di Claudio Merini

Quello che ti è impossibile è guardare avanti e immaginare te stesso che guarda indietro dal punto che avrai raggiunto nel futuro. Conoscere le emozioni nuove portate dal tempo. (Julian Barnes, Il senso di una fine)
– Insomma è successo di nuovo: mi ha mollato da solo a portare a termine il lavoro che avrebbe dovuto fare lei. Ha sempre qualche scusa per defilarsi e sempre quando si deve concludere. Lei è quella che ha le idee – che spesso non funzionano – poi lascia gli altri a risolvere i problemi reali. Sono davvero stufo. Mi sento sfruttato, come al solito.
(Silenzio)
Mi piacerebbe che dicesse qualcosa… invece niente. Anche qui devo fare tutto io… Analista cercasi. Perché sta zitto? Aspetta che aggiunga qualcosa?
– Dovrei prendere di petto la mia collega e dirle cosa penso di lei. Così però romperemmo il rapporto, ne sono sicuro.
(Silenzio)
– Evita il conflitto per mantenere la relazione, come ha fatto in famiglia.
– Nella mia famiglia non si litigava mai. Ciascuno si teneva le proprie insoddisfazioni. Si evitava accuratamente di parlare di questioni personali. Non riesco nemmeno a immaginarmi di litigare con i miei. Loro due li ho visti litigare solo quando mio padre scoprì che mia madre lo aveva tradito.
Mi racconta sempre di persone che lo sfruttano. Secondo una certa ottica psicoanalitica dovrei pensare che sta parlando di me, che si sente sfruttato dall’analista. Ma in che modo io lo sfrutterei? Il mio vissuto è che lui tende a fare da sé… Non vuole apparire bisognoso. È come se non mi chiedesse niente. Spesso dice lui quello che potrei dire io. Vuole il mio aiuto, ma non lo può ammettere… Mi ricorda Arturo, l’interlocutore analitico che è venuto per quasi due anni e che ha smesso qualche mese fa. Se gli proponevo un mio punto di vista lo negava sistematicamente. Non lo sopportavo, mi era antipatico. Verso quest’uomo invece non provo antipatia, anzi. Mi fa tenerezza la sua fragilità.
– Non posso che continuare nel segno della tradizione. È troppo difficile romperla. Quando vedo la gente che se ne dice di tutti colori, mi sento uno che viene da un altro pianeta. Io a un certo punto scompaio, senza litigare. È il mio modo di risolvere il problema.
(Silenzio)
– Spero che non farà così anche con me.
– Come?
– Spero che non interrompa la psicoterapia dall’oggi al domani senza nemmeno comunicarmi la sua intenzione.
– Non sono così scorretto… A volte penso alla possibilità di smettere.
(Silenzio)
– Perché continua a venire?
– Vorrei diventare più forte. La vita mi spaventa… il dolore fisico mi spaventa… la malattia… Non posso nemmeno pensarci… mi vengono i brividi. C’è un sacco di gente che passa attraverso dei calvari assurdi… Come fanno? Spesso mi trovo a immaginare me stesso in un letto di ospedale. Allora cerco una via d’uscita e sa qual è la via d’uscita che mi viene in mente?
– Credo di saperlo.
– Se ce ne fosse un’altra… Suicidarsi è difficile.
– Potrebbe essere più facile accettare la sofferenza.
– È il carico d’angoscia che non riesco a reggere. Mi immagino di stordirmi con gli psicofarmaci. Potrebbero essere un’alternativa.
Ora si è aperto e mi chiede aiuto. È importante quello che dirò adesso… è importante come lo dirò. Voglio che non si senta solo, che avverta la mia presenza a fianco del suo letto d’ospedale.
– La capisco. So di cosa parla.
Mi sta dicendo che anche lui c’è passato… o è capitato a un suo familiare… Ha accompagnato un genitore verso la morte? O anche lui pensa al suicidio? Non posso chiedere… è una questione troppo delicata. Gli psicoterapeuti non saranno dei superuomini, avranno anche loro paura delle malattie e del dolore. Probabilmente sanno come fronteggiarli, avranno delle tecniche. Dovrei impararle anch’io. Solo che lui non mi insegna niente, non dà consigli, salvo in qualche rara occasione. Non so come funziona questa psicoterapia… “La capisco” … Fa un bell’effetto sentirselo dire. Di solito la gente se gli confidi qualche pena ti invita a non pensarci o ti dice che stai drammatizzando o ti racconta i suoi problemi, come se fossero peggiori dei tuoi.
