Odio e vivificatore: un’ipotesi di lavoro.

di David Ventura

 immagine Ventura

 “Corrompo ma illumino…”

Fernando Pessoa, L’ora del diavolo

 

Pur se siamo in grado di riconoscerlo intuitivamente, una riflessione sulla natura dell’odio equivale ad addentrarsi in un labirinto di specchi per molteplici ragioni. È innanzitutto arduo e penoso confrontarci con quella parte di noi dove alberga l’odio a causa delle copiose connotazioni sociali, morali e religiose che ci inducono a confonderlo con la distruttività e il sadismo, con l’aggressività e la violenza, finanche con il peccato e il male. Per le stesse ragioni è difficile ammetterne una qualche utilità pur se poeti e filosofi, andando oltre il moralismo, ne hanno più volte evidenziato l’importanza per le nostre esistenze. Malgrado il generale accordo sul significato linguistico del termine che indica un’avversione e un’ostilità a cui può coniugarsi un desiderio di rovina per qualcosa o qualcuno, l’ampia fenomenologia dell’odio costituisce una notevole complicazione dato che può abbracciare tanto le semplici forme dell’insofferenza e dell’antipatia quanto quelle complesse della pura distruttività. È forse per questo motivo che sembra non esserci concordia neanche sulla natura di sentimento, passione o emozione di ciò che chiamiamo odio. Le riflessioni più approfondite appaiono così frammentarie e discordanti, tanto che nei dizionari disciplinari la voce “odio”, a differenza di quella ”amore”, può in qualche caso significativamente mancare. Come vedremo, anche la psicoanalisi che pur ha contribuito all’estensione concettuale di questo termine e al riconoscimento delle sue molteplici funzioni, registra al suo interno una varietà di posizioni. Queste possono andare dal concepirlo come sentimento primario oppure come una passione matura dell’individuo, vederlo come normale espressione dell’istinto o piuttosto come fenomeno reattivo a condizioni traumatiche o a offese narcisistiche. Data la particolare rilevanza dell’odio nelle sindromi narcisistiche, questo lavoro propone inoltre una specifica ipotesi clinica legata al lavoro di N. Symington (1993).

Nell’opera di Freud è a partire dai casi clinici, principalmente quelli legati alla nevrosi ossessiva, che emerge più chiaramente il ruolo dell’odio nella malattia nervosa: il tema dell’ambivalenza amore-odio, diverrà motivo di costanti riflessioni e diverse revisioni della metapsicologia psicoanalitica. Accostandosi ai problemi connessi all’omosessualità e alla psicosi, l’attenzione di Freud fu spinta ancor di più verso i primi momenti dello sviluppo ontogenetico che definirà narcisistici. Nel 1914 (Freud 1914) formula per la prima volta l’ipotesi di una fase precoce dello sviluppo, il narcisismo primario, che si caratterizza per la comparsa dell’Io infantile e per il coincidente investimento libidico e narcisistico di se stesso e del proprio corpo. In questa fase libidicamente pre-oggettuale, “His Majesty the Baby” attribuisce a se stesso le cure materne su cui poggia e di cui gode, senza riconoscerle come provenienti da una realtà esterna e separata. Questo stato costituisce il fondamento per la famosa enunciazione dell’odio quale prima risposta psichica alla percezione della realtà esterna (Freud 1914): questa solleva l’odio perché minaccia lo stato d’onnipotente autosufficienza che distingue il narcisismo primario. La frustrazione e il dispiacere, connessi alla separazione, costituiscono in questo senso i precursori dell’odio. Esso è quindi posto in una fase evolutiva antecedente alla possibilità di sperimentare amore e al contempo viene legato al riconoscimento dell’esteriorità dell’oggetto: l’odio “compare con la scoperta dell’oggetto o meglio che l’oggetto viene scoperto nell’odio” (Nielsen 2011, pag. 35).  È per questo motivo che taluni autori pongono l’accento sulla sua funzione separativa e d’individuazione (Freud 1915, Gabbard 2003, Nielsen 2011,).  Pur se Freud in Pulsioni e loro destini (1915) confessa che lo statuto metapsicologico non è ancora ben chiaro, afferma anche che originariamente l’opposto dell’odio non è l’amore bensì l’indifferenza e che la comune contrapposizione si potrà stabilire solo con lo sviluppo successivo. Chiarisce inoltre che una pulsione di per sé non può odiare un oggetto: è l’Io totale che odia l’oggetto perché provoca sentimenti spiacevoli. Odio e amore non corrispondono quindi a pulsioni ma ad atteggiamenti dell’Io e, rispetto all’odio, Freud ne riconosce l’importanza per l’autoaffermazione dell’individuo. Con la successiva revisione teorica della teoria delle pulsioni (Freud 1920), il padre della psicoanalisi collegherà l’odio alla pulsione di morte, fonte della distruttività dell’individuo. L’odio, da questo vertice, “indica la via” (Freud 1922) alla distruttività che è la rappresentante della pulsione  di morte.

