di Alessandra Mosca

Volevo salvarla. I conti non si chiudono mai tra me e lei. Tutta la vita l’ho cercata, accattona che non sono altro. Ancora la cerco. Non la trovo. La cerco. Madre dolorosa.
(Mia madre è un fiume, Donatella Di Pietrantonio)
Sono diversi anni che lavoro con pazienti affetti da demenze e che faccio ricerca in questo ambito, ma prima ancora sono stata nipote di un nonno affetto da demenza di Alzheimer e non ho alcuna remora nel dire che le mie scelte in questo campo siano partite e passate attraverso questa malattia e a tutte le sue conseguenze.
Viviamo in un mondo in cui si parla di tutto senza filtri eppure lo stigma sociale verso l’Alzheimer è ancora molto forte. Se ne parla di più ma è ancora percepito come un macigno, una vergogna che pesa sulla vita delle persone malate e delle rispettive famiglie e che impedisce loro, allontanando la diagnosi, di pensare e di gestire la demenza e tutto questo rende la società impossibilitata nel farsi carico concretamente ed emotivamente, di una malattia che colpisce non solo il paziente ma l’intera famiglia.
Oggi la parola Alzheimer ha la stessa valenza che aveva la parola cancro vent’anni anni fa. Spesso mi imbatto in diagnosi di “demenza senile”, un termine che serve solo ad imbrogliare le carte, perché la parola Alzheimer fa paura.
Le demenze rappresentano secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità “una priorità mondiale di salute pubblica” e sono state oggetto, nel G8 del 2013, di un piano integrato di intervento che, in quanto a dispendio di risorse ed urgenza, trova un solo raffronto con quanto fatto negli anni ‘80 per l’emergenza AIDS. Nel mondo, ogni anno si sviluppano oltre 9,9 milioni di nuovi casi di demenza, un nuovo caso ogni 3,2 secondi, divenendo così il primo capitolo di spesa sanitaria in tutti i paesi industrializzati.
La malattia di Alzheimer è la più comune causa di demenza, di cui rappresenta il 50-60 per cento dei casi. Il processo degenerativo che colpisce progressivamente le cellule e le connessioni cerebrali, provoca quell’insieme di sintomi che va sotto il nome di demenza: cioè il declino progressivo e globale delle funzioni cognitive e il deterioramento della personalità e della vita di relazione.
Sono trascorsi più di cento anni dalla prima descrizione della malattia – è stata descritta per la prima volta nel 1906 dallo psichiatra e neuropatologo tedesco Alois Alzheimer – ma ancora oggi non se ne conoscono chiaramente le cause. Attualmente si ritiene non si tratti di un’unica origine, ma di una serie di fattori.
Anche se il principale fattore di rischio è l’età, l’Alzheimer non è l’inevitabile conseguenza dell’invecchiamento, la buona notizia è che invecchiare non è una malattia, mentre lo è l’Alzheimer, con caratteristiche cliniche specifiche che richiedono specifici interventi diagnostici, terapeutici e riabilitativi. E’ definita la «malattia delle quattro A»: perdita significativa di memoria (amnesia), incapacità di formulare e comprendere i messaggi verbali (afasia), incapacità di identificare correttamente gli stimoli, riconoscere persone, cose e luoghi (agnosia) e incapacità di compiere correttamente alcuni movimenti volontari anche attraverso l’impiego di oggetti, per esempio vestirsi (aprassia). Anche se il decorso della malattia di Alzheimer è unico per ogni individuo, ci sono molti sintomi comuni. Può essere suddiviso con molta approssimazione in tre fasi. Nella fase iniziale sono prevalenti i disturbi della memoria, ma possono essere presenti anche disturbi del linguaggio. La persona è ripetitiva nell’esprimersi, tende a perdere gli oggetti, a smarrirsi e non ritrovare la strada di casa. Può essere facilmente irritabile e avere reazioni imprevedibili. Nella fase intermedia il malato si avvia a una progressiva perdita di autonomia, può avere deliri e allucinazioni e richiede un’assistenza continua. La fase severa è caratterizzata dalla completa perdita dell’autonomia: il malato smette di mangiare, non comunica più, diventa incontinente, è costretto a letto o su una sedia a rotelle. La durata di ogni fase varia da persona a persona e in molti casi una fase può sovrapporsi all’altra. La durata media della malattia è stimata tra gli otto e i vent’anni. In Abruzzo, la seconda regione più longeva d’Italia, una stima conservativa indica una presenza di circa 20.000 pazienti. Le demenze rappresentano una delle maggiori cause di disabilità non solo per il paziente ma anche per la rete familiare che si trova ad affrontare, spesso abbandonata a se stessa, una patologia cronica per la quale ad oggi esistono terapie solo palliative.
