Il silenzio assordante

linguaggio persasivo

“Smacchieremo il giaguaro!”.

Pierluigi Bersani, candidato in pectore alla presidenza del Consiglio prima delle elezioni politiche del 2013.

“Se qualcuno insulta la mia mamma, io gli do un pugno!”.

Papa Francesco a proposito dell’attentato a Charlie Hebdo.

“Red Bull ti mette le ali!”

Slogan pubblicitario di una nota bibita.

Questo scritto è anche un meta-scritto e un esempio della tesi qui esposta; o almeno tenta di esserlo.

Il titolo di quest’articolo è una provocazione. Se il lettore ci fa caso, la locuzione “silenzio assordante” è una delle più utilizzate e diffuse nei mezzi di comunicazione. Ne fanno massiccio uso sia i media sia la gente comune, riferendosi a qualcuno che deve parlare o relazionare su qualcosa o comunque deve palesare la propria posizione rispetto ad un argomento oggetto di dibattito. Spesso questo soggetto è reticente e quindi si chiude appunto in un silenzio assordante. La frase è forte, paradossale; rende bene l’idea della opportunità e dell’esigenza di espressione poiché essendo “assordante”, il silenzio è negativo, inopportuno, direi proprio fastidioso.

Porto questo esempio, ma potrei farne di innumerevoli altri, per introdurre il vero argomento di questo articolo, e cioè: l’uso della metafora da parte dello psicologo e dello psicoterapeuta. Così a primo acchito non sembra un argomento originalissimo ed infatti non lo è se consideriamo tutta la mole di lavori che hanno riguardato la metafora e più in generale il simbolismo in psicologia, nell’area clinica soprattutto. Sono stati scritti migliaia di libri a riguardo e numerosissimi sono i contributi che evidenziano l’importanza del processo simbolico-metaforico visto come generatore semantico e/o scopritore di significati latenti. A memoria non me ne sovvengono ma sono sicuro che anche in questa rivista è possibile rintracciare un qualche contributo a riguardo. Ciò che sicuramente è possibile rintracciare è un linguaggio metaforico. Come è facile verificare, ci accorgiamo che parecchi articoli e libri di psicologia e più spesso di psicoterapia, anche quando trattano argomenti di tipo accademico e didascalico, fanno un uso massiccio della metafora e di altre figure retoriche: prosopopee, esclamazioni, metonimie, sineddochi, ossimori (come appunto il “silenzio assordante”), etc… Ho dovuto leggerne parecchi di questi scritti, anche per affrontare esami universitari. Quello che mi ha sempre lasciato interdetto e dubbioso è il fatto che quando anche m’imbattevo in opere che avevano un intento metalinguistico, cioè analizzare e studiare il linguaggio stesso magari giustappunto quello che si utilizza nel lavoro psicologico, pochissime volte ho trovato la tesi che qui voglio sostenere. La tesi secondo la quale l’uso della metafora, e della retorica in genere, è finalizzato alla persuasione dell’interlocutore. Gli psicologi sembrano aver del tutto cancellato questa funzione che tra l’alto è quella per la quale la retorica veniva utilizzata nella Grecia dei sofisti. Se siete colleghi o pazienti, spero abbiate notato che, negli scritti, nei discorsi e finanche nel lavoro di terapia degli psicologi, possiamo riconoscere parecchi artifici retorici. Infatti sono numerosi i parallelismi tra la figura dello psicologo e quella del navigatore che mantiene il timone, mentre il paziente rema. O meglio, aiuta il paziente a remare e tenere il timone e in più funge da bussola. Quindi la terapia è un viaggio impervio e difficile, che porta a solcare mari tempestosi, a volte anche ad immergersi negli abissi e le profondità più buie e recondite dell’animo umano. La terapia porta ad arricchire la propria cassetta degli attrezzi per affrontare al meglio il mestiere di vivere. Essa è un prisma prezioso, rappresenta un po’ il caleidoscopio della vita attraverso cui guardarsi dentro e conoscere meglio la propria Ombra. Ecco! Un altro aspetto che si ritrova sovente è l’uso di citazioni più o meno dotte, più o meno colte ma di sicuro effetto. Se ne fa un uso smisurato in psicologia. Ricordo un professore universitario che a lezione parlava per parabole. Era stimato dalla maggior parte dei miei colleghi di studio e veniva a sua volta citato: “Se non la vivi tu è la vita che vive te”.  Citare autori noti e frasi ad effetto dà prestigio a chi lo fa, ne guadagna sul piano della stima da parte del pubblico o almeno da un certo tipo di pubblico. Io non ero molto soddisfatto delle sue lezioni come non lo sono tutt’ora quando compro un saggio psicologico affascinato dalla quarta di copertina e mi ritrovo poi a leggere un elenco di frasi fatte. Purtroppo la retorica non viene utilizzata solo per descrivere il mestiere di psicologo ma, come ho avuto modo di appurare in questi anni di studio e professione, viene usata prepotentemente anche in sede di colloquio e terapia.

Non sono un fautore del linguaggio asettico e iperrealistico e lungi da me la volontà di eliminare ogni forma di simbolismo dal linguaggio dello psicologo, sarebbe un tentativo inutile oltreché impossibile. Resto però perplesso dal fatto che, per trovare uno studio sulla funzione persuasiva assolta da questo tipo di linguaggio, debba leggere autori non del mio settore. Come accennavo prima, in tanti hanno messo in luce la funzione poetica della metafora, in molti quella catartica, in pochissimi quella persuasiva. In pratica gli psicologi usano la retorica ma non ne parlano. Mi viene il dubbio che la questione sia voluta. Ti faccio un gioco di prestigio è ovvio che non ti dica il trucco. Ops, scusate! Ci sono cascato anch’io!

Un’altra impressione che ho è quella secondo cui più le tesi da sostenere sono deboli sul piano logico ed empirico e più si ricorre a questo tipo di linguaggio. Infatti le opere dove ritrovo un massiccio uso di retorica sono proprio quelle in cui gli argomenti propinati abbisognano di un certo grado di fede per poter essere accettati. Ritrovo inoltre questo tipo di linguaggio in quei libri che devono vendere di più o in quelle persone che hanno un forte bisogno di adulazione per sentirsi riconosciute ed importanti. Un po’ come quei pazienti con tratti narcisistici e/o con poca autostima. Solo che qui sto parlando dei terapeuti.

Vorrei concludere con una citazione anch’io, presa da un libro che lessi un bel po’ di tempo fa e che mi fornì gli spunti necessari per attivare questa riflessione: lì dove non arriva la scienza ci pensa la metafora. Parafrasando potrei affermare che in questo periodo di estrema attenzione alla “relazione”, dove non arriva la competenza ci pensa la “conoscenza”. Infatti credo che questo fenomeno sia un effetto distorto del cambio del paradigma in psicologia clinica, il passaggio da quello intrapsichico a quello relazionale. Non voglio spingermi oltre con le ipotesi, rischierei di fare solo congetture difficilmente verificabili. Spero solo di attivare una riflessione in chi questo mestiere lo svolge e in chi a noi “mestieranti” si rivolge.

P.S. Ovviamente anche il mio scritto assolve alla sua funzione persuasiva, l’importante però è che il lettore lo sappia e stia attento a non farsi infinocchiare da chi gli vuole vendere vetri spacciandoli per diamanti. 🙂

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