di Francesco Giordani
L’autismo è un disturbo dello sviluppo che intacca numerose aree di funzionamento dell’individuo, quali le capacità comunicative, le relazioni sociali e la sfera emotiva. Il Manuale Diagnostico Psicodinamico (PDM-2) indica e descrive differenti livelli all’interno dello spettro autistico; la gravità del disturbo, infatti, è definita dall’impatto che la patologia ha sul pensiero. A un estremo della gravità del disturbo possiamo identificare bambini che mostrano alti livelli di dipendenza, scarse capacità di attenzione e di interazione reciproca in quanto sembrano vivere all’interno di un mondo proprio. L’espressione affettiva di questi bambini solitamente è piatta e appaiono poco responsivi nei confronti dei tentativi del proprio caregiver di coinvolgerli. La tipologia del legame diadico madre-bambino all’interno della patologia dello spettro autistico è caratterizzata, infatti, da una peculiare difficoltà nelle relazioni interpersonali a carattere emotivo.
Contributi recenti mostrano, però, come la condizione autistica non necessariamente comprometta il legame di attaccamento madre-bambino (Van IJzendoorn e Van Berckelaer-Onnes, 2004). L’attaccamento è un sistema di comportamenti presente fin dalla nascita, con la fondamentale finalità adattativa di protezione del bambino dal pericolo (J. Bowlby, 1969). Il comportamento di attaccamento si attiva nel momento in cui il bambino sperimenta una situazione di stress o minaccia e la funzione genitoriale di base sicura permette al bambino di ritrovare una regolazione emotiva per sperimentarsi nell’ambiente. È stato dimostrato che anche i bambini con autismo si mostrano capaci di possedere un comportamento preferenziale di prossimità, ricerca e riunione con la propria madre anche dopo la separazione (Buitelaar, 1995; Yirmiya e Sigman, 2001). Gli studi condotti sull’attaccamento nella sindrome dello spettro autistico indicano non solo una capacità dei bambini autistici di formare relazioni di attaccamento, ma anche di poter costituire una relazione sicura con il proprio caregiver (N. Koren-Karie et al., 2015; L. Seskin et al., 2010; B. M. Keenan et al., 2016; A. Rozga, 2018).
Il lavoro che svolgo attraverso una terapia rivolta a soggetti con disturbo dello spettro autistico, rappresenta un tentativo di favorire le potenzialità relazionali e la vitalità del bambino autistico. La terapia, attraverso un’integrazione di differenti prospettive psicologiche e una supervisione sistematica, si pone come obiettivo il miglioramento degli aspetti emotivi, cognitivi e relazionali dei soggetti affetti da autismo e utilizza l’acqua come elemento naturale che ricopre il ruolo di attivatore relazionale ed emozionale all’interno del setting strutturato in piscina.
Quando il bambino entra in acqua ho potuto osservare lo sviluppo di un “aggrappamento” legato alle emozioni di paura ed euforia, paragonabile all’aggrappamento primario identificato da M. Balint (1991). L’iniziale ricerca del mio sguardo e del contenimento che osservo nel bambino nasce dall’elevata attivazione emotiva legata all’ingresso in un ambiente ricco di stimoli come l’acqua.
Il susseguirsi e il ripetersi di queste delicate interazioni sono fondamentali per il passaggio progressivo dal semplice aggrappamento a una modalità di attaccamento (J. Bowlby, 1969). Tale graduale processo è determinato dalla qualità dell’interazione e dalla capacità a contenere la variabile coloritura emotiva sperimentata dal bambino. Il contenimento emotivo, con il tempo, permette al bambino di vedermi come una base sicura e dà la possibilità alla relazione di acquisire una nuova evoluzione. Il bambino, sulla base dei modelli d’attaccamento che sperimenta, ha così la possibilità di costruire dei “Modelli Operativi Interni”. Questi modelli di aspettative rispetto al Sé in un contesto relazionale sono uno strumento di previsione della realtà, di pianificazione e azione. Offrire al bambino la possibilità di sperimentare la formazione di un attaccamento sicuro all’interno della relazione può dunque permettere la conseguente formazione di un modello operativo interno che si strutturi attraverso un contenitore affidabile e responsivo. In ogni approccio terapico, quindi, è di vitale importanza la sfera relazionale e lo sviluppo da parte del bambino di un attaccamento sicuro che si traduca in un’esplorazione curiosa dell’ambiente e in una equilibrata ricerca dell’altro nei momenti di stress.
