Una dichiarazione d’amore

di Claudio Merini

immagine Merini

Se ciò che io dico risuona in te, è semplicemente perché siamo entrambi rami di uno stesso albero.

(William Butler Yeats)

Guardo il muro di rampicanti che circonda il giardino, al di là del vetro della porta-finestra. Le piante con la loro apparente imperturbabilità sempre mi consolano e leniscono il disagio d’essere uomo. Da diversi anni costituiscono il paesaggio mio e del paziente sdraiato sul “lettino” davanti a me. Contribuiscono alla cura dell’anima – ne sono convinto. Mettono in contatto con la parte antica del cervello, abituata a muoversi nel mondo vegetale. Dunque è giusto che l’onorario venga parzialmente speso per la loro cura sotto forma di concimi, antiparassitari, attrezzi, così come posso dire di lavorare per il benessere del paziente – che d’ora in avanti chiamerò “interlocutore” o “interlocutore analitico” – anche quando occupo un po’ del mio tempo libero nel giardinaggio.

– Mi sembra di non aver niente da dire – dice l’interlocutore analitico dopo un silenzio di qualche minuto (siamo circa a metà seduta).

– Le sembra – suggerisco dopo una breve pausa.

– No, è che non ho proprio niente da dire.

– Allora quel “mi sembra” era forse una sorta di formula di cortesia? Non voleva farmi male?

Seguono alcuni secondi di silenzio.

– Ho sempre paura di urtare la sensibilità degli altri… così mi costringo a scegliere le parole.

Qui la mia anima duole e viene proiettata dall’ultima frase dell’interlocutore in orbite di sofferenza antica. Ripenso a quanto anch’io mi sono precocemente specializzato nel trattare coi guanti il prossimo. Che fesso! Quanta libertà andata irrimediabilmente perduta. Sì, io vengo da un mondo in cui il rispetto per gli altri era fondamentale e oggi mi trovo in un mondo in cui chi più è sgarbato e prepotente domina la scena. La gente per sentirsi protagonista alza la voce, insulta, parla sopra. Bisognerebbe recuperare il rispetto per il prossimo, senza perdere la libertà di esprimersi. Una mediazione non facile. Anch’io uso i guanti nel trattare i miei interlocutori analitici e forse questo, seduta dopo seduta, introduce nel mondo del rispetto quelli che ne sono stati precocemente esclusi… Mi viene un dubbio: non li introdurrà nel mondo della mancanza di libertà espressiva o li terrà rinchiusi se già vi risiedono?

– Lo faccio anche qui, dove potrei dire tutto quello che mi passa per la testa – dice l’uomo sul lettino richiamandomi a lui.

– Forse qualcuno intorno a lei era molto fragile e lei aveva paura di romperlo e così perderlo.

Mi sono autointerpretato, mi dico mordendomi la lingua, questa è roba mia. Sono io a essere cresciuto in una famiglia di cristalli. Ma è quasi sempre così: uno psicoterapeuta il più delle volte scorge nell’altro ciò che è suo. E questa poi è una regola universale, che vale per tutti, in tutti i contesti. Noi psicoterapeuti dovremmo esserne immuni e sono stati sprecati fiumi d’inchiostro sull’argomento. Inutilmente. Se siamo bravi nella maggior parte dei casi vediamo qualcosa che è contemporaneamente nostro e dell’interlocutore analitico.

– Mio padre… mi sembrava così forte… e invece…

Ecco, mi sa che è roba di tutti e due. Meglio così… Ma se lo dicesse per farmi piacere? Bisogna stare attenti alla compiacenza, s’infiltra ovunque, mascherata da verità… La verità… mi sono interrogato per un bel po’ di anni sulla verità, quando andavano di moda le cosiddette “narrative”, l’idea cioè che non esiste corrispondenza tra quello che viene ricostruito in analisi e una verità fattuale riferita alla vita della persona, alla sua storia. Come dire che quello che si fa in analisi consiste essenzialmente nel costruire una nuova prospettiva narrativa che di per sé produce un cambiamento. Io non ci ho mai creduto. Già le persone si inventano delle favole su se stesse per sfuggire a vissuti dolorosi o spiacevoli e mi sembra assurdo che in analisi non si faccia altro che costruire una nuova favola che funziona meglio. Così non ci sarebbe molta differenza tra il lavoro analitico e approcci tipo la PNL (Programmazione Neuro Linguistica) che hanno una natura manipolatoria. Le persone hanno un carattere ereditato geneticamente e strutture e dinamiche psichiche profondamente segnate dalle esperienze precoci. Ne sono convinto. Il compito dell’analisi, penso, è cercare di far luce su questi aspetti, naturalmente senza pretendere di raggiungere una verità assoluta, ma quella verità soggettiva che è più forte di qualsiasi realtà, quella verità che ciascuno si è costruito interpretando a suo modo pezzi di realtà.

