Al di là del bene e del male. Ovvero l’etica dello psicoterapeuta.

di Claudio Merini

Il distacco è la misurata risposta dello scettico alla visione della caducità che pervade e domina tutto il reale. Egli vede che nulla resta, nulla è persistente, che tutto è destinato alla fine a tramontare: le cose, in tutta la loro ricca varietà, e gli uomini, nella loro multiformità e nei loro molteplici rapporti col mondo e con se stessi. (Wilhelm Weischedel)

Premetto che in questo articolo non affronterò questioni relative all’etica professionale e al codice deontologico o comunque non lo farò in modo diretto. Cercherò invece di enucleare quei valori che mi pare diano forma al mio essere psicoterapeuta.

Vorrei innanzitutto evidenziare la relazione che a mio parere intercorre tra l’atteggiamento etico dello psicoterapeuta e il suo approccio teorico e tecnico. La teoria e la tecnica di uno psicoterapeuta influenzano la sua etica? O, al contrario, è la sua etica a influenzare le scelte teoriche e tecniche? Per cercare una risposta parto come al solito da me stesso. Nella gerarchia dei miei valori il primo posto – mi pare – è occupato dalla libertà. Andando avanti negli anni me ne sono sempre più reso conto. Ho pagato anche parecchio per salvaguardare la mia libertà. Dunque come potrei essere uno psicoterapeuta con uno stile direttivo o aderire a teorie e tecniche che implicano prescrizioni e compiti? Contro me stesso ci avevo anche provato agli inizi della mio percorso formativo e professionale, ma dentro un tale modello soffrivo troppo; così ho trasformato il mio modo di pensare e lavorare attraverso un processo lungo e tortuoso che mi ha portato a mettere in primo piano nel rapporto col paziente l’ascolto, l’accoglimento, la convivenza, la presenza, l’autenticità, a considerarmi un “facilitatore” dell’espressione delle potenzialità creative nascoste nel paziente, o, come preferisco chiamarlo, interlocutore analitico. Mi piace pensarmi come un compagno di viaggio, libero di andare dove vuole e di lasciare che l’altro trovi la sua direzione e la segua, dopo aver fatto un tratto di strada insieme, a volte breve, a volte lungo. Un interlocutore di una conversazione che sia, rifacendomi a Giampaolo Lai (1985), il più felice possibile, per quei tre quarti d’ora, ogni volta, per quanto ce lo permettono le mie sofferenze e quelle dell’altro, steso sul lettino. Felice nel senso che nel ricoprire il mio ruolo io mi senta autentico, cioè presente con la mia umanità, con il bene e con il male di cui sono capace. Dunque, per quel che mi riguarda, è stata l’etica ad aver influenzato le mie scelte teorico-tecniche, compreso l’uso del lettino, in quanto l’assenza di un reciproco controllo visivo permette a entrambi gli interlocutori analitici di muoversi più liberamente all’interno di se stessi e di conseguenza nella relazione con l’altro (in quest’ultima affermazione la parola-chiave è “liberamente”).

Non mi sono mai identificato molto nel ruolo di psicologo e psicoterapeuta. Questo, che potrebbe sembrare un grosso limite, ha forse dei vantaggi per i miei interlocutori analitici. Se guardo alle teorie con un certo distacco, forse le mie parole non giungono come verdetti di un’autorità celeste; se vivo al di fuori di ogni “chiesa psicologica”, forse i miei interlocutori analitici sentono che è possibile andare avanti anche da soli con il fardello e l’orgoglio della propria diversità. Quanti “forse” ho usato! Rivelano un altro cardine della mia etica: lo scetticismo. Io non credo e sento tutta la problematicità e gratuità e aleatorietà che c’è in ogni affermazione (compresa questa). Dalla mia poltrona di lavoro naturalmente faccio delle affermazioni, asserisco qualcosa, ma il mio sottotesto dice all’interlocutore: “prendilo con le molle, non darmi troppo credito, concedimi la licenza di fantasticare; anzi, fallo anche tu, ché ti fa bene”. Quanti accidenti mi devono aver mandato i miei interlocutori analitici che erano in cerca di un dispensatore di certezze e hanno trovato invece uno che ha fatto dell’incertezza un suo fondamento. A dire il vero ultimamente mi pare di assecondare di più il loro bisogno di certezze, di uscirmene con qualche interpretazione da manuale, di usare un timbro di voce vagamente stentoreo e professorale. Quando me ne accorgo sorrido di me stesso e guardo dalla poltrona in prima fila il teatrino della mia vita interiore. Un personaggio, l’analista, sbuca da una quinta e dice: “Anch’io ho diritto di parlare”. “Ma parla, sì, parla, si ha tutti diritto di dire la propria!” gli risponde un tizio dall’aria assente, seduto nell’angolo sinistro della scena, un po’ in disparte. Tiene in grembo un libro chiuso, che da tempo non legge più. “Vedremo” è la sua parola preferita, insieme ad espressioni come “è possibile” o “potrebbe essere”. Ma il più delle volte emette una sorta di lieve muggito, solo per far sentire la sua presenza o sottolineare che qualcosa l’ha colpito. Capita anche che rida. Questo tizio, che tutti scambiano per uno psicoterapeuta, calca il limite della vita, cammina su un filo teso sopra l’abisso e non si ricorda nemmeno se ha letto per intero il codice deontologico del mestiere che gli altri credono che lui svolga. Lui ha un suo codice che comunque non potrebbe tradire e di mestiere fa il “pensatore”, nel senso che la sua mente macina pensieri sull’esistenza quasi senza sosta. Ed è per questo che scorda le chiavi e resta chiuso fuori casa, ripone gli oggetti nei posti più impensati, si muove per fare una cosa e si ritrova a farne un’altra, sbaglia strada quando guida. Insomma è distratto – così dicono. È contento quando qualche goccia della sua cascata di pensieri si fissa su un foglio e prende forma di scrittura: la sua anima tormentata per un po’ si placa. Vive nel paradosso d’essere pagato per fare un mestiere che non fa, non per pigrizia, ma per coerenza. Non ci sarà un furfante dietro quella maschera da filosofo, un uomo avvezzo al male? Certo che c’è. Come potrebbe altrimenti accogliere tutta la spazzatura dell’interlocutore analitico, confrontarla con la propria, annusarla alla ricerca della vitalità che vi si nasconde?

