di Roberto Filippini
Chissà perché alla parola “autorità” viene fatto spontaneamente di pensare, nel bene e nel male, a condizionamento, coartazione, spegnimento, oppure, in termini sistemici, ai vincoli di un sistema, che sono limite e insieme condizione delle possibili emergenze.
E chissà perché invece il concetto di autorità solo raramente sia associato a ciò che è stimolante, vivificante, o addirittura elettrizzante.
Eppure, esperienze millenarie raccontano proprio questo. E lo raccontano in molti modi diversi, anche se, di nuovo, nel bene e nel male, come si conviene alle cose umane.
Dagli innumerevoli racconti Zen in cui gli allevi andavano cercando nientemeno che l’Illuminazione dai loro maestri, alle Accademie platoniche in cui saperi esoterici presupponevano una doppia reciproca elezione: dell’allievo verso il maestro, del maestro verso l’allievo. Dai predicatori che trascinavano le folle, alle folle che costituivano e innalzavano i predicatori per farsi trascinare. Su su fino ai giorni nostri, quando ai milioni che affollano Piazza S. Pietro per testimoniare la loro presenza al Papa, ma anche per ricevere un estremo impulso di vita dal Papa morto, fanno riscontro le folle che in un’eccitata ebbrezza di morte attorniano i Bin Laden, passando per gli Hitler e gli Stalin.
Nei nostri studi professionali, sperimentiamo ogni giorno, se solo ci prendiamo la briga di osservarlo, come “autorità” non sia la proprietà di un singolo, ma esprima invece una relazione. Sappiamo per esperienza come nella nostra presenza, che resta più o meno la stessa nella stessa giornata, la nostra figura venga rifiutata da alcuni in quanto sperimentata da essi come autorità oppure da altri sia investita di autorità che non sentiamo di possedere. Sappiamo come, semplicemente restando noi stessi, possiamo avere una funzione vivificante, quasi sempre immeritata, oppure una funzione mortificante, che non sentiamo ci appartenga, a seconda dei modi peculiari in cui l’interiorità di chi ci parla si unisce alla nostra.
1 – Le parole per dirlo
Ci sono molti modi per tentare una spiegazione, per dire cosa succede, anche se vogliamo limitarci al campo psicologico. E ognuno dei modi corrisponde a una prospettiva diversa nella quale ci mettiamo per osservare i fenomeni.
– Possiamo partire addirittura dall’etologia. Studiando il comportamento degli animali, Lorenz (1963) ci informa che l’istinto, piuttosto che uno schema di azione già dato, è da considerare una disposizione ad agire, anzi una possibilità di diverse disposizioni a combinarsi fra loro in un certo modo: esso deve prendere forma, dimensione, realtà attraverso un apprendimento. Persino le modalità in cui si può esprimere una struttura biologica necessitano di modelli, riferimento, guida: cioè di autorità (chi non ha mai visto una mamma gatta con i micini appena usciti dal cesto, intenta a mostrare ancora e ancora modi e azioni, e poi a controllarne l’esecuzione – a “spiegare” e a “interrogare”?).
– Nella psicologia dinamica numerose prospettive di osservazione ripropongono il concetto che l’istinto necessita di incarnarsi in una forma umana per poter essere appreso. Gli psicologi delle relazioni oggettuali parlano di sviluppo della personalità in termini di interiorizzazione di chi vive intorno a noi. Jung pensa invece che ciò che si muove dentro debba potersi incarnare nelle figure di riferimento, per trovare rappresentazione e attraverso questa espressione, forma dimensione: perché possiamo vivere in modi umani ciò che ci costituisce, e non esserne posseduti. Sono davvero punti di vista così diversi e inconciliabili? Probabilmente la nostra attività mentale consiste nell’incontro di quello che si protende dall’intimo e da ciò che preme nel mondo intorno a noi. Ciò che si agita nelle profondità di noi stessi minaccia di travolgerci e possederci dall’interno come demoni o idealizzazioni di tipo arcaico e totalizzante, e dall’esterno come destino, se non assume forme, immagini e incarnazioni umane. Jung (1947/1954) rinvia a una duplicità di senso nelle figure di riferimento: gli istinti come schemi di azione (di nuovo: disposizioni ad agire) che devono essere appresi da modelli umani e in volti umani incarnarsi, e il significato – la spiritualità – che ha bisogno di prendere forma e ispirazione per poter rendere pregnante la nostra esistenza. In questo senso, in quanto relazione che dà forma al nostro essere, autorità è la madre, il padre, il maestro, ma anche l’amico con cui ci confidiamo e a cui affidiamo ciò che stiamo per diventare, e inoltre la donna amata, e anche il quadro concettuale, affettivo e spirituale entro il quale ci muoviamo e attraverso il quale le nostre esperienze acquistano senso, dimensione e consistenza.
