di Donatello Giannino

[…] Muoio perché m’avvento, perché voglio morire
perché voglio vivere nel fuoco, perché quest’aria di fuori
non è mia, ma il caldo respiro
che se m’accosto brucia e dora le mie labbra dal profondo.
Lascia, lascia che guardi, macchiato dall’amore,
arrossato il volto dalla tua vita purpurea,
lascia che guardi l’ultimo clamore delle tue viscere
dove muoio e rinunzio a vivere per sempre.
Voglio amore o la morte, voglio intero morire,
voglio essere te, il tuo sangue, questa lava ruggente
che irrigando racchiusa le belle membra estreme
sente così i leggiadri limiti della vita. […]
(V. Aleixandre, Unità in lei)
La scritta bianca sullo schermo indica l’inizio del film. Poi buio. Ci si chiede se non sia un errore. Oltre un minuto e mezzo di oscurità. Schermo nero. Silenzio. Poi il rumore dell’acqua piovana che goccia dopo goccia penetra l’udire dello spettatore. Un corpo di donna, steso, dolorante, sanguinante, solo.
Ed è il senso di solitudine che mi ha pervaso durante i 240 minuti di proiezione. Una solitudine da non intendersi come isolamento o estraneazione da ciò che stava accadendo nel hic et nunc, ma come condizione di ritiro dagli stimoli che in un certo qual modo potessero contaminare l’osservazione: ero “solo” in sala proprio come il corpo “solo” di Joe (la protagonista) giacente in un labirinto vuoto.
La solitudine, condizione che genera un certo terrore, spaventa, inganna.
Mi è da poco capitato di leggere il pensiero di Montaigne in riferimento alla solitudine ed ho scoperto quanto sia prossimo al mio modo di viverla. Montaigne (1580) sottolinea l’importanza, per l’essere umano, di riservarsi un retrobottega tutto proprio, in cui potersi rifugiare ed entrare in contatto con la propria interiorità, una condizione in cui potersi imbattere alla ricerca di sé e della propria identità. Uno spazio mentale dove potersi intrattenere con noi stessi e godere della nostra solitudine.
Ma Montaigne sottolinea bene quanto il rifugiarsi nel retrobottega non sia poi cosa facile; afferma che bisogna essere preparati per poter governare la propria solitudine. Allora potremmo chiederci: come?
La solitudine a cui voglio fare riferimento è a quel sentire soggettivo che esula dalla prossimità o vicinanza fisica ed affettiva di parenti, amici, colleghi, un vissuto che è indipendente dalle circostanze esterne, e che ci permette di entrare in contatto con le parti più latenti e, forse, più creative di noi.
Winnicott (1957) parla di una vera e propria capacità di essere solo, uno dei “segni più importanti di maturità nello sviluppo affettivo” (p.29) e che trae le sue origini nel rapporto del bambino con l’ambiente materno. Paradossalmente Winnicott sottolinea come l’esperienza dello stare soli in presenza dell’altro sia necessaria affinché questa capacità venga a formarsi, ed è ciò che egli chiama relazionalità dell’Io (ego – relatedness). L’Io immaturo del bambino può tollerare e gestire l’angoscia del senso di solitudine solo in presenza di un Io maturo e organizzato, quello della madre (o di un suo sostituto), capace di sostenerlo ed assisterlo (holding). Soltanto così, con la presenza di una madre sufficientemente buona, il bambino può introiettare un oggetto buono a cui fare affidamento nei momenti di solitudine.
Ed è così che l’adulto, che avrà introiettato una madre positiva e contenitiva, sarà in grado di vivere la solitudine in maniera non catastrofica e angosciante, priva di sensi di vuoto e di abbandono, in maniera evolutiva, creativa, trasformativa.
Risulta essere molto importante, seguendo l’ottica winnicottiana, qualora non si fosse formata la capacità di star soli, la presenza dell’altro. Un altro capace di ascoltare in modo rispettoso; in tal senso l’analisi può essere un modo per avvicinare l’individuo ai primi sentimenti autentici di solitudine.
Ed è ciò che avviene a Joe (Charlotte Gainsbourg), soccorsa ed accolta da un anziano signore, Seligman (Stellan Skarsgård), che la porta con sé a casa. Joe è distesa nel letto e, sorseggiando del tea, inizia il suo lungo racconto.
La narrazione è didascalica, suddivisa in otto capitoli, di cui i primi cinque compongono il primo volume e gli altri tre il secondo. Ogni capitolo rappresenta un pezzo significativo della vita di Joe, ognuno introdotto da un particolare dettaglio presente nella stanza.
Si parte dall’infanzia e dalla scoperta che Joe, con l’amica B, fa della genitalità.
