Il resto è silenzio

di Irene Giancristofaro

immagine Giancristofaro

Mia cara Francesca, 

spero che tu abbia trascorso delle serene vacanze natalizie, malgrado questo sia stato il primo natale senza tuo padre, come lo è stato per me. Soprattutto in momenti come questi, si sente molto la mancanza di coloro che ci hanno lasciato e di qualcosa che non sarà più. Le emozioni e gli stati d’animo che provo al pensiero della scomparsa di mio padre sono ancora molti. Avverto la sensazione di uno strappo. A volte, mi ritrovo ad essere incredula rispetto a tutto ciò che è accaduto solo due mesi fa e mi sembra che lui possa di nuovo rientrare a casa, dopo aver giocato a carte con gli amici. Poi penso ai giorni trascorsi in Hospice… alle attese e alle paure che ho provato e la realtà mi sguarnisce di fantasie. In quel luogo di confine, dove ci si sente fuori dal tempo, ho anche incontrato e perduto delle persone davvero straordinarie.

L’esperienza che ho vissuto durante la malattia e la morte di mio padre ha creato una sorta di frattura con la vita che avevo avuto fino ad allora. Certe esperienze hanno il potere di cambiarti profondamente e di avvicinarti a quella che, credo, sia l’essenza della vita stessa e che non riguarda niente altro che l’amore e il senso di piacere che esso procura. L’amore che si prova in quello che facciamo e verso le persone di cui ci occupiamo. Nonché verso noi stessi. Solo questo, a mio avviso, rende tutto più sopportabile, anche quando le cose che ci accadono sembrano prive di senso o ingiuste.

“La vita è originale …” scrive Svevo ne “La coscienza di Zeno”, nel considerare che tutto ciò che è stato architettato nel creato con mirabile maestria, sembra non avere alcun senso, quasi fosse uno spreco. O forse siamo noi che non riusciamo a coglierlo, assuefatti ad una strana indolenza che non ci fa guardare un po’ più in là o un po’ più in noi stessi. Quando rinunciamo a spingerci oltre quei confini che diventano recinti, non sorridiamo al tempo che ci appartiene ma assaporiamo solo l’asprezza di sale di quelle esperienze che ci faranno sentire redenti. Spesso preferiamo essere assolti piuttosto che avere diritto alla felicità. Troppe volte mio padre non ha potuto scegliere quello che voleva, come la maggior parte delle persone del resto. Non era depositario di quel genere di esistenza che io sentivo di dover avere, dove la libertà non è un disagio né una colpa. Io avevo scelto la libertà, lui l’obbedienza. Combattendolo, cercai di non perdermi. Una lotta impari, perché il suo era un potere distratto. Il dolore che mi causava mi convinceva delle aspettative che deludevo e, al tempo stesso, della mia determinazione a volerle deludere. Rinunciando al mio istinto avrei incontrato solo ciò che non sarei mai stata. Quella perdita non mi avrebbe permesso di dare a mio padre ciò che, un giorno, gli sarebbe costato chiedermi.

È come vedere dei cerchi che si chiudono.

La morte di una persona cara può farci perdere nella rabbia e nel dolore oppure portarci a scoprire anche risorse insospettate, adatte soprattutto a nutrire quelle sofferenze che ci restano accanto mute.

Iniziando a scrivere questa lettera non ho pensato alle cose di cui ti avrei parlato. Ho sentito solo il bisogno di farlo. Non so se di seguito riuscirò ad esprimere bene ciò che sento. Scriverò le cose come mi vengono. Sono cose difficili anche per me.

