di Giuseppe Altieri
Il mio percorso formativo è di tipo integrato. Sono ormai 4 anni che studio svariati modelli psicoterapeutici, con le loro peculiari tecniche, le loro metodologie operative, i loro protocolli d’intervento e il loro linguaggio. Non è facile districarsi in questa Babele, spesso mi ritrovo confuso; ci sono modelli che addirittura sono antitetici tra loro, si escludono a vicenda. Mi chiedo: “è possibile una reale integrazione delle varie teorie? È possibile costruire un meta-modello che accomuni tutti i principali approcci e che permetta degli interventi più efficaci e costruiti a misura di paziente?” In questo articolo voglio affrontare il tema del linguaggio dell’integrazione, quel tipo di linguaggio che racchiude in sé tutti gli elementi che favoriscono il processo di cambiamento e di crescita delle persone, un linguaggio che sia condivisibile da tutti gli operatori della salute mentale, di qualsiasi orientamento essi siano. Obiettivo questo sicuramente affascinante ma non facilmente definibile in termini pratici ed operativi.
Mentre mi accingo a scrivere ho tra le mani un libro di Paul Watzlawick, uno dei più importanti studiosi di comunicazione del pianeta. Il titolo è “Il linguaggio del cambiamento”, il sottotitolo recita: “elementi di comunicazione terapeutica”. Ecco! Questo è il punto! Cos’è che rende possibile il cambiamento in ambito terapeutico? Ci sono degli elementi linguistici specifici che attivano tale processo? Cerchiamo di dare una risposta, comprensibilmente non esauriente, a questi interrogativi. Penso sia utile partire da un excursus storico, da come nei secoli passati venisse utilizzato il linguaggio e come gli antichi filosofi lo differenziavano a seconda degli obiettivi e del tipo di atteggiamento comunicativo che si assumeva nei confronti dell’interlocutore. Fin dall’antichità ci si è resi conto che le parole hanno una forte influenza nel determinare e/o evocare gli stati d’animo più disparati. Ne abbiamo la prova palese quotidianamente, mentre parliamo con un amico, con il partner, etc. Gli antichi sofisti conoscevano bene la forza e la potenza della parola e più in generale del linguaggio. Per loro la retorica era fondamentale nel determinare le azioni, i pensieri e le emozioni proprie ed altrui e quindi si cercava d’insegnarla. L’uomo di grandi doti era colui che padroneggiava quest’arte, intesa qui come “arte di persuasione” e non di rado veniva utilizzata in ambito clinico, non proprio come psicoterapia ma spesso come supporto a chi svolgeva la professione medica: “Più di una volta, insieme a mio fratello ed altri medici, andato a casa di qualche malato che voleva bere la medicina, o rifiutava di farsi tagliare o cauterizzare dal medico, mentre il medico non riusciva a persuaderlo ci riuscii io con nessun’altra arte se non con la retorica” (Platone, 1974). Successivamente, con Socrate la retorica perde quel consenso di cui aveva goduto fino ad allora e viene scalzata dalla dialettica come metodo principe per attuare una valida ricerca filosofica. L’arte maieutica diviene la strumento fondamentale per conoscere il mondo e di conseguenza gli altri. La dialettica non vuole convincere ma far “partorire” idee ed emozioni dal “di dentro”, dall’animo più profondo delle persone. Non esiste più una verità che va insegnata o propugnata, ma tante verità, tante quanti sono gli individui che intraprendono un percorso di conoscenza, sia di sé stessi che della realtà che li circonda.
