Disumano, troppo disumano.

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Uno scambio di opinioni tra i redattori di “Impronte”

Massimo Belisario. Cosa sta accadendo “all’umano”, in noi? Dove stiamo andando? Uno spunto da un recente intervento di Cacciari. “Ci siamo riempiti la bocca di diritti umani per generazioni, noi con i nostri valori occidentali, e qui per la prima volta forse nella storia assistiamo a un esercito che combatte direttamente i civili… dei civili in fuga che vengono massacrati. È il crollo di ogni principio minimo di diritto, neanche di diritti umani, ma di diritto internazionale. Assitiamo a una catastrofe culturale del nostro mondo.”

Sandra Granchelli. È devastante per ogni essere che ancora voglia e possa definirsi “umano” assistere in diretta all’annientamento di donne, bambini, vecchi, uomini di qualsiasi condizione ed età che hanno avuto in sorte di vivere, da millenni, su un territorio che pare essere stato promesso, da un qualche Dio, a un popolo che si definisce e crede eletto. Un popolo, l’eletto, che ha subito una sorte simile, negli anni trenta e quaranta del XX secolo; un popolo che è stato cacciato dalle proprie case, trasferito, deportato, annientato prima che nel corpo, nella propria dignità umana. Ero in fila davanti alla fabbrica di Oskar Schindler a Cracovia, qualche settimana fa. Osservavo le foto in bianco e nero dei “salvati” e mi chiedevo dove vivessero e cosa facessero i loro figli, nipoti, pronipoti: cosa pensano di ciò che accade a Gaza e in Cisgiordania? Sono tra coloro che sparano e si rendono responsabili dell’uccisione dei civili? Sono sulle colline prospicienti Gaza a festeggiare per ogni palestinese ucciso? O a impedire che gli aiuti umanitari arrivino nella Striscia? Com’è accaduto che il popolo che è sopravvissuto alla Shoah si stia rendendo colpevole dello sterminio sistematico di un altro popolo?

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Rispecchiamento e interpretazione: riflessioni teoriche e cliniche

“Ambiente e identificazione: alle radici del processo di soggettivazione”

Di Giulia Lollobrigida

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Winnicott, nel suo articolo “La funzione di specchio della madre e della famiglia nello sviluppo infantile”(1967), dopo aver elencato le funzioni che deve assolvere l’ambiente nei primi mesi di vita del bambino (holding, handling, object presenting) si chiede: “Ora a un certo punto viene il momento in cui il bambino si guarda intorno. Che cosa vede il bambino? Che cosa vede il lattante quando guarda il viso della madre?” e risponde “Secondo me ciò che il lattante vede è sé stesso”.

L’autore ipotizza poi che, se i lattanti fanno esperienza ripetuta di guardare il volto della madre e non vedere sé stessi ma di scorgere il volto reale, ci saranno delle “conseguenze”.

Quali sono queste conseguenze?

Ad essere minato è il senso di esistenza del bambino che viene privato di quell’esperienza di corrispondenza che convalida le sue sensazioni, che rappresentano tutta la sua esperienza disponibile. Se è visto, allora esiste. E’ reale. Quel piacere è reale. Quel dolore è reale.

“Quando guardo sono visto, così io esisto.

Ora posso permettermi di guardare e di vedere” (Winnicott, 1967).

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LA CONSULTAZIONE PSICOANALITICA, UN INCONTRO TRA SOGGETTIVITA’

Di Alessandra Mosca

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La consultazione psicoanalitica rappresenta un momento cruciale, non solo per la diagnosi, ma per l’attivazione di un campo relazionale e trasformativo. A differenza della consultazione medica tradizionale, questo spazio si configura come un incontro emotivo, fenomenologico, in cui la modalità del racconto e dell’ascolto hanno un valore osservativo e terapeutico. La prima consultazione è un evento unico, denso di significati non sempre immediatamente accessibili alla coscienza, e può offrire un accesso privilegiato alle dinamiche inconsce del paziente.

