Crimini d’obbedienza

di Silvia Di Battista

“Tra le tattiche utilizzate dagli americani durante la guerra del Vietnam vi era quella di prendere di sorpresa soldati nemici nascosti nei villaggi (…). Nel marzo 1968, una di queste azioni che doveva distruggere un battaglione di Vietcong si risolse invece in un massacro della popolazione civile, gli abitanti del villaggio di My Lai. (…) I soldati americani, guidati dal tenente Calley, massacrarono oltre cinquecento persone, commettendo ogni sorta di atrocità, trucidando spietatamente i bambini sotto gli occhi delle madri, violentando le donne. Questo terribile episodio, contrario a ogni regola del codice militare, costituì senza dubbio una delle pagine più nere di quella terribile guerra. Il tenente Calley fu in seguito condannato dal Tribunale militare (…). La difesa del tenente si fondò sulla sua obbedienza a ordini superiori (corsivo mio). Egli sostenne che per un soldato qualsiasi ordine era da considerarsi lecito e che il compito di un soldato consisteva proprio nell’eseguire al meglio qualsiasi ordine gli venisse dato (…). La corte marziale non accettò la difesa di Calley (…) “l’obbedienza di un soldato non è l’obbedienza di un automa. Un soldato è un essere in grado di ragionare e di rispondere, non una macchina ma una persona” [cit. in Kelman e Hsamilton, 1989]; [Mucchi Faina, 1996, pp. 42-43].

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Non è raro leggere tra le pagine della storia o dell’attualità le conseguenze sconcertanti e drammatiche dell’influenza proveniente da un’autorità. Crimini dovuti non alla trasgressione, ma all’obbedienza ad una legge! È vero che l’obbedienza è un requisito indispensabile all’interno di ogni contesto sociale e organizzativo per chiunque non abbia deciso di vivere un’esistenza alla Robinson Crusoe. L’educazione all’obbedienza ha inizio praticamente dalla nascita con i genitori, gli insegnanti e le istituzioni giuridiche, militari e politiche, che concordano nel comunicare e nel ricordare all’individuo l’obbedienza all’autorità legittima. Ma è anche vero che alcune leggi e autorità, in particolari condizioni, hanno portato a compiere azioni illecite, cancellando ogni capacità di discernimento. Penso in particolare alle guerre, precedute sempre da periodi di disagi economici e sociali, minacce all’incolumità, messaggi propagandistici…fino a che quell’autorità (spesso invisibile), che ci guida ad azionare bombe e farci ammazzare, sembra più legittima che mai. Credo sia per questo che nel compiere quegli atti delittuosi non sentiamo alcun peso di responsabilità personale. Anzi, diventiamo improvvisamente eroi per il nostro gruppo e poco importa se siamo assassini per l’altro. E’ come se la responsabilità delle proprie azioni e del proprio libero volere sia tutto nelle mani di quella superiore autorità che sa cosa è meglio per noi e alla quale è sottratta ogni possibilità di errore. “(…) l’uomo che sta facendo funzionare una camera a gas può giustificare il suo comportamento con il fatto che sta eseguendo ordini superiori. L’atto umano intero viene frammentato: nessuno decide di compiere l’atto malvagio, né deve confrontarsi con le sue conseguenze: la persona che assume piena responsabilità dell’atto è evaporata” [Milgram, 1976, pp. 183-184].

A molti saranno venute in mente le immagini della Seconda Guerra. Rileggendo Levi [1958] e la sua descrizione cruda e potente della detenzione ad Auschwitz, mi rendo conto di cosa avesse potuto mettere in piedi un’autorità. Un’autorità ormai invisibile nel campo, un organismo infernale, in cui tutti erano schiavi: prigionieri e carcerieri. Essi avevano perso ogni traccia di identità umana, guidati in un gioco che non risparmiava nessuno, “uomini e uomini, schiavi e padroni, i padroni schiavi essi stessi” [ibidem]. E’ un fenomeno che chiamano deumanizzazione e il termine rende bene il senso potente che Levi [ibidem] vuole lanciare nel suo testo: “i personaggi di queste pagine non sono uomini. La loro umanità è sepolta, essi stessi l’hanno sepolta, sotto l’offesa subita o inflitta” [ibidem].

Guardati a distanza questi fatti assumono tutta la coloritura di un’atrocità. Ma mi spaventa l’idea che probabilmente, vivere in particolari condizioni di pressione sociale e psicologica, possa portare ancora intere masse di persone ad agire agli ordini di una superiore autorità, senza rendersi conto realmente di ciò che si sta compiendo. Anche quando le conseguenze dell’obbedienza non sono così nefaste come nel caso di una guerra. Mi rifiuto di pensare che tali azioni od omissioni siano dovute ad un lato nascosto ed aggressivo nell’uomo: non avremmo altra scelta, per la convivenza e l’evitamento delle violenze, che l’obbedienza passiva. (Qualcuno penserà che ho una tendenziale ed eccessiva fiducia nella natura umana. E’ probabile!). Credo sia difficile tutt’oggi distinguere tra bene e male, tra diritti e doveri dettati dai diversi giochi di potere e che l’autorità continui, all’epoca della comunicazione globale, ad esercitare uno straordinario impatto, che può condurre i singoli ad andare contro i propri principi. Tuttavia non voglio generalizzare neanche in questo senso, perché i singoli pensieri continuano ad essere possibile fonte di rinnovamento, contro quelle leggi e quei doveri che sono nati (o diventati nel tempo) contrari ai diritti naturali di ogni essere umano. La difficoltà sta proprio nel capire quando quella autorità non è (o a smesso di essere) giusta e funzionale. Mi rendo conto di non avere soluzione facile per questo!

La funzione primaria della legge è di comprimere non di liberare, di restringere, non di allargare gli spazi di libertà, di raddrizzare l’albero storto, non di lasciarlo crescere selvaggiamente. Con una metafora usuale si può dire che diritto e dovere sono come il retto e il verso di una medaglia. Ma qual è il retto, quale il verso? Dipende dalla posizione da cui guardiamo la medaglia” [Bobbio, 1990, pp. 54-55].

BIBLIOGRAFIA:

Bobbio, N. (1990), L’età dei diritti, Torino, Giulio Enauidi editore SpA.

Levi, P. (1958), Se questo è un uomo, Torino, Giulio Enaudi editore SpA.

Milgram, S. (1976), Obedience to criminal orders: The compulsion to do evil, in Contemporary social psychology: Representative readings, a cura di T. Blass, Itasca, IL, F.E. Peacock.

Mucchi Faina, A. (1996), L’influenza sociale, Bologna, Il Mulino.

La psicoterapia esprime una sua etica?

di Paolo Notarfranchi

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Con psicoterapia intendo un fenomeno unitario, una cura psicologica che va dalla consulenza della durata di poche ore fino al trattamento che si prolunga negli anni per molte centinaia di ore, durante le quali si ha lo scandaglio del cosiddetto inconscio e si sviluppa un interminabile scontro erotico e di potere denominato transfert / controtransfert; un gioco asimmetrico che – secondo la lezione di Levi-Strauss – termina con l’uccisione di uno dei due contendenti.  Continua a leggere