Dobbiamo a Melanie Klein una netta discriminazione tra invidia e odio (Klein 1928, 1935, 1937, 1957) laddove la prima anticipa e si differenzia dalla seconda. Aderendo al concetto di pulsione di morte, l’Autrice ritiene che l’invidia primaria ne sia un derivato e abbia nell’oggetto buono il suo obiettivo: lo vuole svuotare e distruggere selvaggiamente perché in possesso di tutto quello che l’organizzazione narcisistica sottostante vuole avocare a se stessa. Sebbene l’odio talvolta si associ all’invidia, questo è un sentimento più tardivo che si connota per la funzione difensiva e reattiva agli stati d’intensa frustrazione, a loro volta percepiti come presenza di un oggetto cattivo da cui l’infante si sente perseguitato. Anche W. R. Bion ha riservato un posto d’elezione per l’odio che, insieme all’amore e alla conoscenza, è considerato una delle tre passioni umane fondamentali che hanno la funzione di legare l’individuo all’oggetto. L’odio genera un paradosso: mira a distruggere il legame ma allo stesso tempo ne crea uno diverso e più persistente. Anche secondo la visione di quest’Autore l’odio, l’invidia e la distruttività sono alla base delle patologie psicotiche più gravi perché possono dar luogo ad un mancato sviluppo o alla distruzione dell’apparato mentale (Bion 1962, 1967). Particolarmente originale e importante è la visione dell’aggressività di D. W. Winnicott. Non differenziandola dall’odio, egli sostiene che non si identifica con una specifica pulsione ma è bensì una forza vitale che conduce all’attività e al bisogno di un oggetto esterno (Winnicott 1950). L’aggressività assomiglia quindi a una forza appetitiva e costituisce una componente dell’amore primitivo per la madre (“amore spietato”) che solo secondariamente può essere messa al servizio della distruttività (1947). Winnicott ritiene fondamentale l’esperienza primaria legata al poter odiare l’oggetto da cui si dipende, senza la quale non è possibile accedere all’amore. Talvolta, nei suoi lavori, l’odio è invece considerato come un sentimento abbastanza evoluto, espressione di una maturazione strutturale del bambino. Una posizione diversa e ancor più distante dal modello pulsionale è quella di H. Kohut, il capostipite della psicologia del Sé e fautore, negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, del rinnovato interesse per il narcisismo. Considerando fondamentale il ruolo dell’ambiente nella soddisfazione dei bisogni narcisistici infantili al fine di favorire un sano sviluppo, Kohut sottolinea la natura narcisistica della rabbia quale inevitabile reazione ai fallimenti empatici. Le ferite inferte all’autostima e al senso di autoaffermazione, soprattutto se ripetute, generano rancore e risentimento che possono a loro volta strutturarsi nel sentimento di odio (Kohut 1977). Con precisione sempre maggiore, diversi psicoanalisti hanno descritto le numerose funzioni di cui l’odio può incaricarsi nell’economia e nella struttura della personalità individuale e nei gruppi: difensive, di organizzazione, evolutive, di legame e distruttive (per una bibliografia esaustiva rimando a “I colori dell’odio. Analisi di una passione e delle sue maschere”, Nielsen 2011). Appare inoltre solida la notazione che l’odio ha un’intima connessione con i fenomeni narcisistici sia da un punto di vista evolutivo che psicopatologico.