Von Trier ci permette di entrare all’interno dell’ambiente familiare in cui Joe, bambina, vive. La madre, una donna assente, distaccata, morta. Una “gelida stronza” incapace di donare uno sguardo. Il padre, un uomo amorevole, un medico con la passione per l’anatomia e le piante, la cui immagine comparirà spesso nei ricordi di Joe: mentre la scruta osservare, sull’atlante, l’anatomia dei genitali femminili; durante le passeggiate nel bosco dove le racconta storie sugli alberi e sulle foglie, bosco dove, da grande, Joe si rifugerà sola alla ricerca di un amore, quello per il padre, idealizzato e irraggiungibile.
Adolescente, Joe (Stacy Martin), decide di perdere la sua verginità. Si reca da Jerôme (Shia LaBoeuf), l’unico personaggio del racconto ad avere un nome, e in maniera esplicita e diretta chiede di essere deflorata. Si compie così il rito di iniziazione, in modo breve, freddo, doloroso, meccanico.
Crescendo Joe, come una perfetta protagonista di un racconto Proustiano, in compagnia di B, si avventura, come un abile pescatrice alla cattura di uomini, gareggiando per chi riuscirà a farne abboccare di più all’amo. Il premio: una bustina di cioccolatini. Insieme costituiranno un club, “Il piccolo gregge”, con un proprio vademecum interno, un contenitore in cui Joe, e le altre, possono manifestare tutta la propria repulsione e ribellione nei confronti dell’amore e dei suoi derivati. Ma ben presto resterà sola a credere in tutto questo perché la sua amica più forte e fedele ha scoperto il vero ingrediente segreto del sesso: l’amore. Un sentimento che non può essere concepito da Joe in quanto è “lussuria unita alla gelosia…disonestà, bugie”.
Divenuta maggiorenne trova impiego presso un ufficio. Il suo datore di lavoro scoprirà essere Jerôme. Sin da subito rifiuta le sue avance e proposte sessuali. Ben presto però si renderà conto che prova ancora delle attrazioni nei suoi confronti, al punto da decidersi a scrivergli una lettera in cui confessare i suoi sentimenti. Quando è lì, fuori dal suo ufficio, non trova Jerôme ma lo zio, il quale le dirà che Jerôme si è sposato ed è in viaggio di nozze in giro per il mondo.
Joe non vuole dimenticare Jerôme, e per ricordarlo, durante i suoi viaggi in treno mentre si masturba, compone un puzzle cercando tra i passeggeri dettagli che le ricordassero di lui; ma ben presto la sua immagine svanisce.
Joe intensifica così la sua caccia agli uomini; il suo scopo e la sua ricerca sembrano essere indirizzati alla scoperta del corpo, o meglio dei corpi, e della loro esibizione, a scapito di tutto e di tutti.
È indifferente a qualsiasi tipo di sensazione, esperienza, emozione, sentimento, nemmeno di fronte all’angoscia di Mrs H (Uma Thurman) che urla con una violenza inaudita, mettendo in scena tutta la disperazione di una donna che lotta per la famiglia, i figli, per il marito intrappolato all’interno di una tela costruita ad hoc da Joe. In questa scena, per certi aspetti grottesca, Mrs H è acuta nell’intuire uno dei drammi interiore della ragazza che ha demolito e distrutto oltre vent’anni di sentimenti, affermando: “devo dire che ho difficoltà a immaginarla godersi la solitudine”.
La solitudine di Joe deve essere riempita, colmata dai vari corpi che si susseguono, soprattutto quando il suo vuoto sprofonda del tutto: la morte del padre. Una scena toccante, straziante, capace di commuovere anche Joe, anche se le sue lacrime fuoriescono dall’unico canale espressivo attrezzato per farlo.
Di fronte al letto di morte ci sono Joe e la madre. Mamma e figlia che in un momento doloroso come questo non si guardano, non si sfiorano, non si parlano, come se Joe avesse appreso da lei la sua capacità alessitimica.
In questo periodo Joe racconta che in una semplice giornata routinaria arriva ad avere anche otto o nove incontri, e sulle note di Bach decide di descrivere la sua polifonia a tre voci. La voce bassa era F, monotona e rituale, il cui scopo era farle raggiungere il piacere anche se, da sola, questa voce non significa nulla. Poi vi è G per il quale valeva la pena aspettare e, come un giaguaro, era lui al comando. La terza voce era quella di Jerôme, l’ingrediente segreto del sesso, ritrovato mentre faceva la sua rituale passeggiata nel bosco. Ma è adesso che il dramma di Joe si fa più intenso: “non sento nulla!”. E con queste parole, pronunciate con estrema disperazione durante un rapporto con Jerôme, che si chiude il primo volume di Nymphomaniac.