Abbiamo entrambe attraversato un anno molto duro. Ora sento il bisogno di qualcosa di buono che mi dia di nuovo forza e speranza, alleviando la stanchezza. È faticoso sostenere l’assenza di un padre, a cui tutti mi hanno sempre detto di assomigliare. Mi voleva molto bene ma ha sempre avuto difficoltà a dimostrarmelo. Me lo raccontava lo sguardo di mia madre, dietro alla quale lui tendeva spesso a nascondersi. Un gioco delle parti portato avanti per anni, fino a consolidarsi in maniera necessaria… forse, come mi dicesti una volta, i padri tendono a rifugiarsi all’ombra delle madri nella relazione con i figli. Anche tuo padre è stato così. Probabilmente si percepiscono meno preparati e meno capaci di stare dentro certi rapporti … a mio padre nessuno ha insegnato ad essere un padre. Il suo è stato assolutamente incapace. È voluto restare figlio. 

Mi piacerebbe saperne di più sul rapporto tra padri e figli … devo provare a cercare qualche libro a riguardo. La letteratura è piena di libri sulle madri. Trovo che si parli troppo spesso di loro e non abbastanza dei padri.

Mi piacerebbe scrivere qualcosa su mio padre, che mi aiuti soprattutto a prendere meglio le distanze dalle angosce di morte che sto provando, dopo aver vissuto tutta l’esperienza dei suoi ultimi giorni di vita. Scrivere mi aiuta molto. E a te cos’è maggiormente di aiuto nei momenti difficili?

Quando scrivo lo faccio in un silenzio necessario. Come sai, vivo in campagna, dove il silenzio lo incontro come l’aria che respiro. Mi permette di restare più vicina a me stessa per pensare, capire, piangere, ricordare e, anche, perdonare. Trovo che, in genere, le persone si stiano allontanando sempre di più dai silenzi e dai ritmi armonici della natura, come se non li si meritasse o non li si comprendesse. La morte stessa fa parte del ritmo della vita. Una morte a cui tendiamo a non pensare, come se non ci appartenesse o appartenesse agli altri e che, quando ci tocca da vicino, sembra sorprenderci. In quei momenti si avverte la sensazione che tutto ci crolli addosso e facciamo fatica ad accettarla. La morte può rompere equilibri, minare certezze e derubarci di quanto abbiamo di più caro, come fosse un ladro. Rimane un mistero. Pauroso, ma anche crudelmente necessario. Necessario perché, forse, concepirsi all’infinito sarebbe più devastante dell’idea della nostra finitezza. Una finitezza che, almeno per ora, faccio fatica a raffigurarmi nel loculo di mio padre. Preferisco pensare a lui continuando a parlargli da casa. Non mi aiuta molto andarlo a trovare al cimitero. Quando vado via mi sembra di fargli quasi un torto lasciandolo tutto solo, specialmente ora che fa freddo. A volte mi ritrovo a domandargli: ora dove sei? Se potessi tornare di nuovo con noi, lo faresti? Fortunatamente continuo ad incontrarlo nei sogni e a parlargli. I sogni diluiscono i ricordi delle ansie e delle angosce che acquistavano spessore davanti ai referti clinici mostrati tra le mura anonime del reparto di oncologia.

Ogni dubbio dava illusioni e speranze, necessari ad alimentare un inganno. Quando la diagnosi non fornì più nascondigli, sentii il rumore sordo di un pugno allo stomaco e vacillai. Mi dissero che piccole macchie scure fiorivano sulle sue ossa. Lo avrebbero consumato lentamente, con una crudeltà che non dovrebbe neppure essere immaginata.

Con il suo ricovero in Hospice entrai in un tempo diverso, sospeso e quasi immobile. Quello dell’attesa. Un tempo dilatato che si consumava lontano e quasi di nascosto dai normali impegni quotidiani, come a voler allontanare la malattia e la morte dalla vita stessa. Come fossero una vergogna.

I giorni erano diventati una sequenza di rituali condivisi con i medici, gli infermieri e gli operatori. In una stanza rosa, per mio padre, era iniziata la fase della dipendenza ma anche della rassicurazione. Disteso su quel letto non era più il papà che ero abituata a vedere. Quando lavorava cantava spesso ed era felice, soddisfatto di quello che faceva. Quando lo sogno è sempre impegnato al negozio, a servire clienti o a sistemare la merce sugli scaffali. Anch’io, a volte, sono insieme a lui. In Hospice, invece, era come un bambino a cui bisognava mettere e togliere il pannolone, che bisognava nutrire con pastina, omogeneizzati e frullati di frutta perché non riusciva più ad ingoiare il cibo a pezzi, a cui occorreva dare le medicine e fare tutta la pulizia del corpo. Un corpo che faticava sempre di più a muoversi e che necessitava di continui massaggi e medicazioni.