Vorrei ora proporre, anche attraverso un’esemplificazione clinica, un’ipotesi psicopatologica legata all’opera di Neville Symington (1993). Egli si pone tra coloro che, come ad esempio Fairbairn e Winnicott, privilegiano l’aspetto relazionale a quello puramente pulsionale, ritenendo non la scarica bensì l’oggetto in sé la meta principale della pulsione. Conseguentemente l’odio è concepito come il prodotto del valore traumatico dei fallimenti relazionali e ambientali. Symington afferma che il Sé è intrinsecamente relazionale: “Se quando un bambino nasce non avesse la tendenza innata a cercare la madre, il seno, sarebbe morto. Tale natura relazionale permea ogni parte del Sé, così come la forza di gravità permea tutta la materia” (pag. 52). Il Sé ha una natura composita, data dalle diverse relazioni che l’individuo instaura durante la vita attraverso lo schema soggetto-oggetto. Per sostenere tale concezione del Sé relazionale, Symington propone l’esistenza di un oggetto psichico che definisce vivificatore. Egli infatti afferma che la relazionalità scaturisce da “un oggetto emozionale associato al seno, associato alla madre, o, più tardi nella vita, associato all’altro; si trova dentro l’altro, un oggetto che una persona cerca come alternativa a se stesso… Chiamo questo oggetto il vivificatore (lifegiver)… È un oggetto psichico posto in relazione a un seno, un pene, una vagina, il Sé, l’analista… Pur non essendo nessuno di questi oggetti primari, oggetti di fertilità e nutrimento, non ha una sua esistenza separata da questi stessi oggetti” (pag. 71-72). Secondo Symington, l’esistenza psichica del vivificatore è legata alla sua scelta che, una volta avvenuta, ne mette in moto l’esistenza: da allora in poi, pur associandosi agli oggetti, ne rimane indipendente. Il vivificatore oltre a determinare la relazionalità, orienta l’attività psichica e costituisce la fonte creativa dell’azione dell’individuo.

Il narcisismo è conseguentemente concepito come un’opzione diversa, legata al rifiuto del vivificatore: quando il legame con l’oggetto è traumatico, quando l’ambiente non si lascia influenzare permettendo uno scambio reciprocamente creativo, il bambino può rifiutare il vivificatore e scegliere in contrapposizione il proprio Sé come oggetto. Tale ripudio, sempre derivante da un trauma, non può mai avvenire del tutto: il bambino può infatti scegliere di non entrare in contatto emotivo con la madre ma non può fare a meno del nutrimento e più in generale dell’assistenza che lo tiene in vita. Tale situazione provoca una scissione del Sé, in cui una parte si rivolge contro quella contenente il vivificatore: l’individuo, attraverso l’odio, cerca di disconoscere e separarsi da tutto ciò che attiene ad esso ovvero a quella parte di sé che si rivolge alla relazione con l’altro. Sarà allora il grado della scissione e la percentuale di vivificatore effettivamente disponibile a determinare la configurazione individuale e psicopatologica (decade quindi, secondo Symington, la necessità dell’usuale discriminazione tra forme positive e negative o maligne di narcisismo). L’odio, l’invidia e la distruttività, la cui intensità dipende dal grado di scissione, si rivolgono contro il vivificatore e sono sempre attive. Dato che tale condizione è antirelazionale e mancante sia della matrice creativa sia di quella della coerenza, il narcisista è costretto a ricorrere alla manipolazione degli altri al fine di ottenere ciò di cui ha bisogno. La seduzione e la stimolazione superficiale, conseguenti al processo di erotizzazione del Sé che si caratterizza a quel punto per la grandiosità, si configurano come attività di godimento alternativo all’impossibilità di attingere dalla propria creatività.