La consultazione psicoanalitica, intesa come primo incontro tra paziente e analista, non è un semplice colloquio informativo, ma un vero e proprio spazio dinamico in cui si intrecciano le storie, le emozioni e le aspettative di entrambi. Secondo il modello di campo, sviluppato da autori come i coniugi Baranger e successivamente approfondito da Antonino Ferro e poi ancora da Giuseppe Civitarese, la situazione analitica è concepita come un campo bipersonale in cui paziente e analista co-creano un ambiente emotivo condiviso. Questo campo non è la somma delle esperienze individuali, ma una realtà nuova che emerge dall’interazione tra i due soggetti.

Il campo analitico si struttura su tre livelli: Il setting inteso come gli aspetti formali e contrattuali della situazione analitica. La relazione manifesta, cioè le interazioni verbali e non verbali tra paziente e analista. La fantasia inconscia bipersonale: il livello più profondo, costituito dalle identificazioni proiettive e introiettive reciproche, che danno forma a una realtà psichica condivisa. Secondo questo modello, l’analista non è un osservatore esterno, ma parte integrante del campo, influenzato e influenzante. Il controtransfert e le rêverie dell’analista diventano uno strumento prezioso per comprendere le dinamiche emergenti e per facilitare il processo di trasformazione del paziente.

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L’ESAME DI REALTÀ E LA COSTRUZIONE DEL SÉ: VADEMECUM PER ESPLORATORI

Di Maria Cristina Cameli

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L’esame di realtà è un processo complesso che supera la semplice distinzione tra mondo interno ed esterno. Si configura come una funzione integrativa, un punto di raccordo tra dimensioni corporee, emotive, trasformative e relazionali, attraverso cui il Sé si forma e si afferma nel mondo.
Questo articolo approfondisce il ruolo dell’esame di realtà nella capacità di abitare il mondo, interno ed esterno, in modo creativo ed autentico. Questa dialettica tra le dimensioni dell’esistere è un processo evolutivo, dinamico e relazionale, che si sviluppa lungo tutto l’arco della vita, intrecciandosi con i cicli vitali e le esperienze quotidiane.
Un aspetto cruciale dell’esame di realtà riguarda appunto la relazione con la dimensione corporea. Secondo Winnicot la “personalizzazione” (Winnicot,1950) è il primo passo verso il riconoscimento del corpo come Me: il corpo è il nostro primo strumento di interazione con il mondo esterno, attraverso il quale possiamo cominciare a sperimentare i nostri confini fisici, emotivi e psichici.
La “personificazione” (ibidem), invece, va oltre l’abitare il corpo, ossia lo rende un mezzo attraverso cui il Sé si esprime. È la capacità di so-stare nell’attimo presente per raccontare chi siamo, per comunicare i nostri stati interni agli altri, per manifestare la nostra identità. Questo processo, che può emergere fin dalla prima infanzia, gioca un ruolo cruciale durante tutta la vita.
Il Corpo è dunque il terreno originario della soggettività. Armando Ferrari evidenzia che il corpo rappresenta il terreno primordiale da cui prende origine la mente; pertanto l’esperienza sensoriale corporea svolge un ruolo fondamentale nello stimolare continuamente la capacità simbolica. Il corpo non è un contenitore passivo, ma un interlocutore attivo in costante dialogo con la mente. È l’“Oggetto Originario Concreto” (Ferrari,1992) da cui la mente inizia a strutturarsi.
Nella dialettica tra corpo e mente emerge il Sé, che si radica nella corporeità e si esprime simbolicamente mediante la personificazione, in un continuo oscillare e trasformarsi lungo l’intero arco della vita. Tutto questo prevede una crescita, uno sviluppo dal piccolo al grande, dal semplice al complesso, dall’Uno al Bino (ibidem).
Il passaggio dall’essere corpo all’essere persona prevede la presenza dell’Altro. L’essere con l’Altro coinvolge la Relazionalità, lo “stare con”, in un equilibrio tra connessione e riconoscimento dei propri limiti.