Al centro della scena, parzialmente nascosto da una finta foresta, c’è un personaggio schivo, selvatico, che rifugge dagli sguardi. È attratto dal canto degli uccelli e dalle orme degli animali. Non sa stare in mezzo agli uomini. Per lui è molto più facile avere a che fare con i topi o le serpi. È fuggito da tempo dalla comunità umana perché non ne sopportava le convenzioni. Credo che stia persino perdendo l’uso della parola. Lui è il vero portatore della libertà, quella integrale, quella dell’animale che in cattività muore. È continuamente braccato da chi vorrebbe rinchiuderlo in un ruolo. In fuga, da sempre. Ha un pessimo rapporto con il personaggio dell’analista, non capisce le sue interpretazioni, le teme: gli sembrano trappole tese ad arte per catturarlo. Vive di poco, di quel che trova qua e là e quando il “paziente” lo cerca interrogandolo, si ritira in un profondo silenzio, quasi non respira per non farsi individuare. Accetta di comunicare con lui solo col misterioso linguaggio degli animali e qualche volta ne nasce un dialogo primitivo e felice. È proprio una bestia selvatica, e come tale non sa mentire. Dovrebbe stare più spesso in primo piano – l’interlocutore analitico ne trarrebbe vantaggio – ma è contro la sua natura: mette fuori il naso quando le ombre si allungano e la notte s’annuncia.

Poi c’è un personaggio che ha sempre voglia di giocare. Sta seduto su un’altalena sospesa al centro della scena e fa ciondolare le gambe come un bambino. Anzi a guardarlo meglio è un ragazzino. I suoi giocattoli sono le parole, si diverte ad ascoltarne i doppi sensi, le sonorità, a rovesciarle e intrecciarle. A volte invita l’interlocutore analitico a fare altrettanto e si diverte come un matto quando ne trova uno disponibile; altrimenti rimane deluso, ma continua a giocare per conto proprio. Molti gli dicono che è ora di crescere. Lui però non ne vuole sapere: gli piace correre dietro alle fantasie e perdersi. Ancora non conosce le pesantezze della vita adulta e la spensieratezza è il suo dominio. Il dolore lo sfiora appena, come qualcosa che non lo riguarda… Esattamente il contrario del personaggio che sotto di lui soffre inchiodato a una comoda poltrona. Quest’ultimo è il ricettacolo di tutti i mali del mondo e attende paziente la Fata Liberatrice che lo solleverà dalla pena di esistere. Non piange, non si lamenta: il dolore è il suo destino. Un tempo vi si ribellava, ma ora non ha più la forza di farlo e soffre in silenzio. Forse lui è quello che meglio capisce i supplizi dell’interlocutore analitico. È stanco, terribilmente stanco, come se avesse sulle spalle una vita millenaria. In effetti è difficile dargli un’età: potrebbe essere un vecchio che porta bene i suoi anni o un giovane precocemente segnato dall’esperienza. Resta al suo posto per senso del dovere… il dovere che lo inchioda.

