei chiama la mia parte distruttiva?

– Sì.

– Perché dovrei averne così paura?

– Perché originariamente quella distruttività era rivolta verso i suoi genitori.

– Uhm.

(Silenzio)

– Mi sembra passato un secolo da quando sono morti e due secoli da quando ero arrabbiato con loro. Possibile che ancora mi condizionino?

– Nell’inconscio il tempo non esiste. Tutto può essere attuale, in qualsiasi momento.

– Vorrei che fosse sempre attuale il senso di liberazione che provavo quando sparivo con qualche scusa e me andavo vagabondando per la città. Allora non c’erano i cellulari e mia madre non mi poteva rintracciare e controllare. In quei pomeriggi da vagabondo mi sentivo leggero e felice.

(Silenzio)

– Felice… mi fa impressione usare questa parola… come se mi fosse proibita.

(Silenzio)

– Se il mondo fosse ancora quello di una volta, potrei andarmene alla scoperta come da adolescente. Ma ora lo so cosa c’è là fuori, niente di buono.

– C’è quello che ci vede lei. E’ lei a crearlo il mondo.

– Eccone un’altra delle sue. Secondo lei nel mondo non c’è una grande abbondanza di schifezze?

– Nel mondo c’è di tutto. Sta a lei scegliere se guardare la cacca di cane sul marciapiede o un albero in fiore. Lei di solito sceglie di guardare la prima perché evidentemente trae un vantaggio dal fare così.

– Quale vantaggio?

– Ci rifletta. Magari ne parliamo nella prossima seduta.

– Non mi può mollare con questo sospeso.

– Il nostro tempo per oggi è finito.

– Non mi può dare qualche minuto in più?

– Il nostro accordo prevede che la seduta duri quarantacinque minuti. E’ meglio rispettarlo.

– Sarà meglio per lei, non per me.

– Ne parliamo la prossima volta.

(Silenzio)

– Mi sento svuotato. Questa seduta è stata una fatica tremenda – dice l’uomo alzandosi dal lettino.

– Lo immagino. Una fatica che forse ci voleva.

– Lo spero.

I due si avviano verso la porta. Anche l’analista si sente stanco, pensa che è dura ingaggiare battaglie contro la distruttività altrui, dovendo già tenere a bada la propria. Dopo aver salutato l’interlocutore analitico rientra in studio e passando davanti alla stampa di Dova appesa alla parete, nota che c’è qualcosa di strano sulla testa di una delle civette che vi sono raffigurate. Osserva meglio e si accorge che si tratta di un minuscolo geco, immobile. Viene colto dal solito buonumore di quando si imbatte in un animale selvatico. Pensa a come deve essere stupefacente il mondo per quel piccolo essere appena nato e vorrebbe anche lui possedere lo stesso sguardo vergine. Si rammenta di Useppe, il bambino protagonista de “La storia” di Elsa Morante, di come quel libro l’aveva rapito da adolescente e poi ancora recentemente, quando lo aveva riletto e vi aveva ritrovato rappresentata la miracolosa vitalità dell’infanzia, anche nel mezzo delle miserie della guerra. Questo ci vuole – pensa l’analista – uno sguardo nuovo sulla vita.

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