Dialoghi nella stanza d’analisi

Claudio Merini, Dialoghi nella stanza d’analisi. Collana “Punti di vista”, Edizioni Psiconline.

Il testo è composto da una serie di brevi racconti per buona parte dialogici, un’invenzione letteraria che segue il criterio della verosimiglianza: in ogni racconto proprio questi dialoghi costruiscono la relazione fra uno psicoterapeuta, sempre il medesimo, e un suo paziente, ogni volta diverso, che gli narra la propria dolorosa differenza. Il lettore è con loro: osservatore introdotto nella stanza di analisi, si interroga sul senso di questa relazione, in particolare sulla funzione dell’analista. Man mano che scorre le pagine, il lettore prende coscienza della complessità di una risposta compiuta. L’esperienza analitica via via gli si configura come opera  aperta.

Ciascuno dei racconti conferma questa complessità: da un lato il punto di vista del paziente, qui riconosciuto come interlocutore analitico, espressione di urgenze dolorose scavate nella propria storia (pertanto predisposta alla narrazione più che al saggio); dall’altro, il punto di vista dell’analista che rivive/elabora quelle urgenze attraverso il filtro non solo delle proprie teorie ma anche della sua stessa vita interiore. C’è di più: nel microcosmo della stanza di analisi il discorso del paziente/interlocutore si intreccia con un dialogo a due voci che animatamente si rincorrono, spesso si scontrano, all’interno dello stesso soggetto: quella  in terza persona del dottore/narratore, tutto compreso  nel ruolo di osservatore esperto e imperturbabile, preposto allo scioglimento dei nodi dell’anima, e quella dell’analista/personaggio che si esprime in prima persona, intensamente compenetrato nei sensi delle parole che ascolta, attraversato di rimbalzo da memorie, associazioni, emozioni attinte al bagaglio della propria esperienza. Una dissociazione pirandelliana, come ci racconta lo straniamento del dottor D., impalato sull’ingresso di casa, davanti alla targa con scritto il suo nome, preceduto da ‘dott.’ (cfr. p. 183). Da qui il controcanto di dubbi e obiezioni dell’analista intorno agli schemi interpretativi che il suo alter ego tenta via via di applicare, un controcanto che porta spesso accenti di insofferenza impertinente. Dunque la relazione analitica risulta polifonica e dissonante: il personaggio analista tende a rompere la fissità di qualunque schema teorico, diventa una figura di spostamento mentre indaga l’esperienza del paziente/interlocutore ponendola in rapporto con la propria. Si tratta di una ricerca complessa che richiede una pluralità di strumenti di indagine, anche aldilà delle competenze strettamente professionali (per esempio il teatro, la musica, la letteratura). Così il campo di ricerca e i punti di vista si amplificano, intervengono nuovi materiali di indagine; la stessa stanza d’analisi si apre: i confini spaziali, così come quelli temporali, dilatandosi disegnano nuove imprevedibili geometrie, nonostante l’evidenza persistente dell’interno accogliente e del giardino rigoglioso di sfondo, nonostante la scansione inesorabile dei tre quarti d’ora canonici, non a caso richiamati più volte nel corso dei racconti.

Certo il paziente/interlocutore resta escluso dal confronto serrato che coinvolge i due alle sue spalle: effetti gliene tornano di riflesso solo quando un qualche punto di precario equilibrio, una qualche parziale mediazione riesce a mettere d’accordo il dottore con l’analista. I silenzi, invece, lo coinvolgono: i silenzi sono inclusivi, segno della consapevolezza di domande in sospensione, consapevolezza che accomuna paziente/interlocutore, analista e dottore: pur seguendo tragitti e ritmi diversi, essi vagano insieme cercando la difficile messa a fuoco dell’oggetto comune; pur entro confini dilatati e poco definiti, ancora una volta la stanza permane e li tiene insieme, luogo fisico di questa condivisione. E sono silenzi densi di attesa e fertili, capaci di generare una vicinanza speciale, proficua per lo sviluppo della relazione analitica.

Questa visione aperta e complessa della psicoterapia si rispecchia nella scrittura dei racconti che risulta appunto plurale: dal registro formale del dottore/narratore in terza persona a quello informale dell’analista/personaggio. Colpisce soprattutto la tensione lirica, fino alla solennità, che spesso attraversa il discorso dei pazienti/interlocutori: una sintassi semplice, un linguaggio chiaro e senza orpelli, scavato e prosciugato dal dolore che lo ispira, costante dominante di tutti i racconti, pur nella differenza dei contenuti.

Proprio questa considerazione estetica, sulla forma che si eleva nel tentativo di aderire al dolore che la sostanzia, ci rimanda a quello che forse è il fondamento di questo testo: riconoscere, indicare, tenere aperto come un rovello scevro da becere semplificazioni, il problema del dolore umano, rendere senza tradimenti la sua natura profonda e labirintica. Il dolore torna allora come esperienza di verità: ma la verità implica bellezza. Impone una ricerca formale senza risparmio e forse per questo apre alla letteratura. Il contrario potrebbe anche risultare una diminuzione o una menzogna. Così declinato, il legame verità/bellezza – non a caso tema centrale della citazione introduttiva di E. Dickinson – diventa urgenza morale.

Luigia Amoroso