INVIDIA e….il proprio senso di inadeguatezza.

di Francesca Belgiovine

«l’invidia è tristezza per il bene d’altri in quanto ostacolo alla propria superiorità»,

Tommaso D’Aquino

Il tema dell’invidia ci conduce ad esplorare luoghi oscuri, mortiferi e pieni di insidie.

Al centro della scena l’invidia può assumere diverse sfumature; i colori appena accennati possono cedere il passo a colori più accesi ed in questo caso diviene dilaniante, ossessiva, turpe, foriera di progetti crudeli o addirittura omicidi.

Dei sette vizi capitali l’invidia è tra quelli che hanno stimolato maggiormente la fantasia dei letterati e, forse, la più emblematica figura di invidioso l’ha disegnata Shakespeare con il suo Iago: dalla furiosa e tragica invidia di questi avranno origine, a cascata, molti altri delitti, primo tra tutti l’ira omicida di Otello e il suo stesso suicidio.

L’invidia viene definita da colui che la vive: “una brutta bestia…… che ti corrode dentro….non riesci ad apprezzare quello che hai e vedi nell’altro sempre qualcosa di migliore……..non si riesce ad essere oggettivi ….in quel momento l’altro possiede tutto ciò che ardentemente desideri. L’invidia nella sua estremizzazione negativa ti porta a negare gli affetti, non riconosci né parenti né amici e finisce per assalirti, confonderti e possederti”.

Ora, trattandosi di un sentimento che investe l’animo umano è interessante tracciarne un profilo psicologico nonché seguire i processi  psichici che ne sono alla base.

Inevitabile, in questo caso, è inserirla nell’accadere psichico e quindi rendere pensabile quella particolare forma di dolore mentale che si sperimenta ogni qual volta si percepiscono delle differenze con proprio svantaggio.

Nella mente del soggetto invidioso, che desidera ardentemente tutto ciò che non possiede, dilaga una forte emozione negativa da cui conseguono sentimenti di ostilità e rancore tanto da spingerlo a mettere in moto risposte adattative, che se non necessariamente psicopatologiche, sono tali da assicurare un placebo a quel malessere profondo.

Il circolo vizioso è così innescato, l’invidia tesse e scava nella mente del soggetto tanto da riuscire, nel peggiore dei casi, a strutturare  delle vere ossessioni orientando tutta la realtà psichica in funzione della sua elusione. Tuttavia si tratta di una strategia fallimentare in quanto paradossalmente l’invidia in questo modo ne potrà uscire solo rafforzata.

Viene da sé dedurre come questo sentimento sia legato a vissuti distruttivi capaci di disgregare il soggetto a livello profondo tanto da recare un danno vistoso a sé stesso ed anche alle persone a lui intorno poiché egli si rende incapace di amare genuinamente.

In ambito psicoanalitico l’invidia è stata considerata da S. Freud e M. Klein in contesti differenti.

Per S. Freud. (1932) l’invidia, non ha un ruolo autonomo ma acquista importanza in quanto complesso ideoaffettivo legato all’invidia del pene. Per Freud la bambina cade in balia dell’invidia nel momento in cui si rende consapevole della propria evirazione; tutto ciò provoca nella bambina la messa in moto di un desiderio ossia quello di possedere qualcosa di simile.

Nel pensiero freudiano l’invidia nasconde il desiderio di possedere qualcosa che compensi la carenza che la bambina avverte allorché scopre di avere un genitale diverso. Tuttavia, gli assegna un ruolo evolutivo importante, nello sviluppo della psiche femminile, in quanto l’invidia aiuterà la bambina non solo a distogliere lo sguardo dall’attaccamento materno ma farà in modo che la stessa volga il suo amore verso il padre traghettandola nel complesso edipico.

Per  Freud l’invidia quindi nasconde, in realtà, un atavico complesso d’inferiorità tutto al femminile.

Le critiche che sono state fatte a questa tesi freudiana hanno portato M. Klein ed altri studiosi ad avanzare altre teorie.

M. Klein (1957) scrive dell’invidia come di uno stato pulsionale distruttivo che nasconde un istinto… di morte. Se l’invidia non è eccessiva, può essere integrata nell’Io e superata da sentimenti di gratitudine ma quando l’invidia è eccessiva l’invidia diviene  pressoché un sinonimo di distruttività.

Accade che il processo di  scissione  tra un oggetto buono ed un oggetto persecutorio non riesce a conservare le sue caratteristiche evolutive in quanto è proprio l’oggetto buono che viene attaccato e guastato. Ciò significa che ci sarà una difficoltà se non addirittura una impossibilità a trovare un oggetto ideale con cui identificarsi riducendo sempre più la speranza di trovare in qualche luogo un amore ed un aiuto. Inoltre non va trascurato il fatto che la distruzione dell’oggetto è fonte di persecuzione senza fine e più tardi di sensi di colpa.