Ho voluto cominciare con questi dati, non perchè di per sè siano davvero importanti ma perchè nei miei anni di esperienza con la demenza di Alzheimer ho scoperto quanto sia importante poter parlare liberamente, anche cifre alla mano, di questa malattia. Se ne ha paura, quasi non si nomina come se potesse bastare pronunciarne il nome per esserne contagiati. E’ una malattia che terrorizza chi riceve la diagnosi, chi si occuperà del malato ma anche e forse soprattutto chi ancora non è nemmeno in odore di malattia ma sta invecchiando. Sono tante le informazioni tecniche, strutturali, biologiche, genetiche e molecolari che in questi anni abbiamo acquisito in un lavorio scientifico che coinvolge il mondo intero, eppure è una malattia di cui sappiamo poco, pochissimo, perchè tutto ciò che arriviamo a comprendere ci riporta inesorabilmente al punto di partenza, con la stessa domanda “perchè il cervello di quella persona non ha tutte queste placche o non è tanto atrofizzato eppure anche lui ha l’Alzheimer?” non c’è una causa, non c’è una cura, oggi. Arriverà, non sappiamo quando, ma sono fiduciosa che un giorno qualche brillante ricercatore potrà mettere insieme tutti i tasselli e trovare una soluzione a quella che viene percepita come “la bestia nera del XXI secolo”.
Incontro i pazienti tutti i giorni, parlo con i familiari e oggi dobbiamo fare i conti con ciò che abbiamo a disposizione: le nostre competenze, i farmaci che seppur non curativi tentano di rallentare e arrestare la progressione della malattia, tanta passione e una giusta dose di coraggio. Questi gli ingredienti per poter incontrare la malattia, accoglierla, accompagnarla fino alla fine e andare avanti.
Patrizia ha intrapreso il suo cammino attraverso la malattia di Alzheimer due anni fa, quando con fatica, si è accorta che entrambi i genitori si erano ammalati e avevano bisogno di lei. Da allora, la sua vita è diventata un doloroso prendersi cura, prima dei suoi cari e ora un passo alla volta, anche del proprio dolore. “E’ una malattia che disintegra la mia identità!” così mi diceva. “Ricevere questa diagnosi è stata una botta allo stomaco, non credevo fosse vero, non so nemmeno ora cosa voglia dire!”. Una difficile lotta con sè stessa nel disperato tentativo di non prendere consapevolezza che i suoi genitori non erano solo anziani, non erano matti come temeva che la gente potesse pensare, erano malati, avevano l’Alzheimer. La malattia del padre progredisce rapidamente mettendola subito di fronte alla realtà, la mamma andava incontro allo stesso destino. Ciò che mi colpisce ogni volta che incontro un familiare è il modo di raccontare il proprio dolore, tutti rimangono frastornati di fronte alla consapevolezza che ciò che hanno imparato che fosse il loro caro, con questa malattia, piano piano svanisce e si sgretola davanti ai loro occhi. Pazienti nel cui sguardo incontro l’orrore all’idea che il tempo passerà inesorabilmente e sentono di non avere più tempo. Si ritrovano in una dialettica con il malato in cui dapprima si cerca di spronarlo, quasi a volerlo convincere di non lasciarsi sovrastare da una malattia che non permette controllo, poi si convive in una rincorsa a fare la cosa giusta, a cercare la terapia miracolosa che non c’è e poi, quando non c’è più tempo, ci si scontra con un dolore che pesa come un macigno e che non sembra poter prendere nessuna forma se non quella dell’ingiustizia e della rabbia che copre quel dolore che però prepotentemente cercava solo di essere ascoltato.