– In casa tutti lo trattavano come se fosse a un livello superiore, un semidio. Era così distante e io avevo paura di lui.

Quest’uomo steso sul lettino sta guardando alla sua vita da una nuova prospettiva. Oramai è a un passo dal collegare le sue ansie al senso di inadeguatezza rispetto a un padre irraggiungibile nella sua altezza da semidio. Ora gli do un piccolo aiuto.

– Certo è difficile confrontarsi con una divinità olimpica.

Mi posso permettere questa espressione dato che è laureato in lettere.

– Mia madre lo metteva su un piedistallo… e poi ha cercato di metterci anche me… ma io cadevo dal piedistallo, magari solo perché in un compito di matematica non ero stato il migliore.

– Eh sì – dico con un lieve sospiro.

Mi piacciono le espressioni come “eh sì”. Confermano qualcosa che in quel momento è in entrambi.

È facile per me comprendere quest’uomo che viene da un mondo in cui il padre è una figura mitica. Ma ormai mi capita sempre più spesso di avere interlocutori per i quali il padre è uno che deve aiutare e soprattutto sganciare soldi. Il mondo si è rovesciato e chi fa il mio mestiere si trova a dover combattere con l’immaturità di chi è cresciuto senza limiti adeguati, piuttosto che aiutare chi di limiti ne ha avuti troppi. Che destino è toccato a un animale come me, che tanto ha combattuto per tornare a essere selvatico!

– Capisce dottore, ho tentato di raggiungere un fantasma, qualcuno che non c’era… E tutto quanto mi sembrava terribilmente grande, fuori della mia portata.

– Si ricorda Pazzaglia in “Quelli della notte”: il livello è basso, diceva.

– Già, non sono io che sono basso – dice l’uomo sul lettino ridendo.

– Non se lo dimentichi quando dovrà tenere la prossima lezione all’università. Si faccia un nodo al fazzoletto.

Ride di nuovo. Io prendo il fazzoletto dalla tasca dei pantaloni e ci faccio un nodo: me lo devo ricordare anch’io, nonostante me lo sia detto milioni di volte. Per fortuna faccio psicoterapia diverse volte al giorno. Sono in cura presso me stesso e i miei interlocutori analitici da trentadue anni. Quanto tempo è passato da quando – poco più che ragazzo – ricevevo trepidante i miei primi interlocutori. Mi sentivo sulle spalle una responsabilità immane, dato che non avevo ancora capito che non conto poi tanto, cioè non avevo ancora liquidato la mia onnipotenza terapeutica. Ancora non sapevo che la maggior parte del lavoro lo fa il paziente, che è lui ad avere o non avere le risorse per crescere e uscire dalla crisi. Tu puoi facilitare il processo di crescita od ostacolarlo, ma non puoi creare ciò che non c’è. Sapere di contare come il fante a briscola è un enorme libertà (come il due di picche sarebbe troppo poco). Da questo punto di vista l’onnipotenza è davvero stupida. Eh sì, il giovane psicoterapeuta suda sette camicie, il paziente lo capisce e si adagia nel suo desiderio d’essere protetto e aiutato. Il “vecchio” aspetta che l’interlocutore analitico intuisca che non sarà un altro a cavarlo dal fosso se non usa le risorse in suo possesso. Il “vecchio” può permettersi questo atteggiamento se non ha emotivamente bisogno dell’interlocutore analitico – o meglio, se non ha troppo bisogno; altrimenti avrebbe già cambiato lavoro.

– Cosa sta pensando? – mi chiede all’improvviso l’interlocutore.

– Queste domande dovrei farle io.

– Ho avuto l’impressione che si fosse assentato.

– Lei è un sensitivo pericoloso: mi ero perso in una riflessione teorica, diciamo così.

– Grazie per la sincerità.

– Prego.

La sincerità non è sempre terapeutica, ma nella maggior parte dei casi fa sì che si stabilisca un rapporto profondo con l’interlocutore analitico.

– Nella precedente terapia non mi sono mai permesso di fare domande del genere.

– Come mai?

– Mi sembrava che non fosse permesso.

– E lei non lo ha mai detto?

