Antiche e nuove prospettive in psicologia

di Roberto Filippini

Dedicato agli amici, di tutte le razze, di tutte le appartenenze, di tutte le identità

1. Dove entra in scena chi balla col lupo

Quando ero bambino – frequentavo le elementari – ci portarono a vedere un film, qualcosa come “Pierino e il lupo”. Non ricordo bene la trama, ma a un certo punto doveva esserci il nonno al posto del cacciatore. Una faccenda importante, a classi (e maestre) riunite. Finito il film, la trappola: le maestre ci chiesero quale personaggio ci fosse sembrato più importante e perché. Io risposi: il lupo, perché se non ci fosse stato il lupo, non ci sarebbe stata la storia. Mi sembrava evidente, mi venne del tutto naturale. La maestra sfoderò lo sguardo comprensivo e il sorriso un po’ sfottente di chi la sa lunga, ma tutti i bambini strani capitano a lei. Qualche risatina dei compagni, e io mi sentivo pieno di vergogna e anche confuso, perché davvero mi sembrava la risposta più naturale. Fu il mio primo contatto con quello che poi si sarebbe chiamato il “politically correct”, ma allora non potevo saperlo. Mi limitai a subire, e a non capire.
Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti del Reno, dell’Arno e del Pescara, nelle città ognuna delle quali considero la mia città (altra anomalia, per ogni brava maestra, e con qualche ragione, perché può darsi che lo stile di una vita sia lo specchio di qualcosa che si agita dentro, ma questo l’ho capito molto più tardi… comunque oggi potrei sempre citare Schopenhauer per confondere un po’ le acque…). Ma non divaghiamo. Molta acqua è passata sotto quei ponti bolognesi, pisani e pescaresi.
Da allora il mio rapporto con il “politically correct” è rimasto praticamente lo stesso: semplicemente non lo capisco. E lui – very, very correctly indeed – mi ammicca incredulo, divertito, come chi la sa lunga, anzi “sa”, e ogni tanto gli capita qualcuno inclassificabile (Troppo ingenuo? Troppo furbo? Forse un po’, come si dice, introverso? O forse, come non si dovrebbe mai dire, un po’ scemo?). Per qualche tempo mi sono cullato nell’illusione che, vissute molte esperienze personali, lette parecchie centinaia di libri e dialogato in lunghe passeggiate solitarie con certi autori che mi sentivo di volta in volta vivere dentro, avrei potuto dire il fatto suo a qualunque maestra e a qualunque compagno un po’ troppo “ridacchians”. Ma mi sono dovuto arrendere all’evidenza. Non è così.
C’è qualcosa come un Karma – un Daimon, direbbe Paolo – che ti porta a rivivere ancora e ancora esperienze con la stessa curvatura fondamentale (una specie di clinamen dell’esistere) o forse ti porta a vivere inesorabilmente un percorso – meglio, forse, una modalità di percorso – e solo quella. Una traduzione, più adatta al nostro zeitgeist, potrebbe essere che ognuno ha una sua propria organizzazione di personalità che lo porta a identificarsi in quel particolare modo al suo esistere. C’è dunque qualcosa, oggi come allora, quando ero alle elementari, che mi porta a vedere come semplicemente evidente ciò che gli altri sembrano non vedere. E, ovviamente, a non vedere o a trascurare istintivamente come accessorio, ciò che gli altri con tutta naturalezza vedono importante. Il che mi porta inesorabilmente a fraintendere e a essere frainteso, talvolta penosamente e dolorosamente, spesso con le persone che più mi stanno a cuore. Col tempo ho saputo sviluppare una capacità di espressione – detto senza falsa modestia – notevole e una certa capacità di rendere facili a chi ascolta parecchie cose di per sé difficili. Eppure, quando nel bel mezzo di una conferenza, di un intervento pubblico e – soprattutto – di un discorso fra amici interloquisco, come mi è abituale fare, con frasi del tipo “non so se mi sto spiegando” oppure “non so se mi sto facendo capire”, queste per me non sono modi di dire. Mi rendo conto che talvolta suonano irritanti o talvolta possono sembrare un raffinato strumento retorico, invece esse esprimono esattamente e sinceramente il mio stato d’animo; e questo dubbio fa parte, anzi anima ogni mia espressione.