Gli infermieri e gli operatori lo chiamavano con vezzeggiativi quali ‘ tesoro’ o ‘stellina’. Una delle operatrici provava, di tanto in tanto, anche a cullarlo muovendo un’estremità del letto. Mio padre era contento e sorrideva a quei gesti materni. Io, invece, ero quasi gelosa e mi sembrava che certi diritti dovessero appartenere solo a mia madre, a mia sorella e a me. Sono stati giorni molto difficili per tutti. Difficili e violenti. Una violenza che fa sentire nudi. Il dolore, a cui si ha la forza di concedersi completamente, ci cambia pelle. E ora in famiglia, ognuno ne sta risentendo a modo suo. C’è chi resta in silenzio, chi non si ferma mai e inventa continui impegni, chi si isola dentro una canzone e chi ha deciso di prendersela con Dio. Io sento i morsi dell’ansia nello stomaco e la sensazione di aver passato una linea di confine, oltre la quale devo imparare a conoscermi ancora una volta. Mi avvio verso un nuovo percorso, anche se sono così stanca che preferirei dormire per cento anni.

Porto con me il ricordo di tutte quelle persone che mi sono state vicine come desideravo. Sono prevalentemente donne che riescono a farsi carico di un dolore già incontrato in passato, che lascia feriti a metà;

Porto con me emozioni spigolose e rotonde che l’esperienza della malattia di mio padre è riuscita a darmi;

Porto con me le emozioni mancate;

Porto con me i racconti di ogni sua ultima volta;

Porto con me una forza e una fragilità in più;

Porto con me la sensazione di non aver fatto abbastanza;

Porto con me la consapevolezza di non aver potuto fare di più……e tu, cosa senti di portare con te ora?

Mio padre aveva delle difficoltà, in genere, ad esprimere emozioni e gesti di affetto. È stato severo con me per nascondermi le sue paure. Durante i miei anni di psicoterapia ho viaggiato attraverso i suoi sentieri … una terra da conquistare e riconquistare ogni volta, sempre esponendomi a rischi e pericoli. Per tanto tempo ho marciato attraverso di lui, non perdonandogli assenze e distrazioni. Aderivo a me stessa, ero capace solo di quello, combattendolo come potevo. Lo sfidai su qualsiasi terreno, prima di riuscire a diventare sua alleata. Durante i giorni in Hospice, ho fatto cose che, quando abitavo in un destino diverso, non avrei mai pensato di permettermi. La mia scarsa capacità di concedergli indulgenze, non mi avrebbe mai permesso di accarezzargli i capelli o tenergli la mano. Parlare con lui amorevolmente ma anche con fermezza. Fare massaggi o rincuorarlo sullo stato delle piaghe, come fosse un bambino. 

Ora sento il bisogno di avere un tempo per accogliere quanto mi è accaduto, di stare accanto alle persone care e a tutto ciò che per me è importante.

La psicoterapia mi aiuta molto in questo.

Sto imparando altre cose di me, avendo un diverso coraggio nel guardarmi.

Sto imparando a separare i ricordi dal dolore e dalla rabbia, ma non è sempre facile.

Sto imparando ad accomiatarmi da chi mi ama male, asciugando i rancori.

Sto imparando ad accettare che non si può sempre perdonare, perché non ci sarebbe più giustizia.

Sto imparando a perdonare anche con un silenzio.

Sto imparando ad accettare un tempo immobile, senza pensare che sia un tempo vuoto.

Sto imparando a riuscire a trovare le parole per scrivere tutto quello che mi è accaduto….

Ti abbraccio forte.

                                         Caterina

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