– Quando leggo di qualcuno che si è suicidato, cerco di capire chi era e perché l’ha fatto… come l’ha fatto… Anche il suicidio è doloroso… Non c’è scampo. Molti grandi uomini hanno finito così la loro vita. Uno che ha scritto parecchio sul suicidio è Cioran. È morto di malattia, da vecchio. In un’intervista ha detto che l’idea di potersi suicidare lo ha aiutato a vivere.
– Una via di fuga immaginaria. L’immaginazione può aiutare a vivere o essere uno strumento di tortura, dato che nell’immaginazione possiamo affrontare migliaia di volte situazioni terribili.
– È quello che succede a me. Prima di dormire mi capita di immaginarmi malato in un letto d’ospedale oppure in attesa di subire un intervento chirurgico. L’angoscia mi devasta… e magari mi risveglio con la stessa immagine e lo stesso terrore. Devo alzarmi subito e immergermi nella vita quotidiana, fare colazione ascoltando le notizie del telegiornale, affrontare i problemi della giornata, che sono già abbastanza. La mia mente non sa stare ferma, viaggia da una parte all’altra, macina idee e soluzioni… Almeno trovassi la soluzione finale… una via d’uscita da questo recinto d’angoscia… In casa mia sono stato imbottito di immagini terrificanti sulla malattia e sulla morte. Quando mia madre tornava dal lavoro non passavano cinque minuti che già raccontava di qualche conoscente a cui avevano diagnosticato un cancro o di una vicina rimasta paralizzata in seguito a un ictus. Spesso arricchiva i racconti con descrizioni delle porcherie che la malattia generava nel corpo. Sembrava che si dovesse scaricare degli orrori che aveva dentro. Io sentivo lo stomaco che si accartocciava e l’angoscia che mi serrava il petto. Pensavo a come mai non era ancora successo a qualcuno della nostra famiglia di essere colpito da una malattia grave. Pensavo che era questione di tempo, che sarebbe toccato anche a noi, magari proprio a me… che pure ero ancora un bambino… Mi scusi se le racconto cose così orribili.
– Si preoccupa per me. La ringrazio. Avrebbe dovuto farlo sua madre: preoccuparsi dell’effetto che quei racconti potevano avere su di lei bambino.
– Sì, avrebbe dovuto farlo. Invece mi trattava come un bidone dell’immondizia.
Mi fa pena, poveretto… Mi dispiace… Deve essere stato tremendo… e ancora lo è. Non so se sono l’analista adatto per una problematica del genere. Mi sembra normale essere terrorizzati dalla malattia… Ma il punto è: come mai questa paura può invaderti oppure no? Noi esseri umani siamo condannati a essere consapevoli della sofferenza fisica e della morte che inevitabilmente ci attendono. Che cosa ci difende da questa consapevolezza? Il dover affrontare problemi urgenti nel presente? L’avere uno scopo vitale? Il desiderio? L’amore? Ci arrampichiamo sugli specchi per evitare l’angoscia dell’unica cosa certa della vita. Sono gli affetti a tenerci lontani dall’orrore?
– Voglio restare a casa mia… non voglio andare in ospedale. Curatemi a casa mia. Oppure datemi qualcosa che non mi faccia sentire il dolore, qualcosa che mi stordisca… Voglio avere intorno le mie cose… stare nel mio letto con la luce dell’alba… Non mi prenderete…
Sembra che si sia dimenticato della mia presenza. Parla sottovoce, come se parlasse con se stesso. È un comportamento insolito per lui. Cosa gli sta succedendo? Quest’uomo non è abituato a essere aiutato, non è abituato a essere curato. Così non si immagina che se fosse malato qualcuno si prenderebbe cura di lui. Non si immagina di essere consolato da presenze amiche. Affronta tutto da solo. Si chiude in una nicchia autistica nel tentativo di contenere l’angoscia.
– Si sta chiudendo in sé. Guardi che non è solo: ci sono anch’io.
– Lei non può farci niente. Sono condannato. È una sentenza già scritta.
– Però adesso siamo qua, non in un ospedale. Non può accettare che la sua salute e la sua vita non siano eterni?
– Non è questo il problema. È che non so come farò ad affrontare il dolore.
– Ha paura di non farcela. Se guarda al passato vedrà che il dolore è stato capace di affrontarlo. Si è massacrato con l’angoscia nell’attesa dei momenti in cui avrebbe dovuto affrontarlo.
– Io sono terrorizzato dai luoghi in cui si soffre. Sono terrorizzato dagli ospedali.
– Cosa c’è di così tremendo negli ospedali?
(Silenzio)
– Sono prigioni. Si perde la libertà.
(Silenzio)
– Se immagina di finire in un carcere per scontare una condanna, ha la stessa angoscia?