Non c’è praticamente corrente di pensiero che sia minoritaria e meno condivisa di cui io non abbia immaginato l’importanza. Così, eccomi affascinato dagli ultimi sussulti del modo pagano – “Il tramonto degli oracoli” di Plutarco… Simmaco nella sua inutile, appassionata difesa, contro S. Ambrogio e il monoteismo, di un modo di vedere policentrico condannato dalla sua stessa finezza e complessità che forse non lo rendevano più comprensibile alle nuove generazioni: “Uno itinere non potest perveniri ad tam grande secretum”. Ed eccomi a fantasticare con Leibniz di percezioni insensibili, del se e come una monade possa avere finestre, mentre le idee chiare e distinte di Cartesio mi hanno lasciato piuttosto freddo, forse perché fondate su qualcosa “di per sé evidente” che io non sono mai riuscito a vedere, prima che a capire. Eccomi ancora a leggere Nietzsche e Baudelaire e Marcuse, sentendomi anarchico nell’intimo, quando – si era prima del ’68 – era già piuttosto difficile spiegare perché non si andava in Chiesa; eccomi negli anni ‘70 a leggere Popper e Ortega quando tutti i compagni di Università continuavano a leggere Marcuse. Eccomi, più tardi, a formarmi su Jung invece che su Freud. E dopo ancora tentare di innestare Kernberg, Kohut, Winnicott, Ogden sulla mia formazione junghiana, riuscendo con un colpo solo a rendermi poco comprensibile sia alle correnti junghiane che a quelle post-freudiane. Sotto, devo riconoscerlo, c’era sempre quel bambino a cui sembrava chiaro che senza il lupo non ci sarebbe stata storia, e movimento, e respiro, mentre agli altri sembrava strano, e il più delle volte non vedevano nemmeno, ciò che a me appariva come il lupo (il “movens”) della situazione.
Come in modi diversi suggeriscono Nietzsche, Jung e Cassirer, pare che noi leggiamo la realtà prima di tutto attraverso un tessuto mitico che però non compare ai nostri occhi. Una specie di sfondo non visto, che dà forma, permette e limita ciò che possiamo vedere. Naturalmente, ognuno, e ogni epoca, e ogni cultura difende il proprio sfondo mitico d’interpretazione con la stessa passionalità veemente e acritica con cui una madre difende il proprio figlio e il figlio la propria madre, perché difende la propria stessa organizzazione mentale, e quella del mondo che si è abituati ad abitare. Purtroppo, il più delle volte si difende il proprio mito senza saperlo, e si diventa davvero cattivi accapigliandosi sulle singole cose cui il mito dà luce e prospettiva. Questo modo di fraintendersi capita a tutti noi, e ciò è scontato per qualunque uomo di cultura. Quello che mi risulta incomprensibile è il mio istinto, infallibile nel fallire. Cioè nel cadere automaticamente al di fuori dei miti unanimemente condivisi, quelli attorno ai quali si animano le discussioni che appassionano, perché ciascuno degli interlocutori si pone spontaneamente in una delle polarità in cui il mito nell’apparire si incarna, pur restando nello sfondo lo stesso mito condiviso. E’ sempre stato così. Come quando mi si riempie il cuore vedendo una moltitudine di persone danzare in variopinti costumi sulle spiagge, o sorseggiare buone cose ai tavolini di un grande bar, perché presento la rarità, la straordinarietà e la precarietà di questi privilegi – compreso quello di poter scegliere fra tanto di tutto – nella storia e nella geografia. Mentre il vero intellettuale gode contento di questo in privato e in pubblico critica convinto i mali del mondo delle scelte e del consumo. O come, dopo le recise posizioni prese sul nucleare, vedo i giornali filo franco/alemanno/grande finanza/petrolier/sante e corrotte oligarchie dei paesi petrol-produttori – cioè quasi tutti i giornali – discutere qualche anno dopo convinti ed animati se sia buono e giusto non far circolare le auto la domenica (quando praticamente non circolano per fatti loro), e sono fieri delle loro posizioni e sottopongono agli elettori le loro discussioni intese a proteggere l’ambiente, qualunque cosa intendano con questa parola. I fenomeni come essi appaiono e si presentano di volta in volta in un’eterna sensazione di presente, senza sconvenienti connessioni e memorie: questo potrebbe essere il mito in cui viviamo. Oppure, forse il “politically correct” è kantiano senza saperlo, e si fonda sui fenomeni senza azzardarsi a connetterli fra loro. Ma preferisco alludere, senza dilungarmi, a cose come queste, perché sentirsi fuori dei miti che riguardano il presente scava più antipatie di qualunque posizione presa entro questi miti.
