“La verità non si può insegnare… il paradosso dei paradossi è che il contrario della verità è ugualmente vero”
Siddartha, Hermann Hesse.
Arriva una persona in studio; la accolgo, la faccio sedere ed inizio ad ascoltarla. Ho la mente sgombra, cerco di attuare la cosiddetta epoché; mi pongo con assoluto rispetto nei confronti di ciò che ella mi sta dicendo. Poi ad un tratto dice qualcosa che suscita in me un’associazione, mi sembra che quello di cui sta parlando lo abbia già sentito, ho l’impressione che il suo vissuto possa comprendersi e spiegarsi secondo delle dinamiche che qualcuno prima di me ha studiato e validato, utilizzando, più o meno, principi epistemologici che ne danno credibilità.
Ho un tarlo per la testa però. Non sono convinto. Ho la sensazione che questo desiderio di spiegare e di trovare un senso sia soprattutto la voglia di sicurezza che c’è in me e soprattutto nel mio interlocutore, che trovandosi in una situazione di difficoltà è più spaventato di me. Ho il presentimento che mi stia ingannando e allo stesso tempo stia ingannando chi ho di fronte e, ancora, insieme ci stiamo ingannando. Stiamo cercando di imbrigliare la realtà della vita. Io voglio andare oltre. Oltre un’impostazione teorica rigida e immutabile, o che muta solo entro i suoi confini, oltre una metodologia operativa tecnica e protocollare, che mi da sì sicurezza ma anche la sensazione di “presa per i fondelli”, oltre un processo di analisi del vissuto psichico. Piuttosto sento che potrei impegnarmi maggiormente in un procedimento di sintesi dinamica, di costruzione di qualcosa che sia di più. Oltre, infine, una convinzione che l’esistenza umana si declini soprattutto a livello psichico senza tener conto del continuo divenire fisico e quindi corporeo. Tutta la precedente riflessione mi porta a scrivere questo articolo, sulla finzione. Penso inevitabilmente a qualcosa che nella pratica psicoterapeutica non dovrebbe esserci. Infatti per me tale termine ha un’accezione fondamentalmente negativa che ricorda mistificazione, simulazione, falsità. È soprattutto la mia formamentis professionale, il mio esistere attuale, la mia impronta filosofica (aihmè) che mi fa considerare il termine finzione in senso negativo. È un concetto antitetico rispetto a quelli di congruenza, di autenticità, atteggiamenti così tanto propugnati da tutti coloro che hanno un approccio umanistico ed esistenzialista alla pratica clinica. Io da terapeuta, ma non solo, da essere umano, cerco di essere nella relazione autenticamente me stesso, libero da condizionamenti di ruolo e da preconcetti teorici che inevitabilmente mi porterebbero a porre maggiore attenzione ad alcuni aspetti e dinamiche del paziente piuttosto che altre o, ancora, ad interpretare il disagio dell’altro secondo un’ottica predefinita e spesso autoreferenziale che mi impedirebbe di vedere ciò che può sconfessarla o semplicemente ciò che può essere una novità. È questo secondo me il pericolo maggiore nel quale posso incorrere nello svolgere una professione e nell’essere uno psicoterapeuta: avere una sola visione del mondo, una “weltanschauung” che mi porti a conoscere l’altro secondo dei criteri già dati a priori, secondo un’ottica precostituita che spesso ricerca, attraverso la mia opera di conoscenza dell’altro, soltanto conferma a se stessa.
Mi sta stretta, la teoria; una sola teoria mi sta stretta. È il maggior pericolo che possa correre. Quello di non essere aperto alla conoscenza del diverso, di non avere la giusta curiosità che mi porti a scoprire modi diversi di vivere e di organizzare la realtà. La giusta umiltà, mi sento di dire, che l’ottica che adotto per capire il vissuto psichico dell’altro possa essere soggetta a modificazioni, aggiustamenti ed anche contraddizioni. Per fare ciò è necessario però che mi ponga con un determinato atteggiamento nei confronti della persona che ho di fronte (ed uso il termine persona non a caso), è necessario che incontri l’altro tenendo presente che egli è una realtà nuova per me e che per comprenderla non basta una sola chiave di lettura, una teoria del funzionamento mentale che lo riduca a equilibrio/disequilibrio tra forze o a semplice insieme di rappresentazioni di sé errate o ancora ad agglomerato di sintomi e comportamenti più o meno adattivi. Se da terapeuta facessi questo credo che fingerei a me stesso, mi auto ingannerei e perderei di vista quella che ritengo la dimensione più importante del lavoro terapeutico: l’incontro, l’incontro con l’essere umano.
