Fight Club

“Noi siamo i figli di mezzo della storia, cresciuti dalla televisione a credere che un giorno saremo milionari e divi del cinema e rockstar, ma non andrà così. E stiamo or ora cominciando a capire questo fatto”. Tyler Durden.

Il lettore che ha già visto il bellissimo film, per la regia di David Fincher, può intuire facilmente perché scrivo una recensione del romanzo di Palahniuk per una rivista che parla di psicologia. In questo caso è sicuramente più gradevole, e agevole, vedere l’opera cinematografica che leggere il libro contrariamente a quanto si è soliti sperimentare. A parte il soggetto però, film e libro non hanno molto in comune, a partire dalla sequenza temporale degli avvenimenti fino a differenze importanti di trama. Quello che però condividono totalmente è l’ambiente, il contesto in sui si svolge tutta la vicenda dei protagonisti. L’America, quella urbana, metropolitana, consumistica, nichilista, assolutamente priva di scopo se non nel valorizzare ed inseguire il possesso di oggetti e appunto di beni di consumo. “Alla fine sono loro che possiedono te” dice il protagonista durante il film. Nel libro invece questo concetto si manifesta implicitamente, attraverso il racconto di una vita routinaria e frenetica dedita ad un lavoro che non dà senso ma che aliena da tutto, attuando una nemesi marxista nel paese del “sogno”. Il lavoro come mezzo per arrivare a consumare, il consumo come scopo di vita, la vita consumata di corsa per guadagnare qualcosa che permetta di comprare, consumare e quindi vivere. Nient’altro. Non di semplice lettura, con una scrittura ripetitiva, cupa, violenta, fatta di slang e slogan pubblicitari. A tratti ipnotica, come ipnotica è la personalità di Tyler che riesce a unire intorno a sé tutta la quinta casta del mondo occidentale, tutti i reietti dell’urbanizzazione e del consumismo. C’è azione senza esserci racconto, c’è affetto pur essendoci solo sesso brutale. C’è dolore, paura, rabbia, emozioni presenti senza mai essere nominate. L’autore riesce ad essere profondo rimanendo sempre in superfice. I personaggi sono degli “evitanti” che darebbero la vita per l’altro, per il loro compagno, camerata o amico antropomorfo. C’è cameratismo ma non “leccaculismo” vicendevole. Il linguaggio è rude, violento, minimalista, fastidioso ed essenziale. Un clima perennemente noir, dove ossimorica insonnia ipnotica la fa da padrone e non permette di distinguere la veglia dal sonno; ci si ritrova in uno stato di coscienza sfumato, senza confini e soluzione di continuità. Da questa condizione emerge, paradossalmente viva, la malattia unico fugace motivo di scambio di umanità. Ci si incontra solo da malati e tra malati, ci si abbraccia, ci si tocca, si condivide, si piange solo se si ha un male che con ogni probabilità accorcerà la nostra agonia terrena. Si è costretti a fingersi malati per incontrare un altro essere umano: l’apoteosi della nevrosi. Questo fino a quando non incontriamo il nostro alter ego, qualcuno che ci apre gli occhi, che ci fa vedere ciò che nascondiamo a noi stessi, che agisce così come noi vorremo agire se fossimo come lui e se avessimo il suo coraggio. Il coraggio di combattere; non in senso metaforico, o almeno non solo. Combattere non per una causa giusta o per fare la rivoluzione ma semplicemente per il piacere di farlo, per sentirsi vivi. Non per raggiungere chissà quale ideale, raggiunto il quale ci ritroveremmo nella stessa situazione di prima, a cercare di raggiungerne un altro, e un altro ancora, come una specie di Sisifo che reifica tutto e tratta come oggetto qualsiasi scopo umano, anche la felicità. Già, vi si scorge la reificazione di qualsiasi relazione, tutto diventa roba da consumare, con un processo di divinizzazione al contrario, in cui un naturale afflato diventa oggetto da acquistare. C’è la classica inversione mezzi fini, non come sofisma logico ma come distorsione esistenziale. Ad un certo punto del romanzo, ti viene voglia di uscire di casa e prendere a pugni il tuo vicino di casa che ha il cane che ulula ad ogni passaggio di sirena. Ecco, mi sono lasciato trascinare anch’io! Sarà il fascino di Tyler?

Dialoghi nella stanza d’analisi

Claudio Merini, Dialoghi nella stanza d’analisi. Collana “Punti di vista”, Edizioni Psiconline.

Il testo è composto da una serie di brevi racconti per buona parte dialogici, un’invenzione letteraria che segue il criterio della verosimiglianza: in ogni racconto proprio questi dialoghi costruiscono la relazione fra uno psicoterapeuta, sempre il medesimo, e un suo paziente, ogni volta diverso, che gli narra la propria dolorosa differenza. Il lettore è con loro: osservatore introdotto nella stanza di analisi, si interroga sul senso di questa relazione, in particolare sulla funzione dell’analista. Man mano che scorre le pagine, il lettore prende coscienza della complessità di una risposta compiuta. L’esperienza analitica via via gli si configura come opera  aperta.