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L’influencer e la fiducia: il caso Pandoro e l’illusione del legame genuino

di Alessandra Mosca

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Negli ultimi mesi, il mondo del gossip e dei social media è stato travolto dal cosiddetto “caso Pandoro”, che ha visto protagonista l’influencer più famosa d’Italia. La vicenda ha sollevato numerose discussioni non solo sulla figura dell’influencer, ma anche sulla gestione delle donazioni, regali, sponsorizzazioni e campagne di beneficenza spesso definite “farlocche”. Ma la domanda che in molti si sono posti è: perché le persone seguono gli influencer?

La risposta che ha sorpreso molti è che “piacciono perché ispirano fiducia, vengono percepiti come persone reali e genuine”. Si presentano come figure quotidiane, che comunicano direttamente con il pubblico attraverso i social media, in un rapporto che sembra diretto e privo di filtri. Ma è davvero così semplice costruire un legame basato sulla fiducia?

La riflessione da porci è quanto sia realmente difficile stabilire un legame di fiducia, e se basti davvero un video in cui un’influencer mostra un prodotto promettendo miracoli, che sia una crema miracolosa, un capo d’abbigliamento o un mobile alla moda. Siamo sicuri che tutto questo ruoti attorno alla fiducia? O forse ci siamo tutti abituati a una dimensione in cui lo sforzo, l’impegno e la ricerca sono stati messi da parte?

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Sala d’attesa

Di Sandra Granchelli

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Per anni ho portato con me un taccuino.

Nei momenti di attesa annotavo pensieri o disegnavo. Erano sciocchezze, per lo più, descrizioni di ambienti o persone, note che collegavo a vissuti, esperienze, paure…

Stamattina, in una sala d’attesa, ho sentito la mancanza di qualcosa su cui scrivere liberamente. Avevo lo smartphone e la possibilità di scrivere un post su facebook o su qualunque altro social, ma sono spazi pubblici, i social, non vi si può scrivere tutto ciò che ci passa per la mente, ci sono cose che, semplicemente, non si possono dire.

Una volta, per uno spettacolo teatrale, scrissi un breve monologo in cui si sosteneva che le attese non sono tempo perso, ma un tempo regalato. In vite in cui è sempre necessario occupare le ore, i minuti, i momenti con qualcosa, l’attesa diventava un tempo recuperato per sé. Al personaggio che sosteneva questa tesi (un anziano signore rimasto vedovo) facevo dire che quella mattina, ad esempio, mentre aspettava che dalla moka uscisse il caffè, aveva goduto delle sfumature di cui il cielo si stava colorando, all’alba; avesse avuto la macchinetta con le cialde, per dire, non avrebbe avuto quel momento di serenità; avesse avuto uno smartphone, forse avrebbe passato quel tempo a testa bassa, concentrato su uno schermo (ma all’epoca non esistevano gli schermi).

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Il segreto del riccio

di Claudio Merini e Donatello Giannino

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– Salve dottore, oggi non avevo proprio voglia di venire. Sente che caldo?! Non si riesce neanche a respirare. Fortuna che qui c’è un ventilatore, almeno circola un po’ d’aria. Ma lei non sente questo caldo?

Il paziente si sdraia sul lettino.

– Beh, sì lo sento anch’io. Ma è sicuro che è solo per il caldo che non aveva voglia di venire?

– Certo dottore; quando fa molto caldo mi capita di non avere voglia di fare e di dire nulla. (Pausa). Ma perché lei mi fa sempre domande così… mm, non saprei, mi verrebbe da dire così dirette, mettendo in discussione ciò che le dico? Non si fida? Se le ho detto che non mi andava di venire per il caldo, perché dubita? È da sempre così. Mio padre, mia madre, mia sorella, i miei amici, la mia ragazza; tutti coloro che mi circondano non si accontentano mai di ciò che dico loro. E questo mi fa incazzare, e non poco. Lei lo capisce vero?

– Sì, lo capisco. Certo è strano che tutti quelli che la circondano non si accontentino di ciò che dice.