– Fra i teorici dei sistemi complessi, Varela (1986) a partire dalla neurofisiologia e Prigogine e Stengers (1979) a partire dalla fisica e dalla chimica, descrivono rispettivamente l’innesco dei processi di apprendimento e di quelli di complessificazione nel quadro dell’evoluzione dell’auto-organizzazione dei sistemi. In tali processi è fondamentale la corrispondenza fra una fluttuazione all’interno di un sistema e qualcosa che nella realtà esterna fluttua sulla stessa vibrazione, in risonanza. Solo così ciò che si abbozza all’interno come alterazione di un sistema può (ri)conoscere e selezionare ciò che si muove fuori, ricavandone energia per le proprie trasformazioni. In tal modo, una fluttuazione, destinata ad ingrandirsi e a riorganizzare il sistema, a rinnovarlo, può riconoscersi in ciò che le somiglia, che le è congeniale, selezionandolo dall’immensa quantità di accadimenti e presenze esterne e nutrirsi di quell’energia che asseconda moti interni, e stabilizzarla in elementi strutturali endogeni. Noi selezioniamo gli aspetti dell’autorità che abbiamo a disposizione, non meno degli alimenti in un mondo di oggetti non commestibili. Abbozzi di forme interiori e ciò che loro corrisponde da fuori sono dunque emergenza e vincolo gli uni per gli altri a seconda della prospettiva di osservazione.
– In termini di formazione della personalità, Winnicott (1966, p.124) parla di contenimento, che è “la base di quello che gradualmente diventa un essere che fa esperienza di sé”, e del modo in cui un cucciolo di uomo incorpora l’ambiente e le cure che riceve nella sua stessa organizzazione psicofisica (Winnicott D.W., 1960a). Un vero Sé, centrato su un’unione psicofisica, cioè fondato sulle proprie sensazioni di esistere e i propri bisogni, e che non consiste in modo reattivo o compiacente sulle dinamiche ambientali, viene sostenuto da un ambiente umano sufficientemente buono, che è in grado di soddisfare sia i bisogni pulsionali (cioè a derivazione biologica) sia di rispecchiare i bisogni dell’Io.
– Winnicott (1960b, p. 179) riprende la distinzione di Freud (1914) fra bisogni dell’Io e bisogni istintuali (non a caso stabilita dal maestro viennese nel saggio di Introduzione al narcisismo, quello in cui egli introduceva il concetto di Ideale dell’Io, strutturalmente connesso a quello di innamoramento), elaborandola in senso evolutivo e strutturale. Osserviamo, ad esempio, un gruppo di bambini all’asilo in una stanza con dolci, bibite e giocattoli a volontà, lasciati completamente liberi. Viene fatto di pensare che si divertiranno, perché tutti i loro bisogni istintuali sono soddisfatti. Invece, dopo un prima esplosione di chiasso e di movimenti frenetici, li ritroveremo irritati e annoiati. Perché? Perché sono stati rispettati tutti i bisogni istintuali, ma non quelli dell’Io. Possiamo pensare i bisogni dell’Io come una continuazione del contenimento. L’Io ha bisogno di avere confini (cioè di percepirli), di essere visto, di essere considerato, di essere sostenuto, indirizzato, guidato, di avere punti di riferimento, di essere istruito su “che cosa fare”, “perché fare”, “che senso ha fare”. L’Io è una struttura complessa, ha bisogno di capire, di gestire, di dare un nome, un senso, un’organizzazione, una forma sia al mondo esterno, a ciò che accade fuori, sia al mondo interno, a ciò che accade dentro. Accanto al piacere mentre un istinto viene soddisfatto, Winnicott descrive l’euforia che si prova nel sentire di padroneggiare e di gestire le cose intorno e soprattutto se stessi. Libertà è esprimere i propri istinti, ma anche non esserne posseduti. Ciò vale per i cosiddetti istinti, ma anche per le emozioni, gli affetti, i pensieri, insomma per le sensazioni del proprio esistere. Ricordo il titolo di un bellissimo libro – più che di educazione sessuale, trattava di “gestione” della sessualità – che con pragmatismo tutto anglosassone era intitolato “Ora che mi hai portata qui, che cosa hai in mente di fare?”.