Mi piace la penombra dove le cose sembrano fondersi e confondersi, intanto che acquistano la loro determinazione e la loro forma, e possono essere colte nella loro complessità; la penombra dove le cose sfumano impercettibilmente nel loro opposto, dove è possibile cogliere un colore muoversi nell’altro: non è né questo, né quel colore che mi affascina, ma il loro movimento incessante. E sono grato alla sorte e mi sento rasserenato quando posso cogliere una nuova tonalità muoversi e rivolgersi nella tavolozza infinita delle piccole cose attorno a me e in me.
Non capisco ogni forma di radicalizzazione, compresa quella politica oggi di gran moda, se non come fondata su un bisogno psicologico assolutamente primario per noi umani di certezza e di rassicurazione, per cui schierarsi è un modo di sentirsi esistere davanti agli altri e soprattutto a se stessi. L’importante mi sembra in realtà “sentirsi schierati”, più che schierarsi. E percepisco intorno a me soprattutto quel gran bisogno di collocare gli altri, creando così attorno a sé un mondo prevedibile, semplice, noto, in cui ad ogni etichetta corrisponda un ben determinato frammento di esistente. Perciò, ad esempio, mi capita di continuo di essere identificato e collocato (con un sorriso soddisfatto oppure con un malcelato risolino di scherno) a seconda del giornale che di volta in volta ho in mano: mi sono stancato di ripetere che mi piace leggere tanti giornali, perché sono tutti un po’ diversi, e che uno dei piaceri più sottili la mattina è scegliere i quotidiani in base alle notizie che mi interessano, e non viceversa (“vediamo un po’ come la mettono questa…”). Bisognava ripetere la spiegazione ogni volta, finché mi sono accorto che era peggio: l’interlocutore si disorientava sul serio, gli sgusciava via un elemento della sua realtà chiara e distinta. Così, dopo anni, ho compreso finalmente perché il sorrisino di condiscendente scherno si trasformava in una specie di perplessa diffidenza per qualche minuto, finché un impercettibile scuotere della testa segnalava che ero di nuovo “collocato”, questa volta nella categoria dei nemici politici che però sono troppo ipocriti e sfuggenti per proclamarsi tali. E io a ripetere ”Non so se mi sono spiegato”, fino a che ho capito che in fondo è meglio non spiegarmi: è meno inquietante e viene meno isolato un avversario politico, ancorché percepito ipocrita, piuttosto che uno che non si riesce proprio a collocare e fa discorsi strani… Uno che vede candidamente l’importanza di ciò che il buon senso tende a non vedere, l’importanza del lupo nella storia di Pierino. E’ sempre la stessa storia.
Mi fa orrore ogni forma di ideologizzazione, comprese (anzi, soprattutto) quelle più pure, più sante, più caste e più immacolate. Dentro (“chi non è con me, è contro di me” – “se questo è l’unico, indivisibile e possibile bene, chi non aderisce inevitabilmente è il male” – “contro questo o quello, senza se e senza ma”), dentro ci vedo il ghigno infernale delle cento piccole mortificazioni e umiliazioni che quotidianamente ci infliggiamo l’un l’altro, una volta che la propria identità sia legata a un che di certo e di inappellabile. Ma ci vedo anche il ghigno della morte, fino alla violenza e alla tortura, come solo gli umani sanno dare ad altri umani, sentendosi intanto buoni, santi, belli e cazzuti. Nei vizi, nei difetti, non meno che nei dubbi e nella penombra “dei se e dei ma” c’è invece molto spazio per ritrovarsi, ascoltarsi, e godersi infine quel po’ di salute e di tempo che la sorte può donarci – doni sempre precari e a termine, come ho potuto constatare nell’immediata concretezza di ogni giorno, per i miei quasi quindici anni di lavoro in ospedale: ho assistito innumerevoli volte al dramma, quando ogni singolo respiro costa un infinito di sforzi, di pena, in una lotta impossibile.