Giovanni si presenta in uno stato di grande angoscia concernente sensazioni di fallimento esistenziale. Era appena rientrato dall’estero dove aveva lungamente progettato di trasferirsi per sposare una ragazza: la nuova vita era durata appena sei giorni perché aveva scoperto che il posto non gli piaceva e che non sentiva più alcun desiderio sessuale nei confronti della compagna. Ben presto si dispiega apertamente il suo funzionamento narcisistico: crede che nella vita possa diventare qualunque persona desideri e concepisce il mondo come un insieme d’isole tra le quali deve trovare quella più gratificante e interessante del momento. C’è sempre un’ombra d’insoddisfazione su dove è e su quello che ha perché crede ci sia sempre un luogo o un oggetto ideale per cui darsi pena al fine di un’epifania di se stesso. Il contatto con gli altri è fugace, esclusivamente finalizzato al rispecchiamento circa il proprio essere brillante, simpatico, interessante, intrigante o dotato di qualche particolare talento: “Io mi beo di queste cose!”. Sempre alla ricerca di una dimensione di trasgressivo trionfo, non ha mai avuto un rapporto sentimentale duraturo ma solo complici e fuggevoli incontri con donne già impegnate. Quando l’avventura rischia di trasformarsi in relazione, la interrompe bruscamente lamentando il calo del desiderio o la scoperta di qualche difetto nell’altra. Dopo qualche tempo porta il seguente sogno:

Sto camminando in una cittadina che non conosco, ho fame e devo decidere dove andare a mangiare. Cammino per un po’ e vedo un ristorante, entro e mi siedo al tavolo. Il cameriere mi porta il menù, mentre lo sfoglio, mangio un po’ di pane dal cestino. Dopo un po’ penso che potrebbe esserci un ristorante migliore che cucina cose migliori e quindi mi alzo e me ne vado in cerca di un altro ristorante. Vicino a un fiume ne trovo un altro, entro, mi siedo e ricomincio a mangiare del pane dal cestino. Penso di nuovo che potrebbe essercene un altro migliore e quindi me ne vado. A quel punto non ho più fame e decido di tornare a casa… Vado verso una casa diroccata, non so se è casa mia, ma so che devo andare lì, so che c’è una donna all’interno che mi rifiuterà. Ma è lì che devo andare”.

È utile evidenziare che Giovanni, nella discussione che ne seguì, affermò compiaciuto di sentirsi perfettamente rappresentato dal sogno nella sua eccitante e costante ricerca di situazioni e oggetti superiori che peraltro si rifletteva nell’indecisione quotidiana di cui si lamentava. Sembrava indifferente al nutrirsi di solo pane, alla casa diroccata e alla dinamica che lo legava alla donna rifiutante, del tutto inconsapevole che non potesse esistere nutrimento alla sua altezza. Le nostre azioni, secondo Symington, sono sempre originate da una fonte che può essere autonoma, cioè legata alla scelta del vivificatore, oppure da una la cui origine è discordante perché ne rappresenta il ripudio. Pur se l’origine non è mai pura, “l’azione che sgorga da una fonte discordante soffoca la creatività… controlla l’operatività mentale – percezione, memoria, giudizio, immaginazione…” (pag.161), rendendo i sentimenti indicatori impropri. Il narcisista non può riconoscere che le proprie azioni derivino da una fonte interna, le interpreta piuttosto come risposte a pressioni esterne. Nel caso di Giovanni la fonte discordante è rappresentata dalla donna che lo rifiuta (che condensa e rappresenta la relazione con una madre gravemente disturbata) e con la quale s’identifica nella funzione esercitata. L’odio, indirizzandosi contro il vivificatore e di riflesso verso gli oggetti, si pone così a difesa della mentalità narcisistica che, generando eccitazione mediante l’erotizzazione del Sé, vede nel tagliarsi fuori e nell’escludersi il trionfo sull’oggetto. In questo senso, i continui cambiamenti di Giovanni non rappresentano una forma di attività bensì il mascheramento di una passività disperante attraverso immagini illusorie. È importante osservare che pur se il paziente rivolge le spalle al vivificatore, non può però fare a meno del nutrimento che gli oggetti gli assicurano (il pane, gli apprezzamenti superficiali così come le sedute a cui veniva regolarmente) anche se, per opera dell’odio e del disprezzo, non lo riconosce in quanto tale. Ciò si rifletteva inevitabilmente nella relazione transferale caratterizzata in quel periodo dal prendere lo stretto necessario per potersi illusoriamente auto sostenere. La scissione del Sé, afferma Symington, è originariamente una risposta al panico generato da un trauma e determina la dissociazione dalle parti infantili bisognose, dando così adito al “bozzolo narcisistico”. In tale configurazione, l’odio si scatena ogni qualvolta il narcisista entra in contatto con il Sé altrui perché lo riconduce alla propria fragilità, mettendo in crisi l’illusoria teoria di un mondo in cui la separatezza e la differenza sono escluse. Symington ritiene necessario aiutare il paziente a svelare tale mentalità a partire proprio dalle illusioni consolatorie, cogliendo e valorizzando al contempo le risorse positive e autentiche. Questo processo porterà invariabilmente il narcisista a confrontarsi con la distruttività e con l’odio che possono talvolta essere così insopportabili da spingere al suicidio.