A noi umani viene evidentemente più spontaneo pensare una sola cosa per volta, ed ogni zeitgeist ha il suo modo per mortificare la complessità del nostro stesso esistere. Ci sono lunghe epoche in cui la formazione avviene come se non ci fossero bisogni istintuali – “sessualità? Una brava ragazza non deve nemmeno immaginare che esista!”. Invece, in altre epoche, come nella nostra, in una sorta di mitologia collettiva del “buon selvaggio”, un tantino naif e tanto tanto “politically correct”, ci si immagina che non ci siano bisogni dell’Io, a cominciare da quelli di avere un’autorità con cui confrontarsi e identificarsi e che faccia da riferimento. Corrispondentemente esistono modi diversi di tradire la funzione dell’autorità. L’autorità può essere confusa con un narcisistico egocentrismo che vuole dominare, accentrare su di sé ogni controllo e ogni importanza, oppure con una sorta di masochistica parodia di un altruismo che tutto dà, tutto tollera e tutto perdona: due modi per sentirsi grandi, buoni e importanti a spese del cucciolo che ci è affidato.
Quando l’Io viene mortificato, offeso, schiacciato, si indebolisce la possibilità di autogestione degli impulsi e delle tensioni, che vengono scaricati più o meno direttamente all’esterno. Si rendono allora necessari una direzione e un contenimento dettati dall’esterno. E’ così che atteggiamenti autoritari si auto legittimano. Così si rendono gonfi di sé mentre umiliano e si mantengono poi indispensabili coloro – personalità e istituzioni rigide e fragili – che cercano il loro potere di accentrare e comparire perché non possono percepire e usare il loro potere fecondante: coloro che rinunciano cioè alla loro primogenitura per un piatto di lenticchie. Purtroppo non è proprio possibile amare gli altri – e soprattutto chi ci è affidato – se non come si ama se stessi.
– In termini delle vicende narcisistiche – quelle che vanno a costituire l’ordito stesso della nostra personalità – dove il bisogno di relazione viene messo a fuoco, gli psicologi del Sé scoprono l’esperienza che fa acquistare consistenza alla personalità, cioè le ineffabili sensazioni che proviamo quando qualcuno che incarna l’Ideale del Sé va a rispecchiare il Sé Ideale. Quando qualcuno che incarna ciò che spasmodicamente vorremmo essere riconosce, preferisce e ama il nostro orgoglio e i modi della nostra spinta a esistere.
Ognuno di noi è stato bambino. E in una certa misura, rispetto alle profondità dei processi vitali e alla complessità del reale attorno, lo siamo inevitabilmente tutti. Specialmente quando nella vita ci confrontiamo con qualcosa di nuovo. Intorno capitano accadimenti, senza particolare apparente ordine e organizzazione. Perché essi possano diventare “eventi” – acquistare significato; posto nella memoria; senso ordinatore di sé e del mondo – devono entrare in un tessuto di correlazioni. Ma perché ciò avvenga c’è bisogno di una scintilla, di un innesco, di un centro di riferimento come il granello di sabbia per il crearsi del corpo della perla: uno sguardo che li guardi assieme al bambino… che veda il bambino e le sue reazioni mentre li vede… e ne colga assieme a lui il senso (ne colga il senso che essi hanno per lui)… una voce che nomini tutto questo… un progetto in cui quegli sguardi e quelle emozioni e quelle parole siano contenuti e li renda comprensibili. Tutto questo fornisce una certa prospettiva, un certo orientamento, un significato attraverso il quale vedere. La storia del Brutto Anatroccolo è una ricerca dell’immagine di sé: i cigni che nel finale si offrono allo sguardo dell’anatroccolo non fanno nulla, se non guardarlo e farsi guardare. Solo così egli ha potuto guardarsi. Specchiarsi senza cadere nell’immagine, come invece capitò a Narciso cui toccò di guardarsi in solitudine.
– Quello che detto in termini tecnici pare uno scioglilingua – il gioco di Sé Ideale e Ideale del Sé (Lopez D., Zorzi L., 1990) – riguarda la sensazione di appartenenza rassicurante a ciò che ci fa da modello, che incarna i nostri sogni e insieme la sensazione del nostro orgoglio di far da sé e il fremito della nostra ambizione come qualcosa di accettabile (perché accettati, anzi, amati). D’altra parte la formazione di un Super-Io – cioè l’interiorizzazione di una coscienza morale – non è proprio possibile se il processo non si impianta su un saldo e caldo Ideale del Sé, a sua volta segmentazione – concessione – del narcisismo primario, di cui il Sé Ideale appare erede e continuatore. Con le sue proibizioni, il Super-Io limita il Sé Ideale, ma contemporaneamente lo tutela, non esponendo il sentimento di sé a compiti e prestazioni da cui – impreparato – uscirebbe a pezzi. Tanto più il narcisismo è immaturo, tanto più severe e coerenti devono essere le proibizioni. Se, per citare un esempio classico, un bambino dovesse occuparsi dei bisogni della madre – cosa cui peraltro, come ci ha mostrato Freud, anela – con i suoi mezzi immaturi, ne uscirebbe prima di tutto narcisisticamente sia oppresso che distrutto. Ad ogni età, sicurezza in se stessi significa ricognizione dei propri limiti, non meno che dei propri mezzi. E il sentimento della responsabilità consiste nel poter porre, esporre, anche imporre entrambi, sia i limiti che le capacità.