(Silenzio)
– Assomiglia. Provo un’angoscia simile anche quando penso che una malattia mi toglierà la possibilità di fare cose che adesso faccio. Sarò meno libero. Dal punto di vista pratico la vecchiaia è una prigione che limita sempre più l’autonomia e le possibilità, è una rete che si stringe intorno a un delfino che una volta nuotava libero in mare aperto. E nessuno lo libererà quel delfino.
Ha ragione, che gli vuoi dire? Vedi me: andavo da solo per le montagne a piedi o con gli sci, per intere giornate. Adesso mi devo accontentare di passeggiatine… Bisogna imparare a lasciar andare.
– Per essere liberi bisogna imparare a lasciar andare.
– Me lo dice anche il maestro di yoga.
– Si arriva alle stesse conclusioni da prospettive molto diverse, come la psicanalisi e lo yoga. Si tratta sempre della comprensione dell’esistenza umana. Lasciar andare i soliti pensieri, le solite emozioni, residuo del passato. Osservarli, comprenderli e lasciarli andare. L’esperienza vera è altro. Quante volte è stato ricoverato in ospedale in vita sua?
– A parte un day hospital è successo una sola volta, per due giorni, quando avevo sei anni, per togliere le tonsille. Ero paralizzato dalla paura, tanto da non avere nessuna reazione visibile. Sa, come i cuccioli degli animali che in caso di pericolo rimangono immobili.
– E chi erano i predatori?
– I medici e soprattutto gli infermieri armati di siringa. Mi vengono i brividi solo a pensarci. Per consolarmi mi diedero un gelato poche ore dopo l’intervento. Ci voleva ben altro. Mi sembrava d’essere in un incubo. C’era mia madre con me, ma era come se non ci fosse.
– Non si sentiva curato da sua mamma?
– Forse lei ci provava a farlo… Non mi ricordo però una sua frase o un suo gesto, tranne l’offerta del gelato. Ricordo benissimo l’infermiere gigantesco che mi portò in braccio dalla sala operatoria alla mia camera. Posso avvertire ancora il contatto del suo corpo, come fosse adesso. In quel momento, per un attimo, mi sentii portato in salvo. Poi ricordo l’attesa angosciosa dell’infermiera che veniva a farmi le iniezioni, la gola che bruciava, il terrore notturno. Non ricordo per nulla l’uscita dall’ospedale e il ritorno a casa.
– Quindi se si immagina di dover stare in ospedale ora, si sente come allora, quando aveva sei anni. Da adulto non è mai stato in ospedale. Non sa come sarebbe l’esperienza.
– Sarebbe comunque terribile. Lo so.
– È terribile stare in ospedale senza sentirsi curati, anzi, avvertendo la presenza di predatori. Non ci sarebbe vicino a lei qualcuno che le vuole bene?
– Mia moglie prova fastidio quando sono malato. Si limita a fare per me lo stretto necessario. Mi tratta con freddezza.
– Qui si sente trattato con freddezza?
– A volte ho l’impressione che lei non ci sia.
– Come con sua madre quando si è operato di tonsille.
(Silenzio)
– Lei, dottore, sparisce e torna. Mia madre non c’era mai per aiutarmi, non ne era capace. Era piena di immagini terrificanti di cui doveva liberarsi parlandone a qualcuno. Me le ha lasciate in eredità. Era lei che aveva bisogno di qualcuno che la aiutasse.
– Ha il compito di digerire l’impasto pesante di quelle immagini. Stiamo cercando di farlo qui, anche adesso.
– Ce l’ha un digestivo potente?
– Sì, ce l’ho.
– Che nome ha?
– Provi a indovinarlo.
(Silenzio)
– Comunicazione?
– Io direi “empatia”.
(Silenzio)
– Meglio “empatia”. Mi sembra un digestivo più potente.
– Ha mai pensato che ciò di cui ha il terrore si potrebbe rivelare invece un’esperienza rivoluzionaria che le potrebbe aprire una prospettiva nuova?
– In che modo?
– Non so, le possibilità sono tante. Provi lei a immaginarne una.
(Silenzio prolungato)
– A cosa sta pensando?
– Potrei trovare in ospedale persone gentili che si occupano di me. Sono sempre io che mi occupo degli altri. Ho collezionato una quantità impressionante di relazioni in cui facevo da sostegno.
– A volte anche con me cerca di non farsi aiutare. Oggi però no, oggi è stato diverso. Se n’è accorto?
– Sì.
– Va bene. Il nostro tempo è finito.
– Incrocio le dita: spero che non sia finito in assoluto. Mi sono subito visto malato terminale in un letto d’ospedale.
– Per oggi, intendevo.
– Spesso su questo lettino mi sono sentito come se fossi steso in un letto d’ospedale, con un medico fantasma alle mie spalle.
– Ci dobbiamo tornare su questa immagine. È ricca di implicazioni.
– D’accordo.