Symington sottolinea più volte la natura esplorativa e di ricerca della propria ipotesi, rifuggendo da qualunque affermazione definitiva circa lo stato delle cose. Nel suo lavoro il ricorso a qualche definizione assiomatica si accompagna tuttavia ad un’elegante linearità nel rendere intellegibili i complessi fenomeni clinici legati all’odio e al narcisismo che tuttora pongono grandi difficoltà al nostro lavoro, così come alla società dei nostri tempi. A mio parere, il concepire lo snodo tra normalità e narcisismo come il risultato di una scelta individuale a fronte di condizioni traumatiche, ha il vantaggio di coniugare gli aspetti intrapsichici con quelli relazionali rimediando così all’usuale contrapposizione teorica tra chi, schematizzando, sottolinea gli uni a scapito degli altri. È parimenti interessante il tentativo di spiegare i differenti quadri clinici attraverso un fattore quantitativo come il grado di scissione del Sé, piuttosto che con elementi qualitativi legati alle strutture del Sé o alla natura delle pulsioni che conducono molto spesso a parlare di narcisismi piuttosto che di narcisismo. Forse è ancor più rilevante la sottolineatura di una dimensione verticale, potremmo dire, della problematica narcisistica: per Symington questi pazienti sono in lotta non solo con gli oggetti, così come le principali teorie ci hanno giustamente illustrato, ma anche con un’importante porzione di loro stessi laddove, attraverso l’odio, cercano di estinguere la fonte più consistente che orienta agli altri e alla vita nel suo complesso. Ma, a ben vedere, ogni singolo punto di chiarimento apre numerose questioni che meriterebbero ulteriori riflessioni.

 

Bibliografia

Bion W. R. (1962) Apprendere dall’esperienza. Armando, Roma

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Freud S. (1915) Metapsicologia. Pulsioni e loro destini. Trad. it. OSF Vol. VIII, Torino,    Boringhieri, 1989

Freud S. (1920) Al di là del principio di piacere. Trad. it. OSF Vol. IX, Torino, Boringhieri, 1989

Gabbard G. O. (2003) Amore e Odio nel setting analitico. Casa Editrice Astrolabio, Roma

Green A. (1995) Seminari romani. Edizioni Borla, Roma

Klein M. (1928) I primi stadi del conflitto edipico. In Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino, 1978

Klein M. (1935)  Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi. In Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino, 1978

Klein M. (1937) Amore, colpa e riparazione. In Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino, 1978

Klein M. (1957)  Invidia e gratitudine. Martinelli, Firenze, 1985

Kohut H.   (1977) La guarigione del Sé. Trad. it.Torino, Boringhieri, 1980

Nielsen N. P. (2011) I colori dell’odio. Analisi di una passione e delle sue maschere. Raffaello Cortina Editore, Milano

Pessoa F. (1998) L’ora del diavolo. Passigli Editori, Firenze-Antella

Symington N. (1993) Narcisismo. Una nuova teoria. Edizioni Scientifiche Ma. Gi., 2001

Winnicott D. W. (1947) L’odio nel controtransfert. In Dalla pediatria alla psicoanalisi. Martinelli, Firenze, 1973

Winnicott D. W. (1950) L’aggressività ed il rapporto con lo sviluppo emozionale. In Dalla pediatria alla psicoanalisi. Martinelli, Firenze, 1973

 

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