L’invidia quindi impedisce una buona introiezione; è alla base delle relazioni terapeutiche negative ed avvia a forme patologiche. L’importanza analitica di questo costrutto ci aiuta ad avviarci verso una riflessione.

Ciò significa che l’ipotesi diagnostica si orienta verso un funzionamento mentale che se non puramente psicotico tende quanto meno ad uno stato borderline; ponendoci ipoteticamente di fronte ad un soggetto portatore di questo disagio è bene che il clinico sia accorto e consapevole delle atmosfere esplosive che la relazione ed il processo terapeutico può far scattare rischiando una rottura definitiva. Tuttavia, è difficile stabilirlo a priori poiché è solo all’interno di quella specifica interazione che si può capire cosa l’invidia nasconde e cerca di ostacolare. Porsi obiettivi verosimili può essere produttivo perché probabilmente mostrarsi umili con sé stessi e con le proprie possibilità può aiutare il soggetto ad interiorizzare un modo alternativo di porsi di fronte alle esigenze interne.

Infatti l’istinto di morte non è necessariamente un ospite indesiderato: a piccole dosi diventa un personaggio interessante, ci costringe a prendere atto dei limiti e magari a superarli.

Ma quando l’invidia è eccessiva ad essere attaccata non è solo la relazione intrapsichica ma soprattutto la relazione con l’altro da sé.

Questo si verifica perché il funzionamento mentale del soggetto invidioso è scisso e disorganizzato; riesce a relazionarsi con oggetti parziali ed ambivalenti da cui l’Io non riesce che a ricavare frustrazione.

L’invidia quindi spinge la mente del soggetto in una posizione al limite della psicosi; si potrebbe definire come un vizio mentale che nasconde una fragilità. La psiche, non avendo una struttura sufficientemente attrezzata, non riesce a reggere il dolore che scaturisce dal riconoscersi separato, fuori dalla perfezione narcisistica.  L’invidia in eccesso ci dice che l’identità del soggetto non è arrivata a strutturare un senso di sé integrato e avente una forma ben definita ma al contrario c’è una mancata accettazione del sé che porta inesorabile a voler essere e possedere tutto. Ciò che in fondo l’invidioso desidera è disfarsi del limite di ciò che si è ed anche di ciò che si possiede.

E’ interessante notare come l’invidioso tenta disperatamente di occultare il proprio senso di inadeguatezza e quindi risolvere il suo dramma manipolando e alterando la realtà esterna; inconsapevole che il male maggiore si nasconde nella profondità della sua psiche.

Contrariamente, se e quando è possibile poter innescare un processo che tende all’individuazione, che significa integrazione dei vari frammenti egoici e poter riconoscere volta per volta in ogni esperienza concreta di vita il dolore mentale che ne deriva in modo da poterlo gestire nelle sue funzioni e nel suo divenire, allora l’invidia troverà meno terreno fertile per affondare le sue radici. In questo caso non solo l’esperienza di potersi riconoscere portatori di una identità definita e distinta è meno dolorosa ma essa diviene la potenzialità che spinge il soggetto a tendere verso l’utilizzo delle proprie risorse.

BIBLIOGRAFIA

ALBERONI F. (1991), Gli invidiosi, Milano: Garzanti.

FREUD S. (1932), Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni) in Opere, Boringhieri, Torino 1979, vol.XI.

HAUTMANN G. e VERGINE A. (1991), Gli affetti nella psicoanalisi, Roma: Borla.

KLEIN M. (1957), Invidia e gratitudine, Firenze: Martinelli,1969.

Fight Club

“Noi siamo i figli di mezzo della storia, cresciuti dalla televisione a credere che un giorno saremo milionari e divi del cinema e rockstar, ma non andrà così. E stiamo or ora cominciando a capire questo fatto”. Tyler Durden.