– Cosa?

– Che le sembrava che non le fosse permesso fare domande sul terapeuta.

– Mi sembrava che non fosse permesso neanche questo.

Rido.

– Perché ride?

– Beh, adesso non esageri: non è che qua si può permettere tutto – dico in modo ironico.

Ride anche lui.

Non è il caso di dire che rido perché conosco il collega da cui andava precedentemente ed è proprio vero che dà l’impressione che con lui molte cose non siano permesse. È uno di quelli che parla da uno scranno piuttosto elevato. Più adatto per interlocutori che hanno bisogno di essere ridimensionati piuttosto che per interlocutori impegnati nella lotta per l’emancipazione.

– Le voglio bene, dottore.

– Mi vuole bene? – dico colto di sorpresa.

– Sì, come a un padre.

– Beh, grazie. È bello che sappia dirlo con questa naturalezza.

Anch’io – penso – gli voglio bene. Non come a un figlio (è quasi mio coetaneo), non come a un amante (sia a me che a lui piacciono le donne), non come a un amico (non gli confido le mie cose). Gli voglio bene come a un interlocutore analitico. Cioè?

– So che lei non mi può dire se mi vuole bene o no. Non si preoccupi.

– È una faccenda delicata in effetti. Penso che sia importante soprattutto quello che lei immagina. Immagina che io le voglia bene?

– Sì – dice dopo un breve silenzio carico di emozione.

– Non si sbaglia.

Ecco, mi sono dichiarato. Mi piaceva troppo quel “non si sbaglia” per non dirlo. Un’espressione che riflette un delicato equilibrio tra astinenza e sincerità.

Lui ora tace visibilmente commosso e io pure mi sono commosso. È indubbio che tra di noi ci sia una forma di amore. Un amore empatico? Comprendere e rispettare lo stato d’animo di un altro – penso – è forse la forma più alta di amore. Il desiderio di possedere l’altro la più bassa.

– Mio padre non me l’ha mai detto – dice con la voce rotta dall’emozione e il suo rimpianto mi entra dentro come una lama. Sento il calore salirmi in viso.

– Non è capace di dirlo. Non sa esprimere le emozioni. A volte ho pensato che per lui, scusi la volgarità, è roba da froci. Lui con me fa solo discorsi da uomo a uomo.

– Ma secondo lei suo padre le vuole bene?

Silenzio.

– A suo modo sì – dice sottovoce.

– E lei gliene vuole?

Silenzio. Prende dalla tasca il fazzoletto e si asciuga le lacrime.

– Sì, accidenti, anche se a volte è proprio stronzo – dice con voce rotta.

Emetto un suono basso, una specie di breve muggito, che intende significare “capisco”.

– Si offende, dottore, se le dico una cosa?

– Non lo so. La dica, poi vediamo.

– Anche di lei una volta ho pensato che era un po’ stronzo.

– Solo una?

– Credo di sì.

– E quando?

– Quando mi ha fatto pagare la prima seduta che ho saltato. Ero a una riunione. Non potevo proprio andarmene. Ho pensato che era una persona rigida e poco comprensiva.

Chissà magari lo sono davvero, mi dico. Anche se so benissimo che certe regole sono indispensabili: sono il nostro limite e la nostra forza. Sono la cornice entro cui giocare, la nostra scacchiera. Ecco, ora sposto la torre.

– Lo pensa ancora?

– Col tempo ho capito che è servito a contrastare la mia tendenza a fuggire dalla psicoterapia.

È bravo, troppo bravo. Non mi fido. Ora glielo dico.

– Sta facendo “il bravo paziente”?

Silenzio.

– Lo penso davvero, ma non mi fido troppo di me. Lo so che far contenti gli altri è una mia specialità – come la chiama lei.

Questo interlocutore è sensibile e complesso. È un piacere stare con lui. Proprio come con qualcuno a cui si vuole bene. Devo stare attento a questo piacere. Ma se non ci si lasciasse illudere, si capirebbe poi davvero poco di sé e dell’altro. È proprio l’analisi delle illusioni del terapeuta – del controtransfert, si direbbe in termini canonici – ad aprire qualche spiraglio sul mistero che l’altro si porta dentro.

Il mio interlocutore si alza dal lettino. Lo fa da solo, senza che io debba pronunciare la formula di rito che chiude la seduta. È proprio bravo: mi solleva anche da questo compito.

– Ci vediamo giovedì prossimo.

– Va bene.

– Buona settimana.

– Anche a lei.

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