Ciascuno dei racconti conferma questa complessità: da un lato il punto di vista del paziente, qui riconosciuto come interlocutore analitico, espressione di urgenze dolorose scavate nella propria storia (pertanto predisposta alla narrazione più che al saggio); dall’altro, il punto di vista dell’analista che rivive/elabora quelle urgenze attraverso il filtro non solo delle proprie teorie ma anche della sua stessa vita interiore. C’è di più: nel microcosmo della stanza di analisi il discorso del paziente/interlocutore si intreccia con un dialogo a due voci che animatamente si rincorrono, spesso si scontrano, all’interno dello stesso soggetto: quella  in terza persona del dottore/narratore, tutto compreso  nel ruolo di osservatore esperto e imperturbabile, preposto allo scioglimento dei nodi dell’anima, e quella dell’analista/personaggio che si esprime in prima persona, intensamente compenetrato nei sensi delle parole che ascolta, attraversato di rimbalzo da memorie, associazioni, emozioni attinte al bagaglio della propria esperienza. Una dissociazione pirandelliana, come ci racconta lo straniamento del dottor D., impalato sull’ingresso di casa, davanti alla targa con scritto il suo nome, preceduto da ‘dott.’ (cfr. p. 183). Da qui il controcanto di dubbi e obiezioni dell’analista intorno agli schemi interpretativi che il suo alter ego tenta via via di applicare, un controcanto che porta spesso accenti di insofferenza impertinente. Dunque la relazione analitica risulta polifonica e dissonante: il personaggio analista tende a rompere la fissità di qualunque schema teorico, diventa una figura di spostamento mentre indaga l’esperienza del paziente/interlocutore ponendola in rapporto con la propria. Si tratta di una ricerca complessa che richiede una pluralità di strumenti di indagine, anche aldilà delle competenze strettamente professionali (per esempio il teatro, la musica, la letteratura). Così il campo di ricerca e i punti di vista si amplificano, intervengono nuovi materiali di indagine; la stessa stanza d’analisi si apre: i confini spaziali, così come quelli temporali, dilatandosi disegnano nuove imprevedibili geometrie, nonostante l’evidenza persistente dell’interno accogliente e del giardino rigoglioso di sfondo, nonostante la scansione inesorabile dei tre quarti d’ora canonici, non a caso richiamati più volte nel corso dei racconti.

Certo il paziente/interlocutore resta escluso dal confronto serrato che coinvolge i due alle sue spalle: effetti gliene tornano di riflesso solo quando un qualche punto di precario equilibrio, una qualche parziale mediazione riesce a mettere d’accordo il dottore con l’analista. I silenzi, invece, lo coinvolgono: i silenzi sono inclusivi, segno della consapevolezza di domande in sospensione, consapevolezza che accomuna paziente/interlocutore, analista e dottore: pur seguendo tragitti e ritmi diversi, essi vagano insieme cercando la difficile messa a fuoco dell’oggetto comune; pur entro confini dilatati e poco definiti, ancora una volta la stanza permane e li tiene insieme, luogo fisico di questa condivisione. E sono silenzi densi di attesa e fertili, capaci di generare una vicinanza speciale, proficua per lo sviluppo della relazione analitica.

Questa visione aperta e complessa della psicoterapia si rispecchia nella scrittura dei racconti che risulta appunto plurale: dal registro formale del dottore/narratore in terza persona a quello informale dell’analista/personaggio. Colpisce soprattutto la tensione lirica, fino alla solennità, che spesso attraversa il discorso dei pazienti/interlocutori: una sintassi semplice, un linguaggio chiaro e senza orpelli, scavato e prosciugato dal dolore che lo ispira, costante dominante di tutti i racconti, pur nella differenza dei contenuti.

Proprio questa considerazione estetica, sulla forma che si eleva nel tentativo di aderire al dolore che la sostanzia, ci rimanda a quello che forse è il fondamento di questo testo: riconoscere, indicare, tenere aperto come un rovello scevro da becere semplificazioni, il problema del dolore umano, rendere senza tradimenti la sua natura profonda e labirintica. Il dolore torna allora come esperienza di verità: ma la verità implica bellezza. Impone una ricerca formale senza risparmio e forse per questo apre alla letteratura. Il contrario potrebbe anche risultare una diminuzione o una menzogna. Così declinato, il legame verità/bellezza – non a caso tema centrale della citazione introduttiva di E. Dickinson – diventa urgenza morale.