Il lettore che ha già visto il bellissimo film, per la regia di David Fincher, può intuire facilmente perché scrivo una recensione del romanzo di Palahniuk per una rivista che parla di psicologia. In questo caso è sicuramente più gradevole, e agevole, vedere l’opera cinematografica che leggere il libro contrariamente a quanto si è soliti sperimentare. A parte il soggetto però, film e libro non hanno molto in comune, a partire dalla sequenza temporale degli avvenimenti fino a differenze importanti di trama. Quello che però condividono totalmente è l’ambiente, il contesto in sui si svolge tutta la vicenda dei protagonisti. L’America, quella urbana, metropolitana, consumistica, nichilista, assolutamente priva di scopo se non nel valorizzare ed inseguire il possesso di oggetti e appunto di beni di consumo. “Alla fine sono loro che possiedono te” dice il protagonista durante il film. Nel libro invece questo concetto si manifesta implicitamente, attraverso il racconto di una vita routinaria e frenetica dedita ad un lavoro che non dà senso ma che aliena da tutto, attuando una nemesi marxista nel paese del “sogno”. Il lavoro come mezzo per arrivare a consumare, il consumo come scopo di vita, la vita consumata di corsa per guadagnare qualcosa che permetta di comprare, consumare e quindi vivere. Nient’altro. Non di semplice lettura, con una scrittura ripetitiva, cupa, violenta, fatta di slang e slogan pubblicitari. A tratti ipnotica, come ipnotica è la personalità di Tyler che riesce a unire intorno a sé tutta la quinta casta del mondo occidentale, tutti i reietti dell’urbanizzazione e del consumismo. C’è azione senza esserci racconto, c’è affetto pur essendoci solo sesso brutale. C’è dolore, paura, rabbia, emozioni presenti senza mai essere nominate. L’autore riesce ad essere profondo rimanendo sempre in superfice. I personaggi sono degli “evitanti” che darebbero la vita per l’altro, per il loro compagno, camerata o amico antropomorfo. C’è cameratismo ma non “leccaculismo” vicendevole. Il linguaggio è rude, violento, minimalista, fastidioso ed essenziale. Un clima perennemente noir, dove ossimorica insonnia ipnotica la fa da padrone e non permette di distinguere la veglia dal sonno; ci si ritrova in uno stato di coscienza sfumato, senza confini e soluzione di continuità. Da questa condizione emerge, paradossalmente viva, la malattia unico fugace motivo di scambio di umanità. Ci si incontra solo da malati e tra malati, ci si abbraccia, ci si tocca, si condivide, si piange solo se si ha un male che con ogni probabilità accorcerà la nostra agonia terrena. Si è costretti a fingersi malati per incontrare un altro essere umano: l’apoteosi della nevrosi. Questo fino a quando non incontriamo il nostro alter ego, qualcuno che ci apre gli occhi, che ci fa vedere ciò che nascondiamo a noi stessi, che agisce così come noi vorremo agire se fossimo come lui e se avessimo il suo coraggio. Il coraggio di combattere; non in senso metaforico, o almeno non solo. Combattere non per una causa giusta o per fare la rivoluzione ma semplicemente per il piacere di farlo, per sentirsi vivi. Non per raggiungere chissà quale ideale, raggiunto il quale ci ritroveremmo nella stessa situazione di prima, a cercare di raggiungerne un altro, e un altro ancora, come una specie di Sisifo che reifica tutto e tratta come oggetto qualsiasi scopo umano, anche la felicità. Già, vi si scorge la reificazione di qualsiasi relazione, tutto diventa roba da consumare, con un processo di divinizzazione al contrario, in cui un naturale afflato diventa oggetto da acquistare. C’è la classica inversione mezzi fini, non come sofisma logico ma come distorsione esistenziale. Ad un certo punto del romanzo, ti viene voglia di uscire di casa e prendere a pugni il tuo vicino di casa che ha il cane che ulula ad ogni passaggio di sirena. Ecco, mi sono lasciato trascinare anch’io! Sarà il fascino di Tyler?

Dal seno al sogno attraverso l’illusione

di Valentina Pieramico

pieramico

 

“Sognai che eravamo a Londra, nel nostro negozio preferito, dove c’era una scalinata circolare che collegava i vari piani. Correvamo su e giù per queste scale afferrando delle cose qua e là per farne dei regali di Natale ai nostri amici. Ce la spassavamo un mondo, sapendo che, come al solito, avremmo finito per tenere la maggior parte delle cose per noi. Improvvisamente, mi resi conto che Donald era vivo e pensai con sollievo: “Ora non mi dovrò più preoccupare per i biglietti di Natale! Poi stavamo seduti al ristorante, bevendo il caffè del mattino, come al solito (in effetti andavamo sempre a prendere il caffè al bar la mattina del sabato). Stavamo uno di fronte all’altra con i gomiti sul tavolo, quando io lo guardai dritto in faccia e gli dissi: “Donald, c’è qualcosa che dobbiamo dirci, qualche verità che dobbiamo dire. Che cos’è?” Con i suoi occhi azzurrissimi fissi nei miei, disse: “Che questo è un sogno”. Io risposi lentamente: “Ma sì, certo, tu sei morto. Sei morto un anno fa”. Ripeté le mie parole: “Sì, sono morto un anno fa”.
Fu con questo sogno di gioco che riuscii a sperimentare la vita e la morte, la sua e la mia, come una realtà” (Winnicott, 1995, p. 26).  Clare Winnicott
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