Fantasmi e silenzi: segreti di famiglia.

di Luigi Santoro

Tutti gli esseri umani hanno tre vite: pubblica, privata e segreta.

(Gabriel García Márquez)

immagine Santoro

Shhh… E ascoltate nel silenzio quanti rumori si celano. Sussurri, bisbigli, segreti.

Come una linea di demarcazione tra interno e esterno, tra chi sa e chi non sa, il segreto stabilisce un limite, delimita un territorio, uno spazio “transizionale interno”, necessario alla facoltà e capacità di creare i propri pensieri. I segreti si pongono come «garanti della nostra intimità, testimoni dei nostri limiti, fatti della stessa sostanza dell’Io. Poiché non c’è Io che tenga senza che tenga i suoi segreti. (Racamier, 1995, 110-111) 

Nel momento in cui il bambino comprende che esistono cose riguardo a sé stesso che solo lui conosce, può iniziare a sentirsi separato e distinto dai suoi genitori, così come l’adolescente, nel costruirsi un proprio spazio segreto e privato, può procedere al secondo processo di individualizzazione che garantisca l’esistenza di legami funzionali tra individui separati e differenziati. I segreti garantiscono e mantengono, dunque, la possibilità di pensiero. (Margolis 1966, Imber-Black, 1993)

Come affermava Arnaud Lévy, il contenuto del segreto è si un bene prezioso, forse il più proprio e il più personale ma è anche “la cosa cattiva da nascondere, fonte di vergogna e di minaccia per l’integrità narcisistica”. Il segreto, come la ritenzione delle feci da parte del bambino, può esser fonte di soddisfazione e piacere, ma anche sostanza tossica e fonte di sofferenza, se esso ad un certo punto, non viene espulso.

Così come avviene tra possessore e posseduto, quando non è più il soggetto ad avere il potere sull’oggetto, ma bensì il contrario, allora esso cessa di essere strutturante per l’identità e diventa una dipendenza, intorno a cui si concentra gran parte dell’energia dell’individuo che ne risulta così indebolito, nell’affrontare altri ambiti della sua vita.

In questi casi il segreto diventa conseguenza e causa di una scissione parziale di un’esperienza particolarmente dolorosa, una forma di organizzazione psichica, talvolta parzialmente consapevole, ma altre volte totalmente inconscia ed è tale scissione la chiave patogena dei segreti. (Tisseron, 2008)

Racamier chiama questi tipi di segreto “antilibidici”, ponendo l’enfasi sul silenzio e gli sforzi compiuti nel mantenerli celati, e sul blocco instaurato alla possibilità di pensare che induce anche nell’altro il timore di chiedere e l’imposizione a mantenerlo tale.

Tali implicazioni sono estremizzate quando lo spazio, in cui il segreto viene a generarsi, è il contesto familiare. Le mura domestiche si impregnano di un aurea “incestuale”, invischiata e invischiante, dove, il non detto che bisogna tacere, diventa un oggetto che non si deve pensare, un buco nero che gravitazionalmente lega e tiene insieme ma impedisce di pensare, rendendo così inattaccabile il segreto stesso.

Eppure esso, affacciandosi continuamente al preconscio, “trasuda”, attraverso espressioni facciali o comportamentali e, provocando disturbi nella comunicazione, testimonia movimenti interni talvolta in contraddizione con le parole. E così il dolore intangibile e invisibile di chi ne è il custode finisce per intrecciarsi con la sofferenza di coloro che, standogli accanto, lo ignorano e pur lo percepiscono. Si viene pertanto a creare un involucro familiare, la cui trama presenta falle e ferite che gravitano a sé, come anticorpi inefficienti, fantasie e pensieri, che senza colmarle vi si addensano per poi essere, inevitabilmente, permeabilizzate dall’usura del tempo.

Tuttavia un bambino, nei suoi primi anni di vita, farà di questa trama l’ordito da cui creare il proprio mondo interno e la propria individualità, avendo, quello stesso sistema familiare, provveduto al contenimento e metabolizzazione delle sue prime sensazioni corporee e degli stessi depositi trans-generazionali.

Infatti, come scrive Kaës in “Il soggetto dell’eredità” (1995, 25) «la trasmissione si organizza partendo non soltanto da ciò che manca, ma da ciò che non è avvenuto, da ciò che è assenza d’iscrizione e rappresentazione o da ciò che, sulle modalità dell’incriptamento, è in stasi senza essere iscritto».