Luigia Amoroso

Primo, non curare chi è normale: contro l’invenzione delle malattie

Testo amarissimo quello di Frances nel quale non risparmia nessuno, nemmeno sé stesso. L’autore infatti fa una critica dell’intero sistema diagnostico e terapeutico della salute mentale. Egli è stato a capo della task force dell’American Psychiatric Asssociation che ha redatto il DSM 4, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali quindi parla da persona competente e informata di tutte le dinamiche e interessi che gravitano intorno a quel settore della medicina. Proprio il DSM 4, che sicuramente lo ha reso celebre a livello mondiale soprattutto tra gli operatori del settore, è oggetto di una critica lucida e a tratti spietata che evidenzia come si siano distorti concetti e scopi di un manuale diagnostico per “piazzare” diagnosi e relative cure. Frances spiega dettagliatamente le ragioni e l’iter professionale e scientifico che hanno portato alla quarta edizione del più noto testo di diagnostica psichiatrica. Egli parla delle influenze, delle pressioni che egli ed i suoi collaboratori hanno subito durante il lavoro e soprattutto descrive l’uso distorto che in seguito se n’è fatto. Questo ha avuto conseguenze negative sia a livello scientifico che clinico. L’autore infatti parla di inflazione diagnostica per indicare quel fenomeno secondo cui la stragrande maggioranza delle persone hanno, in un certo grado, un disturbo mentale da curare. Il libro parte con una lunga riflessione sul concetto di normalità e sul suo progressivo restringimento, tale da non esser più applicato ad alcun essere umano. Tendenza pericolosa perché se a livello esistenziale essere considerati “anormali” può anche essere ragione di vanto, di anticonformismo e di originalità, a livello sanitario può comportare non pochi problemi, andando ad alimentare quel fenomeno, estremamente rilevante negli ultimi decenni a ancor più presente con la 5 edizione del DSM, che è appunto l’inflazione diagnostica. Non mancano gli excursus storici rispetto alla figura del guaritore e una disamina delle “mode” diagnostiche, di quelle patologie cioè chehanno avuto grande clamore per un certo periodo storico e che poi sono finite nel dimenticatoio. L’autore infatti ci porta in un viaggio nel tempo, sintetico ma ben documentato, sul ruolo svolto dai vari operatore della salute mentale nel corso dei secoli e sulle varie “etichette” che sono state maggiormente utilizzate per descrivere coloro che erano fuori norma. In tempi odierni, quelle che maggiormente ritiene “abusate” sono tre: la sindrome da disattenzione ed iperattività, il disturbo bipolare e l’autismo. Il trade union tra queste è la grande e pervasiva campagna di marketing che le aziende farmaceutiche hanno promosso per poter vendere i loro farmaci. Se quest’opera fosse andata in stampa in questo periodo (2022 n.d.a.) sarebbe stata tacciata di antiscientismo e complottismo. Fances infatti descrive l’uso distorto della classificazione nosografica fatta da medici e psichiatri dalla “diagnosi facile” e parla delle pressioni subite affinché fossero sempre più ristrette le maglie della normalità, in modo da includere il maggior numero possibile di potenziali pazienti e quindi clienti. Chiama in causa senza mezzi termini le grandi aziende farmaceutiche, riportando ricerche e dati sulle prescrizioni facili di farmaci psicotropi e indicando puntualmente i più pubblicizzati. Egli usa termini quali “folle” e “vergognoso” per descrivere il comportamento di Big Pharma riferendosi all’uso smodato di antipsicotici quali Seroquel e Abilify negli Stati Uniti. Farmaci a suo dire nella stragrande maggioranza dei casi prescritti a gente che non ha bisogno ma che vengono spinti da campagne di marketing aggressive e al limite della legalità. Non risparmia infine nemmeno la critica del DSM 5, edizione successiva alla propria del famoso manuale diagnostico. Lo definisce delirante perché, a suo dire, per come è impostato non fa altro che esacerbare i fenomeni testé descritti oltre ad aumentare il numero di patologie. Nell’ultima parte del libro lo psichiatra americano mette da parte il suo approccio “destruens” e cerca di fare delle proposte per arginare e porre rimedio a questi fenomeni. Le indicazioni sono molto precise e riguardano soprattutto la limitazione del potere, economico, di marketing, persuasivo e “di relazione” delle case farmaceutiche. Il libro si conclude con una carrellata di storie di pazienti, alcune a lieto fine altre invece con esiti negativi e che hanno segnato l’intera vita di quelle persone. Casi che fanno pensare quanto una pratica medica possa al contempo risultare utile e distruttiva se non applicata con giudizio, prudenza e sapienza. Probabilmente quelli di Frances resteranno solo buoni auspici ma l’obiettivo di stimolare una riflessione critica in tutti coloro che leggeranno il suo testo è, a mio avviso, pienamente riuscito.