2. Conflitti di interesse nella prospettiva di chi vede il lupo

Sono entrato nella redazione quando già la nave era varata, e veleggiava da oltre un anno. A quel tempo, già collaboravo con piena soddisfazione da oltre dieci anni con un’altra avventura editoriale e con le iniziative attorno ad esse incentrate. Poco dopo, ho potuto assistere con simpatia e affetto alla nascita di una terza rivista. Eccomi dunque ora, come quando ero bambino, in una posizione anomala. E con una certa difficoltà a spiegare ciò che a me sembra del tutto evidente. Innanzi tutto, quello che può essere definito “un conflitto di interessi”. Ogni rivista, ogni gruppo editoriale ci tiene ad avere una sua propria identità, una propria fisionomia. Ed è dunque importante che sia rappresentato da un certo numero di individui, la cui appartenenza abbia carattere di esclusività. Questo è giusto e legittimo, e ogni persona di buon senso, compreso me, non può che convenirne. Io vedo questo, come gli altri, ma non mi sembra l’essenziale.
Io vedo soprattutto diverse Riviste che rispecchiano anche nella loro struttura, nel modo come sono immaginate prima che in quello in cui vengono impaginate, la loro peculiare identità.
A me sembra abbastanza evidente che:
(1) Ogni rivista tende a vivere a partire dalle prospettive, dalle impronte e tende a muoversi all’interno della collocazione fra gli assoluti immutabili di cielo e pietra e delle oscillazioni pendolari che hanno impresso, in primo luogo, coloro che l’hanno voluta: perché prima di volerla l’hanno pensata, immaginata, “vista”.
(2) L’impronta che la redazione dà ad ogni rivista, è diversa dalla somma delle personalità dei redattori, in quanto, se una rivista possiede qualcosa di vitale, non può che possederlo come sistema dotato di una sua complessità. Anzi, ad ogni nuova riunione dei redattori, le interazioni reciproche danno origine a qualcosa di unico, sempre diverso.
(3) Ogni rivista ha pertanto la sua individualità, la sua fisionomia, la sua identità, che non rispecchiano e sono altro rispetto a quelle singole dei suoi redattori.
(4) A ciò bisogna aggiungere la diversa tonalità che gli estensori degli articoli, interagendo con gli articoli già pubblicati in passato, finiscono per dare ai nuovi contributi in ogni rivista. Il mood, l’atmosfera che percorre ogni rivista ad ogni nuovo numero finisce dunque per possedere una sua peculiare curvatura, un clinamen tipico; diciamocelo: una sua propria impronta.
(5) Mi sembra del tutto naturale che ogni redazione possa, + o – inconsapevolmente, temere che l’opera che essa esprime non sia vitale. E’ questa la radice dei dubbi sui “conflitti di interesse” e affini, e di incomprensioni, latenti o no? Questa naturale paura, una volta accettata, la vedo propulsiva di iniziative e di energie. Ogni “Mission impossible” mi ha sempre attirato e stimolato. Uccide più cose la quiete dello squilibrio e dello stress – anche se io, come tutti, ricerco, anzi, agogno un po’ di quiete.
(6) Se, poniamo, ogni redazione fosse costituita da un gruppo di persone dedite esclusivamente a quella rivista, dubito che questo porterebbe un vantaggio alle singole redazioni e allo scambio e alla crescita all’interno della psicologia della nostra zona. Ne dubito fortemente. Fra le altre cose, mi spaventa il rischio, per quanto certamente remoto, che si possa pian piano formare qualcosa di simile a consorterie chiuse, mosse anche da simpatie o antipatie personali verso l’esterno, e nel chiuso del loro interno lentamente preda di dinamiche di gruppo. Finirebbero così per essere distolte da quello che attualmente è, ed è mio preciso interesse personale e mia intenzione che rimanga, il loro scopo principale: lo scambio scientifico, di esperienze e il sostegno reciproco di iniziative, verso l’esterno non meno che all’interno delle redazioni.
Certo, ogni rivista coagula e poi forma anche determinati nodi di influenza e rappresenta un centro di interessi. Me ne rendo conto. Ed è proprio rispetto a questo che la mia presenza vuole manifestarsi e può portare un contributo. Consideratemi, se volete o se può fare comodo, come un raccordo possibile fra gruppi costituiti da persone esperte, ognuna con un suo bagaglio prezioso, ognuna con un ancor più prezioso moto interno verso una evoluzione, ognuna con una sua curiosità che nutre la mia curiosità. Vorrei vedere articolarsi in forme e movimenti più complessivi le forme e i movimenti che animano la psicologia dinamica (la psicologia che mi appassiona e nella quale ho una certa competenza) del territorio dove vivo e opero.