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La voce del silenzio

di Adele Lonigro

Mi chiedo come mai a volte si avverta il bisogno di dispensare futili parole, di riempire tutto ciò che ci circonda e di capire tutto quello che accade.

Forse non tolleriamo il silenzio e quello che potrebbe nascere da questo corpo informe?

Il silenzio ci circonda, il silenzio è necessario…è la base di ogni comunicazione.

“Il silenzio precede la parola come la vita dalla morte” (Reik, 1927).

Dar vita al silenzio concede l’alternarsi di voci, concede uno spazio all’altro, spesso negato dalla nostra tendenza a saturare tutto con il nostro essere ingombranti, con il nostro fagocitare l’altro: incapaci di ascoltare non solo l’altro ma noi stessi.

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Il silenzio, invece, deve accompagnare l’ascolto per avviare un processo di conoscenza: occorre un tempo e uno spazio per creare un legame.

Spesso le parole saturano lo spazio mentale e lo spazio comunicativo.

Per esorcizzare questo tradimento bisogna darsi un tempo, un tempo altro, che permetta la realizzazione di ciò che non ha avuto luogo… il tempo del non detto: il non parlante.

“In silenzio ho scritto queste parole, un silenzio che mi permetteva di percorrere strade a me sconosciute, i labirinti della mia mente, non facendomene dominare, perdermi…… ma ascoltando gli echi della mia silenziosa anima mi sono lasciata trasportare dal mio sentire. A volte mi sei amico come oggi, altre mi impedisci di respirare… ma sempre mi affascini con le tue mille forme.” Adele Lonigro

Il silenzio è voce, un coro di voci, difficile da conoscere, da riconoscere e da tradurre.

Ogni analista sa che il silenzio è tutt’altro che silente.

In analisi il silenzio dei pazienti, come il nostro, è in bilico tra il desiderio di prendere corpo e la tendenza ad affogare in se stesso.

Il silenzio dell’analista

Il silenzio dell’analista configura la capacità negativa dell’atto analitico.

Lacan designa il posto occupato dall’analista come quello del morto, che acquista la sua consistenza dal far sorgere da altri posti, testimoniando l’esistenza di un altro luogo dove regna il silenzio: l’inconscio.

Silenziosamente l’analista mostra il luogo silente della psiche e allo stesso tempo lo convoca alla sua presenza.

Il silenzio dell’analista e la sua capacità negativa, così come suggerito da Bion, di restare in attesa, in assenza di memoria e desiderio, offre l’opportunità di far nascere nuovi significanti, senza mai immobilizzare alcun significato.

Il non sapere che il silenzio dell’analista a volte nasconde, si aggancia e fa posto alla verità dell’altro.

Se l’analista smette di muoversi nel proprio silenzio, difficilmente riuscirà a comprendere ciò che accade nell’altro.

Quando il silenzio perde il suo valore analitico, diventa un deposito, segno di un contenitore stracolmo, che impedisce al pensiero di nascere. In questo modo, l’analista a sua insaputa, si rende complice nell’aver occultato un cadavere, impedendone la ri-nascita.

Il silenzio del paziente

“Leggi col pensiero il mio silenzio,

 e a bassa voce,

 benché onde di parole ci sovrastino sempre…

 Disorientate dal mio rapido buongiorno…

 È arrivato il tempo

 di raccogliere pensieri

 allegri, tristi, dolci, amari.

 Ce ne sono tanti…

 Pochi sanno ascoltare anche il silenzio,

 sanno aspettare, capire, le silenti profondità che abitano in ognuno di noi”.

 Valentina Vallario

Il silenzio del paziente è sempre una comunicazione che di volta in volta va decifrata.

Sta alla capacità dell’analista di abitare i suoi silenzi, la possibilità di darne un senso.

L’analista deve essere in grado di ascoltare con il terzo orecchio: con il proprio mondo interno, con la propria dimensione estesica, per avere la possibilità di mettersi in ascolto della sensorialità del paziente, che un silenzio corporeo rivela.