Quanto sopra esposto è sicuramente un quadro sommario ed incompleto della storia e dell’evoluzione dei concetti di retorica e di dialettica, ma può servire da sfondo sul quale impostare il discorso sul linguaggio terapeutico propriamente detto, cioè su quel tipo di linguaggio che i vari orientamenti psicoterapici utilizzano per promuovere il cambiamento e quindi la cura dei loro pazienti. In psicoterapia, cosi come in psicologia, esistono diversi approcci teorici, ognuno con la propria teoria, con le proprie tecniche, con i propri protocolli d’intervento e di conseguenza con il proprio peculiare linguaggio. I maggiori indirizzi sono: la Psicoanalisi, l’orientamento cognitivo-comportamentale e la psicologia umanistica. La Psicoanalisi nasce con Freud a cavallo tra il diciannovesimo ed il ventesimo secolo. Essa utilizza un linguaggio che Gabbard definisce di tipo “espressivo”. Lo psicoanalista cerca di far emergere vissuti inconsci, nascosti alla consapevolezza, e cerca di interpretarli, svelando cioè il significato latente degli stessi, svelando la funzione psichica delle comunicazioni del paziente e dei suoi pensieri. Con le libere associazioni si cerca di fare “arte maieutica” appunto, si esorta il paziente a fare tutte le associazioni che gli vengono in mente riguardo un argomento, un sogno, un pensiero fino a quando non sperimenta uno stato d’animo che gli fa comprendere che è arrivato al punto focale, fino a giungere all’insight, alla scoperta di un significato a lui nuovo e che gli permette di fare un salto di qualità rispetto alla sua precedente condizione esistenziale. Nel corso degli anni questa tecnica si è evoluta, l’analista ha perso il ruolo di unico interprete e ne ha assunto uno più simmetrico rispetto al paziente. Molti autori parlano adesso di interpretazioni insature, cioè di interpretazioni che riguardano la relazione instauratasi tra paziente ed analista, interpretazioni che non si esauriscono nel momento in cui vengono enunciate ma che sono suscettibili di modifiche e di rivisitazione da parte di entrambi gli attori della scena terapeutica. Si giunge così ad una co-costruzione di significati nell’ambito di un processo ermeneutico condiviso.
Certamente potremmo definire, il linguaggio psicoanalitico più orientato all’espressività rispetto a quello utilizzato dagli orientamenti cognitivo-comportamentali. Il terapeuta cognitivo individua i pensieri disfunzionali del paziente e cerca di cambiarli attraverso delle prescrizioni di compiti, confrontando le idee del paziente con la realtà, utilizzando tecniche specifiche quali l’illusione di alternative e la conversione in positivo. Non penso che questo tipo di linguaggio favorisca la libera espressione delle persone che affrontano una terapia di questo tipo, tuttavia si è dimostrato molto utile soprattutto per il trattamento di alcune patologie. Seguendo ancora una volta la terminologia di Gabbard potremmo classificare questo linguaggio di tipo “supportivo”, in quanto il terapeuta funge da esperto e consiglia al paziente che tipo di comportamento assumere in determinate circostanze e quali interpretazioni della realtà sono più funzionali al benessere psicologico. Penso che il lavoro di Gabbard sia un buon esempio del tentativo di costruire una tassonomia integrata dei vari tipi di linguaggio utilizzati in psicoterapia.
Il linguaggio e l’atteggiamento terapeutico che ritengo siano una via di mezzo lungo il continuum espressivo-supportivo sono quelli che concernono la psicologia umanistica. Pur cercando di favorire la libera espressività del paziente, cliente in questo caso, l’approccio che ha in Carl Rogers il suo esponente principale, utilizza un linguaggio accogliente, che mette il cliente a suo agio, in modo da favorirne e facilitarne l’espressione emozionale. Il terapeuta umanista non interpreta ma riformula, non prescrive ma facilita, non è rivolto alla ricerca delle cause passate del disagio, ma si concentra sul qui ed ora della relazione diadica. L’aspetto più interessante della pratica terapeutica è che nonostante le differenze, a volte antitetiche, tra i vari approcci, tutti sono ugualmente efficaci. Non esistono delle differenze significative tra i risultati ottenuti seguendo una specifica terapia piuttosto che un’altra. Questo significa che ci sono dei fattori comuni, trasversali a tutti i modelli teorici, che rendono possibile il cambiamento e che è attribuibile alla loro influenza il buon esito di un percorso terapeutico. È proprio su questi fattori che secondo me si può fondare un modello integrato di psicoterapia, un modello