Nel secondo volume ritroviamo Joe alle prese con la sua crisi anorgasmica, con una relazione monogama con Jerôme, e con un figlio, Marcel, non voluto, non sentito. Jerôme la invita a una relazione aperta perché consapevole di non poter riuscire da solo a sfamare la sua tigre. Ed è ora che Joe (interpretata da Charlotte Gainsbourg) si imbatte in una via crucis dall’oriente all’occidente, dall’icona della madonna col bambino al cristo morente in croce. Dalla gioia al dolore, quel dolore che d’ora in poi farà da padrone nella sua vita. Le venature comiche e grottesche lasceranno il posto a una violenza sopra e sotto la pelle che Joe ricercherà con estrema voluttà.
Von Trier ci fa entrare in una sala d’attesa sterile, opaca, dalle luci fredde, in cui sono presenti delle donne composte, eleganti, borghesi. C’è attesa, silenzio. Ed ecco comparire un uomo, dall’aspetto pulito, serio, professionale. Dopo un iniziale disinteresse dell’uomo inizia la relazione. Joe vuole sfamarsi, rivuole il soddisfacimento narcisistico del piacere, e per ottenerlo l’unica soluzione sembra essere intraprendere una relazione sado – masochistica. È nella ricerca del dolore/piacere che rinuncia definitivamente a Jerôme e Marcel. La condizione di ninfomane non le consente una vita familiare pressoché “normale”.
All’interno della relazione tra Joe e K ci sono regole ben precise, le quali non possono essere per nessuna ragione violate. Ma il suo bisogno e desiderio impellente di essere riempita porrà fine alla relazione. K infliggerà, come punizione al mancato adempimento del suo codice comportamentale, 40 frustate, che non a caso rievocano le 39 frustate ricevute da Gesù durante la flagellazione.
Il suo stile di vita porta Joe ad essere sempre più denigrata, tant’è che il capo dell’ufficio le impone di seguire un gruppo terapeutico per superare la sua dipendenza. La terapeuta le dice di eliminare tutti gli oggetti che in un certo qual modo le evocano il sesso. Ricopre tutto, anche lo specchio. La sua stanza ricorda una stanza iperbarica, e c’è lei sola sul letto con l’erbario, dove da piccola attaccava le foglie che raccoglieva con il padre, con cui simula un rapporto narcisistico – masturbatorio, che induce lo spettatore a pensare ad una relazione non risolta con il padre. Tuttavia riesce a non avere nessun rapporto sessuale per tre settimane, si sente libera dalla dipendenza e decide di comunicarlo al gruppo terapeutico. Mentre comunica i suoi successi dallo specchio scorge sé bambina e decide così di rimanere fedele a se stessa e alla sua condizione.
Viene licenziata dall’ufficio ed è a questo punto che la sua vita prende la strada della delinquenza e dell’estorsione di denaro. Inizia a lavorare per conto di L, il quale conosce bene la sua indole e per questo le suggerisce di utilizzare le sue pulsioni e la sua maestria nel padroneggiarle e nel farle emergere nei debitori, anche in chi si presenta senza macchia.
L le consiglia di prendere una ragazza, P, sotto la sua ala protettiva e insegnarle tutti i trucchi del mestiere. Le insegna a non utilizzare la violenza (per questo le ritirerà la pistola) e inizia così a portarla con sé. Con P, Joe inizia una relazione omosessuale, un altro aspetto della sessualità non ancora sperimentato. Tutto fila per il verso giusto fino a quando l’uomo a cui estorcere denaro è Jerôme. Joe si sente troppo coinvolta e decide di mandare P sola, la quale non riuscendo a estorcere l’intera somma in un unico pagamento dovrà riscuoterlo a rate. Tra i due nascerà una relazione e la notte dell’ultimo incontro P non rientra a casa. Joe esce alla ricerca di P e, prendendo la pistola che aveva ritirato alla sua adepta, è intenzionata a sparare a Jerôme. Nel momento in cui è lì di fronte a lui, non togliendo la sicura alla pistola, non riesce a sparare. Verrà picchiata, schiaffeggiata, costretta ad assistere allo stesso rapporto meccanico a cui fu sottoposta anche lei da adolescente. P ha avuto il suo rito di iniziazione. Ora si sente forte, potente tanto da urinare addosso a Joe stesa e ferita per terra. La lasciano sola mentre con voce sottile impreca per l’ennesima volta di riempirle tutti i suoi buchi, con la speranza che qualcuno possa colmarla e contenerla. Ed è qui che Seligman la trova, corpo inerme in un sudicio vicolo.
Il leitmotiv è nel dramma, nell’assenza, nel vuoto, nel dolore; è questa la cornice del suo esistere, di questa coazione a ripetere che mira all’autodistruzione e che presentifica in un certo qual modo la morte, come un animale in gabbia, “in fondo aspettiamo tutti il permesso di morire!”.