La psicoanalisi inizialmente ha considerato il silenzio solo come una resistenza e un rifiuto della regola delle libere associazioni. Oggi sappiamo che un silenzio può nascondere diversi significati.

Può sì rappresentare una resistenza in cui il paziente fa il vuoto nella mente per impedire a qualcosa di emergere alla coscienza ma può rappresentare altro.

“Avvolta tra le braccia di Morfeo che mi stringe forte a sé, sprofondo…

Finalmente sento la mia mente che si libera, fino a svuotarsi completamente…

Mi sembra di  percorrere il mare su di una zattera di frasche,

molto lentamente…

Un brivido di infinito sfiora i miei sensi… 

Resto con me stessa: io ed il mio silenzio…

riecheggia tra le mura qualche ricordo, che mi bombarda gli occhi…

E poi di nuovo il buio!

Tutto gira veloce intorno a me…

ora non sento più nulla…

Mi imbatto contro un vortice, ma sono così debole, troppo debole…che non resisto…

È troppo tardi ormai… Il silenzio dell’ebbrezza mi ha rapita! ”

Spesso sottende una difesa nei confronti dell’analista, quando il paziente in preda all’odio e alla rabbia ha paura di distruggere l’oggetto buono, e perciò si impedisce di parlare.

Ancora il silenzio può sottacere la paura di perdere qualcosa attraverso la parola.

Ferenczi, ad esempio, interpretava il rifiuto di parlare come la manifestazione di un desiderio erotico-anale. Il paziente taceva quando avvertiva la necessità di dover custodire gelosamente un tesoro, che analogamente agli escrementi, doveva essere trattenuto.

Ma il silenzio è anche l’effetto di una parola in attesa, un momento di riflessione, di regressione, di contatto con se stessi e di simbolizzazione.

In questo caso il silenzio non è il luogo contrapposto alla parola, ma il luogo dove essa germina.

È nel silenzio che si recuperano le esperienze arcaiche, in un fuori tempo dove qualcosa non ha avuto luogo psichico, perché non vi era una mente, e soprattutto non c’era un linguaggio per dire di quell’esperienza che resta nel corpo, nella memoria sensoriale.

È necessario allora distinguere, come ha fatto Lacan parlando di rimozione e forclusione, il silenzio del tacere, in cui si tenta di tenere lontano qualcosa che già esiste, dal silenzio del sileo, in cui si attende l’emergere di qualcosa che non è mai accaduto, che non ha avuto la possibilità di avere luogo, e di cui ora se ne può fare un’esperienza.

BIBLIOGRAFIA

BION W.R. (1970), Attenzione e interpretazione. Armando, Roma, 2002.

FERENCZI S. (1958), Diario clinico. Raffaello cortina, Milano 2004.

FREUD A. (1961).  L’io e i meccanismi di difesa. G. Martinelli & C. s.a.s., Firenze, 1997.

NASIO J.- D. (1987), Il silenzio in psicoanalisi. Edizioni Magi, Roma, 2005.

PONTALIS J.B. (1997), Questo tempo che non passa. Borla, Roma 1999.

RESNIK S. (1990),  Spazio mentale. Sette lezioni alla Sorbona. Boringhieri, Torino, 2003.

RESNIK S. (1972) Persona e psicosi. Il linguaggio del corpo. Einaudi, Torino, 2001.

Sogno o son desto?

di Giustino Galliani.

“Mi trovavo in una tipografia illuminata da una luce bianca ed intensa”. Osservo la bianca con la volta del soffitto. La linea comincia ad ondulare, come se fosse un serpente, un’onda, scintillante con i riflessi della bianca luce.

Il movimento ondulatorio verso l’alto, sempre più intenso, fa sì che qualcosa di incandescente spicchi un salto verso il pavimento. Provo un’intensa emozione:sembra un incrocio tra un montone ed una capra, con riccioli di lana che gli ricoprono la testa. Il muso marrone e gli occhi fissi evocano una sfinge.

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