Oops! Mi rendo conto che le ultime proposizioni possono apparire come la più stucchevole delle prese di posizione del politically correct… (Rieccomi a tentare di spiegare perché il lupo…). Il punto è che non prendo questa posizione perché sono “buono”, “umile”, o che altro, ma perché considero questo il mio più genuino, personale interesse. Certo, è naturale che ognuno aspiri a presentarsi agli altri (a se stesso?) sotto la miglior – come dire? – prospettiva, che tenda a lasciare le impronte migliori possibili dietro di sé, nel suo breve respirare nel sottile spazio fra le tremende verità definitive di cielo e pietra che imperturbabili lo attendono. Persino quelli che si fanno esplodere dentro autobus pieni di bambini attingono sempre alle idee più nobili (il mysterium tremendum della vita è che trovano sempre qualcuno – apparentemente altrettanto in buona fede – disposto a credergli e a fargli quindi da cassa di risonanza). Raramente si trova l’onestà intellettuale che ho trovato nei Magnifici Sette. Ricordate? Il bandito messicano chiede a Steve Mc Queen: “Perché? Perché un uomo come te si è ficcato in un’impresa e in pasticcio simile?” E Steve Mc Queen: “La cosa mi ricorda un tale che corse nudo ad abbracciare un cactus. A quelli che gli chiedevano ‘Perché?’, lui rispose: ‘All’inizio mi era sembrata una buona idea!’”. Raramente ho sentito una risposta più sincera e onesta alla condizione umana – spero solo che, fra qualche anno, quando qualcuno mi chiederà il perché della mia posizione sulle riviste di psicologia, io non dovrò farfugliare: “All’inizio mi era sembrata una buona idea!”…
Ma non divaghiamo. Eravamo rimasti al mio interesse. Anche per me è importante raggiungere mete personali, è ovvio. Ma è altrettanto importante lo scambio e l’attenuazione di ogni forma di tensione. Trattandosi di un plus rispetto alla mia attività lavorativa quotidiana, ha un senso solo se mi ci diverto almeno un po’, se imparo qualcosa e in cambio trasmetto qualcosa della mia esperienza. Soltanto nello scambio, tra l’altro, posso cogliere miei errori, mancanze che altrimenti resterebbero per me ignote per sempre. C’è anche qualcos’altro: alla mia età lo spazio che esiste fra le verità immutabili della pietra e quelle degli abissi siderali tende a diminuire a vista d’occhio. E’ mio interesse catturare un pensiero, vivere un sentimento, provare una sensazione, cosa che mi riesce sempre più difficile. E prima che quello spazio, ad ogni anno più esiguo, finisca per chiudersi completamente, eccomi curioso di veder nascere cose, e propenso a considerare come ricreative le esperienze maturate con amici e colleghi. Mi sento già fin troppo, fin da bambino, una monade, con le finestre pericolosamente socchiuse.
Sia nel mio lavoro in ospedale che in quello di psicoterapeuta, ho visto decine di incomprensioni e di irritazioni, spesso cronicizzate negli anni, e quasi tutte apparentemente basate su questioni di interesse, ma, a meglio guardare, fondate per la gran parte su malumori accumulati sul lavoro e su aspetti caratteriali. Tutto legittimo, naturale, umano, ma per favore – lo dico a tutti e per primo a me stesso – non voglio essere coinvolto in tensioni che non mi appartengono. Ne ho già troppe di mie, e altre ne accumulo nel chiuso del mio studio. Per giunta, quel po’ di creatività che mi prende forma dentro, necessita di un tantino di divertissement, per poter uscire.
Qualcuno potrà scuotere il capo: “Parole, quante chiacchiere; ma questo continua a non prendere posizione: sguscia”. Allora, voglio spiegarmi con un esempio. L’anno scorso ho avuto il privilegio di tenere un corso all’Aquila, e il privilegio altrettanto grande di sentirmi ben accolto là. Alcuni mesi prima ho pubblicato un lungo articolo, in cui mi sono sforzato di concentrare le premesse epistemologiche e la traccia generale di tutto il corso, così come mi era venuto in mente, delineando i riferimenti degli autori cui si sarebbe ispirato, e la maniera in cui li avrei articolati, nonché i contributi della esperienze e delle riflessioni personali. Mi sembrava corretto riassumere e presentare per scritto tutto questo a chi aveva fiducia in me e a chi non mi conosceva ancora, manifestando il mio pensiero e i suoi limiti, e stimolando critiche prima che il corso avesse luogo. Questa è la mia maniera di prendere posizione, di collocarmi e di cercare critiche e scambi. In essa non c’è niente di buonistico, niente di umile, niente di sfumato: semplicemente è l’unica che sento a me congeniale, che corrisponde alle mie caratteristiche e ai miei limiti caratteriali, e quindi al mio interesse. Su questo piano mi sento di portare un mio contributo. Su altri piani, provo disagio e difficoltà gestionali.