che comprenda una teoria della mente e una teoria psicopatologica, che comprenda delle tecniche e il suo specifico linguaggio. Si è accertato che tra i fattori comuni quello che più determina gli esiti della terapia è la qualità della relazione che si instaura tra paziente e terapeuta. A questo punto è lecito porsi una domanda: “esiste un linguaggio che renda possibile l’instaurarsi di una relazione efficace e che al tempo stesso attivi il processo di cambiamento del paziente? È questo quel linguaggio che tanto affannosamente ricerchiamo?” A mio parere si! La mia opinione è che questo linguaggio è appunto quello dell’integrazione. Integrare il linguaggio significa per me prima di tutto fare attenzione agli aspetti relazionali del procedimento terapeutico e quindi evitare tutti quegli interventi che possono essere di ostacolo alla comunicazione e di conseguenza alla relazione. Questa è la base per un’integrazione del linguaggio in psicoterapia: porre attenzione alla relazione, utilizzare un linguaggio che faciliti la “compliance”, l’alleanza. Successivamente si può passare per una metodologia eclettica di cura, che utilizzi l’interpretazione, la riformulazione o la confrontazione, a seconda del paziente, a seconda della patologia e a seconda del momento in cui si trova il procedimento terapeutico. Bisogna saper leggere il termometro relazionale del processo terapeutico, bisogna saper prevenire o rimediare agli “strappi” che possono esserci lungo un percorso di psicoterapia, tanto più se lungo ed impegnativo. È ovvio che fare integrazione significa fare continuamente ricerca, è un viaggio che non finisce, un percorso che non si esaurirà mai in una prassi e una metodologia consolidate. È un’avventura che già avuto inizio proprio a partire dalla psicologia umanistica. Numerosi autori hanno abbracciato una visione esistenzialista del mondo, partendo dalle filosofie di Kierkegaard, Heidegger, Sartre, Husserl ed altri, e iniziando un lento ma costante lavoro di ricerca e sperimentazione che sta dando i suoi frutti soprattutto negli ultimi anni. Altri autori hanno sottolineato l’importanza del rapporto intersoggettivo e di come sia fondamentale ai fini dell’esistenza umana.
Elemento fondamentale dell’integrazione delle psicoterapie è quindi la creazione di un linguaggio integrato, un linguaggio che faciliti l’instaurarsi di una efficace alleanza terapeutica, fattore unanimemente riconosciuto come principale predittore e promotore del buon esito di una terapia. A questo punto vorrei sottolineare una caratteristica a parer mio fondamentale: il linguaggio dell’integrazione non può essere privo di una componente empatica, la capacità cioè di sperimentare lo stato d’animo del nostro interlocutore come se fosse il nostro. È altresì importante comunicare questo effetto al paziente, in modo da farlo sentire capito, compreso nella sua sofferenza. Non si tratta di eliminare dalla pratica terapeutica tutti quegli interventi più direttivi, si tratta si saper dosare vicinanza e neutralità, saper mediare tra sostegno ed espressività catartica, saper essere nella relazione sapendone riconoscere i vari momenti e le varie connotazioni affettive. Il linguaggio dell’integrazione non contempla interventi specifici, non ha una nomenclatura ben definita. Ha delle caratteristiche che lo definiscono ed una di queste è l’empatia. La maggior parte degli orientamenti votati all’integrazione delle diverse psicoterapie sono impegnate nella costruzione di una teoria del funzionamento psichico degna di tale nome e quindi anche una teoria psicopatologica che guidi poi la pratica clinica. Ciò non è facile, infatti l’integrazione spaventa; il rischio è di rimanere immersi in un’indeterminatezza alienante che può portare all’immobilismo o peggio all’improvvisazione, per questo è molto più sicuro rimanere nel proprio “orticello”, confortati da una teoria e da una prassi consolidate. Serve un meta-modello integrato, la maggior parte delle ricerche attuali lo cercano e l’epoca post-moderna che stiamo vivendo lo richiede. È questa la sfida da affrontare e vincere.
Bibliografia
- Ferro A. (1992), La tecnica nella psicoanalisi infantile, Milano, Raffaello Cortina Editore.
- Freud S. (2010), Introduzione alla psicoanalisi, Roma, Newton Compton.
- Gabbard G. (2007), Psichiatria psicodinamica, Milano, Raffaello Cortina Editore.
- Platone (1974), Gorgia in Opere, vol. I, pp. 1131-1246, Bari, Laterza )
- Rogers C. (1994), La terapia centrata sul cliente, Firenze, Martinelli.
- Watzlawick P. (2007), Il linguaggio del cambiamento, Milano, Feltrinelli.