2 – Luci e ombre, dentro e fuori la caverna
Questi sono solo alcuni degli innumerevoli paradossi che fra incudine e martello forgiano il nostro esserci. E diventano comprensibili se abbandoniamo il modello aristotelico di contrapposizione (A ≠ B) e assumiamo quello complesso descritto da Ceruti (1986) (A ≠ processo che forma A).
Per contenere queste contraddizioni, per essere cioè autorità durante i momenti della crescita e delle crisi, occorre avere già saldato (coniugato) in qualche modo dentro di sé la propria ambizione e la propria dedizione.
Affidare l’esistenza nelle mani del suo proprietario legittimo, via via che queste mani si fanno più salde ed esperte, anche questo è gestione dell’autorità. Come pure mettere l’altro di fronte alla realtà, cioè, in pratica, ai suoi limiti non meno che alle sue effettive forze. Confondere la dedizione con la sottomissione, pensare cioè la dipendenza e l’autonomia come due opposti, e non come diverse accentuazioni di uno stesso processo in formazione, rivela la persistenza di una mentalità adolescenziale, sia in chi incarna l’autorità sia in chi se ne nutre.
Siccome la realtà non si manifesta, se non nella particolare incarnazione che essa assume in ognuno di noi, essere autorità significa presentarsi, manifestarsi a propria volta nei propri limiti e nelle proprie capacità. Per qualcuno è più difficile assumere la responsabilità dei propri limiti, mentre altri hanno più pudore nell’ergersi nelle proprie forze agli sguardi altrui. Non è facile avere autorità. Bisogna sentirsi autorità. E nessuno di noi può in buona fede affermare una tale completezza. Per fortuna ci vengono incontro figli e allievi: con le loro proiezioni e il loro bisogno, con la loro benevola eccitazione e con la loro rabbia riempiono le nostre inevitabili lacune e configurano in noi un’autorità, se solo noi glielo lo permettiamo. Noi umani siamo ombre che vagano nel mare, che per vedere luce e con essa certezza di se stessi hanno bisogno di altre ombre che vagano nel mare. E’ questo, mi pare, che non ha compreso Platone nella caverna del suo mito (ma è a sua volta forse proprio per quest’incomprensione, per quest’ombra interiore che lo porta ad assumersi l’onere impossibile di effettivo portatore di effettiva luce totale, che Platone è stato guida e autorità per gli innumerevoli che l’hanno amato).
Ma resta il fatto che per aprire gli occhi ad un figlio o ad un allievo, occorre essere visti. E che non ci si può concedere di essere visti se non nella misura in cui ci si può a propria volta vedere nel proprio specchio interiore. Alcuni autori dicono che negli antichi testi sapienziali cinesi esistesse un’unica espressione per i verbi nella loro forma attiva, passiva e riflessiva. Vedere, ad esempio, ed essere visto e vedersi sono forse increspature nell’alveo di un unico processo vitale.
Parlando di autorità, cioè di relazione che forma, entriamo in un vero e proprio gioco di specchi.
Da tutto questo si evince che nessuno può portare un altro oltre il punto in cui egli stesso è arrivato. E’ un gioco in cui non si può barare. Non si può barare perché è l’intimo di noi stessi la nostra autorità – ed è il nostro intimo che è destinato a nutrire e fecondare l’intimo dell’altro. Non ci sono metodi o tecniche astute. Le parole stesse servono, ma a smorzare gli effetti della relazione reale. Le parole non formano, se non in quanto servono ad attenuare, a definire. E a chiedere scusa per i propri limiti e sbagli – in modo da evidenziarli e umanizzarli – perché l’altro finalmente li relativizzi e se ne liberi.
3 – Avvertenze e modalità d’uso
Come si vede, sto elaborando in questi anni un’articolazione fra prospettive post freudiane e junghiane, e soprattutto fra dinamiche pulsionali e narcisistiche, utilizzando la griglia di riferimento dei sistemi complessi. Ad esempio, tendo a percepire in una sorta di reciproca complementarietà quello che le nozioni di rispecchiamento e di idealizzazione di Kohut propongono per le esperienze narcisistiche e quello che la nozione di Winnicott di contenimento propone anche per le esperienze affettive, formative e pulsionali.
Per concludere, un’avvertenza. E’ quasi fatuo parlare di autorità senza far riferimento al mondo dei valori etici e al problema della responsabilità, cioè ai fili che ne ordiscono il tessuto. Questo articolo è dunque da considerare parte integrante del precedente sull’etica, apparso su questa stessa Rivista, e di un prossimo in elaborazione sul sentimento della responsabilità.
BIBLIOGRAFIA
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