3. Suggestioni e tracce seguendo orme di impronte

Mi è piaciuta da subito quella maniera di riunirsi, di leggere gli articoli pervenuti e di discuterli insieme. E’ un modo per vivere qualcosa insieme, oltre che di imparare gli uni dagli altri. Mi è piaciuta l’impostazione della rivista, per argomenti monografici attorno ai quali gli articoli si dispongono, raggruppati per scuole di pensiero, come petali di una margherita a delineare un centro, l’argomento proposto, che resta problematico, sfumato, intravisto in tanti aspetti diversi.
Mi lascia perplesso, invece, il tono narrativo assunto da un numero crescente di articoli (per capirsi, il tono della parte iniziale del presente intervento). Non so.
Da un lato, mi rendo conto che l’attività psichica è prima di tutto un racconto, che prende forma narrando sé a se stessa. Jung, in particolare ha colto e accentuato questo aspetto. Nel commentare lo psicologo svizzero, Trevi ha posto la differenza fra la psicologia intesa come corpus dottrinario, discorso sulla psiche, e la psicologia intesa come fenomenologia, discorso della psiche, per cui ogni esposizione psicologica, non meno di ogni espressione umana, è in primo luogo manifestazione della psiche così come essa è. Ci sono precedenti illustri, l’autoanalisi di Freud ad esempio, e gli scritti di Nietzsche. E gli autori contemporanei, che descrivono la psiche prender forma attraverso il reciproco gioco delle narrazioni parallele di transfert e controtransfert.
Dall’altro lato, non vorrei che passasse l’idea, specialmente agli psicologi più giovani, che basta descrivere un proprio stato d’animo, narrare un proprio modo di essere per fare della psicologia. C’è una dimensione complessa della psicologia che, esplicitata o no, distingue gli scritti scientifici da quelli che appartengono ad una dimensione narrativa, i quali meriterebbero semmai una sezione, oppure una rivista, a parte. Uno scritto di psicologia risulta da un interagire complesso fra discorso della psiche e discorso sulla psiche, sorge mentre un vissuto interiore viene letto rispetto ad un riferimento dottrinario, e diventa dunque ipotesi, rappresentazione, domanda. La psicologia vive nello spazio effimero e cangiante teso fra dogmatismo dottrinario e spontaneismo senza riferimenti. Non è né il discorso del senex, né quello del puer, ma lo spazio creato dal loro interagire. In ciò la psicologia rispecchia, mi pare, la natura paradossale dell’attività psichica, che è contemporaneamente l’oggetto e il soggetto delle sue riflessioni. L’attività psichica vive e palpita nella tensione di opposti, senza consistere né nell’uno, né nell’altro.