Per fare maggiore chiarezza rispetto a quest’aspetto è utile secondo me riprendere le teorizzazioni di Martin Buber, pensatore e filosofo ebreo vissuto a cavallo tra il 19° e il 20° secolo. Per Buber ogni essere umano ha due modi di porsi innanzi al mondo: Io-Esso e Io-Tu. Nella prima modalità, definita dell’esperienza, la persona fa esperienza dell’altro: l’Io, il soggetto, si pone di fronte all’Esso, l’oggetto, per esaminarlo, conoscerlo, analizzarlo a volte valutarlo, ma in realtà non è in contatto con l’alterità. La relazione, l’autentico incontro invece, è data dall’Io-Tu, quel particolare rapporto in cui l’io si apre all’altro ed alle sue profondità, alle sue specificità, in modo immediato, totale, senza mediazioni. Per Buber solo in questo caso si ha l’incontro. E questo è l’incontro che dovrebbe avvenire nella seduta terapeutica, un incontro “vero”, tra due persone, non tra due ruoli, il paziente ed il terapeuta. Una relazione con l’altro autentica, empatica, reale, è di per sé curativa, al di là della specifica “dottrina” e “liturgia” terapeutica seguita.
È un aspetto da non sottovalutare quello dell’incontro intersoggettivo poiché ritengo che ancora oggi ci sia molto da lavorare su questo punto. Posso incontrare veramente l’altro se la mia condotta relazionale è guidata, consciamente o inconsciamente, da una’idea precostituita della realtà umana e da una teoria del funzionamento psichico? Esistono numerosi approcci alla terapia e tutti reclamano la loro dose di verità. Ma è possibile giungere a essa? È possibile avere della certezze nel campo delle scienze umane e soprattutto della psicologia? Ad esempio, molte scuole psicoterapiche negano o comunque ritengono meno importante fare attenzione ad alcuni aspetti della realtà umana che invece per me risultano essere significativi, tra i quali il più importante è il corpo. Si, il corpo, inteso come fisico, come dimensione organica ed “organismica” dell’essere umano, come insieme armonico di organi, tessuti, cellule ed atomi che formano un tutto funzionante e tangibile. Altri scuole di pensiero invece lo mettono in risalto e ne fanno il focus del loro operare, il centro del lavoro terapeutico. Come conciliare questi approcci? Occorre lavorare per questo ma soprattutto occorre avere un atteggiamento di apertura al diverso, occorre andare oltre l’ortodossia del pensiero dominante, fatto di “visioni del mondo” diverse, spesso in conflitto e a volte impegnate a screditarsi a vicenda.
La mia esperienza professionale non sarà tanto ampia da permettermi di “pontificare” su quale sia il metodo terapeutico più appropriato e nemmeno su quale chiave di lettura dare, se proprio volessi soddisfare la mia voglia di “spiegare”, ai fenomeni psichici e relazionali in atto quando lavoro con una persona. Tuttavia credo che la mia esperienza sia abbastanza lunga da avermi permesso di fare degli errori. Errori che ho commesso e riconosciuto soprattutto quando ho assunto un atteggiamento da tecnico della mente o da mistico psico-religioso. Questi due atteggiamenti appartengono agli estremismi di due filosofie di pensiero opposte ma che riflettono entrambe una impostazione positivistica e scientista della psicologia. Tecnicismo e dogmatismo, ovvero il trionfo della tecnica come strumento d’intervento e della teoria onnicomprensiva come strumento di spiegazione, mutuano la loro impostazione metodologica dalle scienze naturali, attuando quei processi di analisi e di verifica che tanto piacciono a neo-cartesiani della psiche. È il trionfo della razionalità, dello spirito apollineo come ha sottolineato qualcun altro. La spiegazione in un caso, e l’azione nell’altro, divengono obiettivi fondamentali e sovente si attuano in un atteggiamento terapeutico caratterizzato da un eccessivo ancoraggio a posizioni teoriche date a priori e autoreferenziali, a degli indirizzi sul funzionamento mentale, e sulla psicopatologia soprattutto, che definirei standard, che spesso si traducono in interventi protocollari o quasi, che ammettono e producono si dei cambiamenti, ma solo nell’ambito della loro visione della realtà, della loro weltanschauung appunto.