Durante il racconto Seligman è seduto di fianco al letto – lettino. Seligman è manifestazione assoluta della purezza, castità, verginità, Super io; Joe è puro Es, manifestazione viscerale degli istinti più primitivi. A lui sono affidati i rimandi culturali, religiosi, letterali, matematici, filosofici, musicali. Le offre uno spazio narrativo ed onirico dove potersi narrare e sognare. Ascolta e aiuta Joe a comprendere quello che realmente è, senza critiche o giudizi.
Joe, con uno stile sado – masochistico, sembra fossilizzata in una posizione narcisistica (PN) in cui vi è un’impossibilità di abbandonarsi all’altro, o per lo meno di vedere l’altro fuori da sé, di accedere a una posizione oggettuale (PO); lei è la “brutta persona” che lotta per ricercare il piacere dal dolore, dalla violenza, dalle percosse in cambio di un briciolo di compiacimento narcisistico (Cooper, 1989) e di un’egoistica soddisfazione dei suoi bisogni. Qui siamo lontani anni luce dalla capacità di star soli dopo un rapporto sessuale. “La mancanza di tensione istintuale può produrre angoscia, ma l’integrazione della personalità nel tempo permette all’individuo di attendere il naturale ritorno della tensione istintuale, e di godere del condividere la solitudine – una solitudine che è relativamente libera dalla qualità del ritirarsi” (Winnicott, 1957, p.32). Altrettanto lontani siamo dall’essere all’unisono (Bion, 1970) con sé e con quello che si prova, essere in sintonia con il proprio corpo, le proprie emozioni e la propria mente.
Siamo al finale. Joe ha trovato un uomo che l’ha accolta e ascoltata, che le ha permesso di narrarsi come mai nessuno prima, dandole la possibilità di potersi comprendere, identificandosi con un albero solo e deforme sulla collina. La notte è terminata. Dalla finestra si intravede un raggio di sole. Un nuovo giorno sta per iniziare. Una nuova vita sta per nascere. Joe ringrazia Seligman per l’ascolto. Si spegne la luce. Seligman chiude la porta. Ci si aspetta che il film sia terminato. Ma von Trier decide di no. Ultimi due minuti. Joe sembra essersi liberata ma ha contaminato la purezza di chi è stato sovraccaricato da tutti questi elementi tossicofilici presenti nella stanza. Seligman entra nudo e cerca di avere il suo primo rapporto sessuale. Joe si sveglia. Lo schermo diventa nero. Si sente un colpo di pistola. Una cerniera lampo che si chiude. Rumore di passi. Fine.
In questa confessione di una donna, nella carrellata di corpi che si intrecciano in modo orgiastico ciò che rimane presente, incessante, persistente, costante è la solitudine e la mancata capacità di abitare in uno spazio in cui tutto viene filtrato dal corpo, un corpo sordo che permette solo esperienze sensoriali e non sensuali.
Forse l’unica differenza fra me e gli altri, è che io ho preteso di più dal tramonto. Colori più spettacolari quando il sole arriva all’orizzonte. Forse è questo il mio unico peccato!
Concludo con una domanda (provocatoria? Non saprei); se il cinema possiede, tra le tante, la funzione di rispecchiamento del modo in cui la società si muova, quindi di rappresentare esteriormente ciò che in un certo qual senso prende forma nella nostra mente, e facendo riferimento a un altro film, Her, in cui il corpo viene meno, è assente, aberrato, privato della sua funzione di catalizzatore dell’impianto emotivo, in Nymphomaniac il corpo c’è e si vede, ma viene meno il suo sentire; viene meno quel corpo vissuto, impregnato e solcato dall’emotività; allora, parafrasando il titolo di un lavoro di Freud (1915), quali destini ora per la sessualità?
Bibliografia
Aleixandre V., (1935). Unità in lei. In: La Distruzione o Amore. Torino: Einaudi, 1970.
Bion W.R. (1970). Attenzione e interpretazione. Roma: Armando,1973.
Cooper A.M. (1989). Narcissism and masochism: the narcissistic – masochistic character. Psychiatric Clin. North Am., 12, 3, 709-722.
Freud S. (1915). Pulsioni e loro destini. In: OSF, vol. VIII. Torino: Bollati Boringhieri, 1984.
Montaigne M. de, (1580). Saggi. Milano: Adelphi, 1992.
Winnicott D.W., (1957). La capacità di essere solo. In: Sviluppo affettivo e ambiente. Roma: Armando, 1974.
Filmografia
Jonze S. (2013). Her. USA.
Trier L. von (2013). Nymphomaniac. Danimarca, Germania, Regno Unito, Belgio.