Si tratta di una vera e propria trasmissione di fantasie inconsce a cui segue un’alleanza altrettanto inconscia e che ha come scopo quello di preservare la continuità del gruppo e allo stesso tempo di costituire il segreto stesso, stabilendo ciò che è da lasciare al silenzio. In questo modo le fantasie inconsce trasmesse acquisiscono la valenza di “ombre”, cioè una conoscenza non pensata, non elaborata, carica, in quanto tale, di un’angoscia terrificante e traumatica. (Kaës, 1986)

Quel che viene a crearsi sembra far riferimento a quello che Bollas nel 1987 definisce “allucinazione negativa”. Infatti il neonato, nel rapporto con la madre, eredita non solo le parti assenti e dunque ciò che è rimasto incistato e in quanto tale, non vedibile e pensabile, ma anche le funzioni regolative di questa, che provocheranno a loro volta assenze nella vita inter e intrasoggettiva del figlio. E il bambino compie queste operazioni di appropriazione perché ha bisogno di un riconoscimento e di un legame sicuro, ed essendo dotato fin dai primi mesi di vita della capacità di percepire i più sottili stati emotivi sottostanti le comunicazioni, egli organizzerà le proprie difese per adeguarsi a quelle dei genitori, avvertendo, preriflessivamente, che l’unico modo per essergli “visibile” è quello di conformarsi al loro sistema difensivo. (Fairbairn, 1952)

Non è dunque il reale contenuto latente tenuto nascosto che provoca la patologia familiare, quanto piuttosto la segretezza stessa che comunica una proibizione a pensare, immaginare e sapere (Racamier). Dunque quel che realmente assume connotazioni tossiche è proprio la lacuna di rappresentabilità dovuta alla sofferenza legata al segreto, la quale, non potendo assumere un valore dialogico, tuttavia continua a rimanere in circolo e ad essere reintroiettata come oggetto non-comunicativo da parte dei figli (Cigoli, 1994). E’ proprio per questo che l’oggetto segreto riesce a sfuggire all’usura del tempo, poiché attiva processi che evitano l’elaborazione del lutto (Racamier).

La trasmissione di un elemento siffatto, rientra in quella modalità che Kaës definisce trans-generazionale. Essa, a differenza della trasmissione inter-generazionale, non si basa sulla veicolazione di vissuti elaborati dalla generazione precedente e perciò funzionali e godibili dalla trama del tessuto fantasmatico familiare, ma bensì sulla “trasmissione bruta” di oggetti psichici non trasformabili e non pensabili, che perciò sono incorporati ma non compresi, percepiti ma non ricordati (Trapanese, 2005). E per tale motivo, qualora un figlio dovesse venire a conoscenza dei segreti celategli, questi non sono in grado riempire quel vuoto “strutturato” e così, come un cibo posto di fronte ad un intestino cronicamente irritato, destino di quell’oggetto (non)psichico è di essere eliminato, lasciando il soggetto ancor più debole e impoverito, fisicamente, e mentalmente.

Eiguer (1991-1997) osserva come, la presenza di lutti mai compiuti e di traumatismi non superati, finisse per “concretizzarsi” nella figura di un antenato che assume una funzione strutturante all’interno della famiglia, un “oggetto transgenerazionale” traumatico a causa delle ricostruzioni fantasmatiche inconsce di avvenimenti, a cui aderiscono i membri della famiglia. Questo corpo estraneo troverebbe la sua origine nell’inconscio di un soggetto come conseguenza della sua relazione con un parente o con un altro oggetto d’amore importante, portatore di un lutto non fatto, e dunque di un segreto, il cui destino è di essere incorporato da parte dell’altro, poiché incistato all’interno di quello che Abraham e Torok definiscono “cripta”, uno spazio non assimilabile all’interno della mente, frutto di una scissione, che non ne permette l’integrazione ma solo il trasferimento. Il trasferito viene così ad assumere le caratteristiche di un morto che assilla, un fantasma (fantôme[1]), un’ombra, percepito ma inafferrabile. Un morto senza sepoltura.

Sembrerebbe perciò spettare alle successive generazioni, il compito di portare a simbolizzazione e rappresentazione ciò che è rimasto incistato, sospeso, nell’inconscio delle precedenti (Mucci 2014), cosicché all’eco dei “fori” (Orgard, 2015) dei discorsi dei genitori, la seconda generazione risponderebbe con deliri e allucinazioni, nel tentativo di dare un senso alle esperienze reali celategli. Fantasie allucinate che tuttavia mancano della caratteristica di un senso intersoggettivo che consenta la riflessione su di essi e la crescita mentale che può avvenire solo attraverso l’appropriazione collaborativa di significati.

Ed allora, come in un processo di filatura, la psicoanalisi può aiutare a sbrogliare il segreto dalla tela che lo avvolge, e accompagnare il paziente verso una nuova concettualizzazione dello stesso. Lo spazio dell’analisi, come potenziale generatore di pensiero, va a sostituirsi al vortice distruttivo familiare in cui si è consumato il segreto e il terapeuta, con la sua attività di ascolto e di holding, mette il paziente al riparo dal rischio di ri-traumatizzazione, avviando in lui un processo elaborativo e trasformativo attraverso il quale, il non detto, assumerà una connotazione completamente nuova, e potrà finalmente inscriversi all’interno di una nuova storia, poiché, parafrasando Orgad, solo quando colui che è stato ingannato si pone come autore della propria storia, rintracciando i significanti andati smarriti dell’accaduto, potrà porre il punto alla fine.

 

Bibliografia

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[1] Abraham e Torok per fantasma intendono un segreto familiare passato da una generazione all’altra bloccando ciò che chiamano processo vitale di identificazione. Lo sbarramento di tale processualità porta a quelle situazioni in cui manca la mediazione fantasmatica e dunque si passa ad appropriarsi, senza trasformazione, dell’essenza dell’altro. (Kaës, 1993, 59)

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