E se i cambiamenti non si verificano? Allora il paziente si difende, oppone delle resistenze. Non si mette in discussione la propria teoria, il proprio atteggiamento relazionale, no. È questo il tentativo illusorio di attribuire un senso a ciò che apparentemente non ne ha, il bisogno razionale di sicurezza dell’uomo. Se il paziente non accetta queste comunicazioni allora, soprattutto nelle prime fasi di un trattamento, sta opponendo resistenze, non è il terapeuta che ha sbagliato, no, è il paziente che, non volendo lasciare il suo stato di sofferenza (ironia), si difende da un modo d’interpretare il suo vissuto che potrebbe favorire il cambiamento, cambiamento che in realtà non sta cercando. È un discorso complicato? Lo penso anch’io. Sto polarizzando ed amplificando volutamente il discorso per essere più chiaro nell’esposizione delle mie idee. Per fortuna nella realtà la stragrande maggioranza dei terapeuti è consapevole di questi rischi. Non a caso tacciono, si mettono in posizione d’ascolto, aspettano il momento giusto per proporre al paziente il loro modo di intendere la realtà, non solo psichica. Più spesso i terapeuti s’impegnano nella co-costruzione di senso con i loro pazienti nell’ambito del campo relazionale che hanno instaurato.
È vero anche che nessuna teoria riesce a prevenire fenomeni di tecnicismo, nemmeno quella umanistica che pure evidenzia l’atteggiamento autentico, riesce a fare in modo che molti terapeuti formatisi secondo quest’impostazione evitino di essere eccessivamente tecnici e di essere “pappagalli” (è infatti ampiamente presentato da film e cortometraggi vari, soprattutto nella cultura anglosassone, la figura del terapeuta che riformula ciò che il paziente narra, che non risponde alle domande ma le “gira” alla persona che ha di fronte). È vero anche che la terapia la fanno le persone e non le tecniche e quindi, per fortuna nostra e della nostra professione, la stragrande maggioranza dei professionisti del settore non corrisponde a questo stereotipo. Ttuttavia è per me importante che un terapeuta tenga presente questo rischio, soprattutto rispetto al fatto di essere o meno “finto” nel rapporto con il proprio paziente. Un terapeuta non può fingere, non può dare un’immagine di sé diversa da quella che rispecchia la sua vera realtà, la sua natura, il suo essere nella relazione: “nella relazione il terapeuta è liberamente e profondamente se stesso e la sua esperienza reale è fedelmente rappresentata nella coscienza. Non assume perciò, in nessun caso, consciamente o inconsciamente, atteggiamenti di circostanza” (Rogers, 1994).
Così scriveva Rogers ormai cinquant’anni fa. Come abbiamo visto sono proprio gli atteggiamenti di circostanza che rendono il terapeuta non congruente, poco autentico. Atteggiamenti che secondo me hanno vari modi di esplicarsi: un linguaggio troppo tecnico, un posizionamento nella relazione che la rende troppo asimmetrica a favore o del terapeuta o del cliente, un setting troppo rigido che serve più a salvaguardare il terapeuta piuttosto che il paziente, ed una propensione a leggere la realtà dell’altro secondo uno schema di riferimento implicito al terapeuta stesso. Questi sono gli atteggiamenti, le predisposizioni esistenziali che rendono il terapeuta finto, cioè poco attento alla scoperta dell’altro, più propenso a salvaguardare un ruolo, il suo ruolo, la sua visione del mondo, il suo modo di leggere gli eventi ed il vissuto esperito dall’altro nel tentativo di dare senso alla sua esperienza e di dare sicurezza alla sua esistenza.
Non sono casi infrequenti quelli in cui un terapeuta viene percepito come finto dai pazienti. Mi è capitato di incontrare persone che erano già passate da altri terapeuti e li avevano trovati freddi, scostanti, alcuni addirittura li definivano incompetenti. Non è incompetenza secondo me, forse molti di noi peccano di poca curiosità. La curiosità sana di scoprire il mondo dell’altro, di scoprire che forse le nostre teorie, implicite od esplicite che siano, sono insufficienti, colgono solo una parte dello scibile e dell’esistenza umane e quindi è opportuno tenerle sullo sfondo quando “siamo” e sottolineo “siamo” con un’altra persona.
Bibliografia
Rogers C., (1994), La terapia centrata sul cliente, Martinelli, Firenze.