4. Esistono più riviste fra cielo e pietra di quante alcuni possano immaginare

Ho sentito alcuni chiedersi: troppe o troppo poche tre, anzi quattro, riviste di psicologia, per un bacino d’utenza come il nostro? Boh, non so. Mi viene in mente il mio Prof. di filosofia del liceo: “ciò che esiste, esiste perché esistono le cause necessarie e sufficienti del suo esistere”. Criticare significherebbe dunque cercare di capire, di scegliere, di vivere ciò che è, e non prendere + o – le distanze in base alle cose come “dovrebbero essere”. Ma sospetto che anche lui, il mio compianto Prof., fosse uno della tribù invisibile di chi vede distintamente le cose dove sono confuse nella penombra e si confonde nel percepirle in piena luce. Dunque, queste riviste forse sono troppe, o forse troppo poche. E ci sono tanti fattori di cui tener conto nel valutare il fenomeno. Ad esempio l’avvento e la crescita di un tessuto universitario nel nostro territorio e le conseguenti esperienze importanti di collaborazione e scambio fra il mondo accademico portatore di istanze e di assetti culturali e quello dei professionisti impegnati nel lavoro clinico. Tutte le riviste in questione, pur avendo ciascuna il suo taglio e la sua fisionomia, provengono dagli ambienti clinici dei professionisti, ma sono sempre più espressione di questa stretta collaborazione con le Università. C’è poi il fatto che un’intera generazione di psicologi e psicoterapeuti ha raggiunto in questi anni una sua maturazione di esperienze e di cultura, e un’altra preme e si sta rapidamente formando. Diverse riviste scientifiche, che rispecchino diverse impostazioni, rispondono alle esigenze di espressione di una frangia cospicua di questa realtà. E’ vero, tuttavia, che leggendo i nomi delle redazioni e ancor più i nomi degli autori degli articoli, si può avere l’impressione di un dejà vu: sono poche decine di nomi che tornano. E questo nonostante alcune “precauzioni”, come quella presa da Impronte di evitare di accogliere articoli dello stesso autore, per quanto qualificato e qualificante, in due numeri consecutivi. Ciò non significa che tutte queste redazioni siano una specie di numero chiuso che esclude. Forse non siamo ancora riusciti a raggiungere e a informare molti potenziali collaboratori. O forse più semplicemente non tutti, come è loro diritto, ci tengono a esporre per scritto il loro pensiero.
Io penso che dobbiamo in ogni caso gratitudine a chi ha per primo pensato, immaginato, voluto, fondato ognuna di queste riviste, per le opportunità che hanno offerto. E penso che dobbiamo gratitudine anche all’infaticabile suscitatore di attività, animatore di iniziative, centro di consulenza permanente nelle difficoltà che è l’attuale Presidente dell’Ordine degli Psicologi, Giuseppe Peppino Bontempo.

5. Conclusioni

Non ero d’accordo nel produrre questo numero in cui i redattori di una rivista parlano della stessa rivista. Mi sembrava alto il rischio di una certa autoreferenzialità. Ma ora mi sento soddisfatto di essermi potuto esprimere.
Prima ho citato i Magnifici Sette e per par condicio – incorreggibile, eh? – mi piace chiudere questo mio sogno di una notte di mezza estate alludendo a Shakespeare: come Puck, se vi ho seccati, chiedo perdono; se vi ho annoiati, mi dispiace; se vi ho divertiti, sono contento.

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