Quando ho preso in mano il libro della Dottoressa Di Pietrantonio, Mia madre è un fiume, l’ho letto tutto d’un fiato, sentivo la voce di quella figlia come se fosse familiare, così delicata, triste, dolce, arrabbiata, volevo stare lì con lei, farle sentire che non era sola in quel rapporto interiore tra lei e la madre in un impasto di amore e odio. Arrivo così troppo presto alla fine del libro riscoprendomi commossa e arricchita, troppo presto come il vissuto dei miei pazienti “è troppo presto, non può essere già arrivata la fine!” così mi disse Anna. Sono tanti i giorni in cui io ripenso a Esperina e a quella figlia addolorata e coraggiosa, a quella storia che si accomoda con tanta delicatezza e con tanta verità tra le pieghe delle storie che ascolto tutti i giorni.
“Ce la farò dottoressa?” così si rivolge a me pochi mesi fa una mia paziente, figlia di una signora affetta da demenza di Alzheimer. Il sottotesto era “ce la farò a vivere tanto dolore ed occuparmi della mamma?” Ciò che sento di fare con questi pazienti è di essere accanto a loro, accompagnarli nel loro essere depositari di tanta sofferenza, a convivere con l’elaborazione di un lutto di una persona viva riuscendo a tollerare l’angoscia di una ineluttabile perdita, questo ciò che con il mio amico e collega il dott. Giannino abbiamo chiamato lutto bianco. Ciò che sento di primaria importanza per questi pazienti è la possibilità di vivere un viaggio alla continua ricerca di nuove orme per ritrovare il senso del loro cammino che permetta di vivere la separazione, la fine.
Il libro della Dottoressa Dipietrantonio mi ha fatto riflettere molto su quanto ripercorrere il passato, la vita trascorsa insieme, possa essere un modo per mantenere saldi i fili che ci legano ai nostri cari che il tempo, giorno dopo giorno, facendo spazio alla malattia, rischierebbe di sgualcire e spezzare. Non sarà allora un caso che i pazienti con l’Alzheimer, col progredire della malattia non sanno più chi sono, ma ricordano meglio chi sono stati, dove hanno vissuto, le guerre che hanno combattuto. Ricostruire gli anni addietro e ricollegarli al momento attuale allentando quella distinzione netta e crudele tra un prima e un dopo, ricreando un sentire comune, un tempo “altro” che ci può traghettare a lasciar andare ciò che non è più. Nel libro mentre la figliia racconta alla madre la sua stessa vita, ecco che qualcosa pian piano cambia: quei ricordi, necessari ad Esperina per non perdersi, si rivelano importanti anche per la figlia, per ritrovarla, imparando finalmente a capirla ad accettarla e a lasciarla andare dopo essersi ritrovate.
Una sera, all’inizio di questa estate, mentre cercavo di fare ordine nei miei cassetti e nella mia mente, ho ritrovato la brutta copia di un mio tema dei primi anni del liceo. Era un’analisi di testo di una poesia di Montale, “Ho sceso dandoti il braccio”.
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
Quella me ragazzina aveva posto l’accento sul dolore straziante che prova l’uomo nel perdere la sua compagna di una vita, quel sentimento all’epoca inavvicinabile legato alla separazione, come se lasciare andare una persona cara avesse lo stesso significato di morire lui stesso. Oggi rileggendola, mi sono tornate alla mente Esperina e sua figlia, Patrizia, Anna, i miei pazienti… e mi ritorvo sorprendentemente a restituirgli un nuovo significato; soffrire avendo la possibilità di vivere il dolore della perdita, e potendo confidare che quegli occhi, che ci hanno accompagnato, cresciuto, sostenuto, nutrito, amato, sgridato, siano dentro di noi, permettendoci così di incontrare una fine che ci lascia il tempo di salutarci, ringraziarci e continuare a vivere.
E’ tutto vero e vissuto, ma ora magari dovrò passare il testimone…e non ce la faccio o forse sì..?!
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