Ma ecco si sente un rumore, come un battere di martello. È lui: l’homo faber. Mai con le mani in mano, in dialogo costante con la materia, l’artigiano che gode del prodotto della fatica e dell’ingegno. Lui non ne vuol sapere di parole, l’azione creativa è la sua fissazione, la sua linfa vitale. La testa bassa, chino sulla sua opera, come se niente altro esistesse al mondo. Quando l’interlocutore analitico si rivolge a lui ottiene un grugnito o al massimo frasi del tipo “ci ha mai provato?”. Il costruire è il suo credo. Anni fa spadroneggiava sulla scena, ora è un po’ in secondo piano, ma quelle rare volte in cui compare ti comunica l’energia di Vulcano. Colui che oggi si vede invece spesso sul proscenio è un ometto gentile, con la faccia da buono, la bocca sorridente, gli occhi tristi e la schiena un po’ curva. Si dedica agli altri, probabilmente per farsi voler bene, o forse solo per via della sua natura mite. Si fa sfruttare. Lo sa, ma è ormai troppo abituato a questo cliché e per consolarsi lo considera un destino.

E poi entra lei, la giovane donna della compagnia. Sensibile e delicata, dispone in un vaso le rose che ha appena colto. Sogna a occhi aperti e guarda verso l’alto: cerca la bellezza. Sì, la sua fissazione è la bellezza e tutto ciò che la può avvicinare. È quasi un dolore fisico a coglierla quando s’imbatte nella volgarità. A volte le sembra d’essere circondata da immondizia e non sa più dove volgere lo sguardo per non vedere e non sentire. Le piace stare alla finestra, inondata di luce, a inseguire il suo sogno, che magari nasce dal sogno dell’interlocutore analitico. Rimpiange l’armonia di un mondo perduto e ne cerca i resti, sparsi qua e là, rappresentati da piccoli gesti e cose inutili, segni di un altrove governato da altre leggi. È troppo delicata per reggere una vita comune, ha bisogno di un luogo metafisico e di un tempo sospeso…

Sento qualcuno che dice: “Dottore, scusi, non so se mi sono spiegata… forse non era chiaro”. Distolgo lo sguardo dal palcoscenico interiore – abitato da diversi altri personaggi – e lo dirigo sull’interlocutrice analitica che, accortasi della mia presenza solo virtuale, cerca di richiamare la mia attenzione troppo fluttuante.

– Scusi, mi ero distratto.

Segue un breve silenzio carico di stupore.

– A cosa stava pensando?

– Non vorrà mica rovesciare i ruoli?!

– Sono noiosa, lo so.

– Al contrario, lei mi fa sognare. In effetti stavo sognando.

– Che cosa?

– Ah, ma allora è un vizio! Mi vuol portar via il posto.

– No, è che mi piacerebbe proprio sapere cosa passa nella sua testa.

– Se glielo dicessi non mi pagherebbe più.

Ride. Crede che stia scherzando.

– S’è fatta l’ora, ci vediamo venerdì prossimo.

Ci alziamo, la accompagno giù per le scale, fino alla porta.

– Buona settimana.

– Anche a lei.

Cosa c’entra tutto questo con l’etica? Io lo capisco con un po’ di fatica e spero che anche tu, caro lettore, riesca a cogliere qualche nesso. Per aiutarti e aiutarmi a rendere un po’ più cartesiano questo incosciente articolo dirò che il succo sta – almeno mi pare – nel pensare alla molteplicità e alla complessità come fondamenti di un essere libero e autentico. Quindi nella mia etica l’Uno e il Lineare valgono poco. Siamo teatranti, riconosciamolo, tu che leggi Impronte magari perché non hai niente di meglio da fare, l’interlocutore analitico sdraiato con le sue sacrosante aspettative di una vita migliore, io seduto alle sue spalle con il medesimo desiderio. Tutti teatranti. Ma togliamo a “teatrante” l’immeritata connotazione negativa che ha nel senso comune e comprendiamolo nel senso che noi esseri umani siamo specializzati nel metterci in scena. Dispieghiamo dunque tutto il nostro repertorio di personaggi, ascoltiamoli, con l’orgogliosa consapevolezza della mirabile varietà a cui apparteniamo. Lasciamo ai bacchettoni il compito di dire ciò che è bene e ciò che è male e teniamo per noi il compito di manifestarci appieno per quello che siamo e, ancor di più, per quello che potremmo essere.

Mi son lasciato prendere la mano. Beh, capita. Mettiamo un po’ di bibliografia, tanto per dare qualche riferimento. Ma prima una piccola citazione dal grande Nietzsche (1883, p. 39).

Guarda i buoni e giusti! Chi odiano essi di più? Colui che spezza le loro tavole dei valori, colui che infrange, che delinque: ma questi è colui che crea.

Bibliografia

Jünger E. (1980), Der Waldgang. Stuttgart: Ernst Klett. (Trad. it., Trattato del ribelle, Milano: Adelphi, 1990)

Lai G. (1985), La conversazione felice. Milano: Il Saggiatore.

Nietzsche F.W. (1883), Also sprach Zarathustra. (Trad. it., Così parlò Zarathustra, Milano: Rizzoli, 1985).

Weischedel W. (1976), Skeptische Ethik. Frankfurt am Main: Suhrkamp Verlag. (Trad.it., Etica scettica, Genova: Il Melangolo, 1998).

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