Riporto, a seguito di quanto esposto, la mia esperienza nell’incontro con D.:
Nel primo incontro il piccolo D. ha tre anni di età e gli è stato diagnosticato da qualche mese un disturbo dello spettro autistico. Ha grandi occhi scuri e uno sguardo che vaga nella grande mole di sensazioni che provengono dall’ambiente esterno; si muove goffamente in un ambiente che lo attrae in modo così dirompente da distrarlo allo stesso tempo. Il suo sguardo vispo pare contemporaneamente presente alla realtà delle cose, ma assente all’appello dell’altro. Mi avvicino frapponendomi fra lui e l’acqua, ma una momentanea paura lo pervade e ciò immediatamente lo spinge a voltarsi e raggiungere, con quella stessa goffaggine, la propria madre. Si congiunge a lei quasi ricercando un corpo che dia “corpo” a quel vissuto emotivo e resta lì, con gli occhi serrati pronti ad annullare ogni differenziazione che gli impongono i sensi. La madre con tono imbarazzato e deciso lascia che i piedi del suo bambino tocchino di nuovo terra e ritrovino una certa stabilità. Questo approccio materno non ha l’effetto sperato e si tramuta nel bambino in un pianto disperato; questo schema si ripete finché non utilizzo alcuni giochi per catturare l’attenzione del piccolo D. verso l’ambiente acquatico che, invece, sembra attrarlo particolarmente e che ne calma l’impeto nato dal distacco improvviso dal proprio caregiver. Resta perciò seduto, a un metro dal bordo vasca, poggiando su una piccola pozza d’acqua le proprie mani come una “ventosa” e ciò sembra produrgli una piacevole sensazione. Egli ora è calmo e sembra che quel pianto inconsolabile di separazione sia un ricordo ormai molto lontano nel tempo; eppure le sue mani, eliminando l’aria fra le sue dita e il pavimento, diventano adesive con la superficie stessa. La similitudine tra il palmo e la ventosa si confà alla trama che sento riprodursi come la pellicola di un film; quella sensazione insopportabile di separazione e la bramata fusione nella relazione, sembra ora trovare il proprio sviluppo nella sensazione di adesività che l’acqua gli permette di percepire. La madre ora è sullo sfondo e il bambino continua a rifuggire anche da ogni mio tentativo di interazione. Il suo sguardo è concentrato sui palmi delle mani che, con sistematicità gradualmente sempre più stereotipata, si staccano e riattaccano al pavimento schizzando gocce d’acqua sul suo viso assorto. Io con eccessiva decisione, dettata dal senso di esclusione che percepisco controtransferalmente, interrompo quel “rituale” nel tentativo di incontrare le sue mani e il suo sguardo. Il piccolo D., con un temperamento con cui già riesce a imporre la propria volontà, si allontana gattonando e raggiunge il bordo vasca. Prontamente, intuendo il suo intento di entrare in acqua, entro in piscina e lo accolgo circondandomi di numerosi pupazzi e palline colorate. D. sorride mentre tocca l’acqua, è ho l’impressione che sia catturato dai riflessi di luce e dai colori degli oggetti che ha attorno a sé. Egli, con lo sguardo immerso nell’acqua ancor prima del suo corpo, poggia le sue mani sulla mia testa e sulle mie spalle e la mia frustrazione cresce in quanto mi sento uno “strumento inanimato” utilizzato esclusivamente per raggiungere un obiettivo molto diverso dal mio proposito di entrare in relazione con lui. Ora D. è quasi completamente in acqua, con una mano aggrappata alla mia spalla e con i piedi sulle mie ginocchia, trova un equilibrio che gli permette di esplorare in sicurezza ciò che lo circonda. Percepisco il suo stato emotivo completamente dissociato e controtransferalmente, invece, sperimento una rabbia che obnubila un pensiero che solo in seguito ho potuto organizzare. Trovo conforto negli strumenti che possiedo e pian piano lascio che D., che ora indossa supporti per il galleggiamento, possa in piena autonomia muoversi nell’ambiente acquatico. In quell’istante qualcosa cambia, il suo sguardo, che prima mi appariva appannato e restio a ogni tipo di focalizzazione, acquista un’altra coloritura emotiva. Egli tenta freneticamente di colmare lo spazio che il suo slancio ha creato fra me e lui e, per la prima volta, i suoi occhi intimoriti incontrano il mio sguardo che prontamente può tramutarsi, anche fisicamente, in un accoglimento della sua richiesta di contenimento.
Oggi D. ha cinque anni e quell’angoscia di separazione nei suoi occhi, gradualmente, si è trasformata in entusiasmo a seguito di numerose piccole conquiste all’interno della relazione. La mia presenza che inizialmente si riduceva a un bisogno istintivo di aggrapparsi a qualcosa, ora si avvia verso una rappresentazione diversa: verso un desiderio di essere contenuti da qualcuno.
Avere la possibilità di aiutare e di entrare in contatto con la “diversità” credo sia la cosa più difficile, ma anche la più gratificante. Qualunque individuo si abbia modo di incontrare, a livello emotivo, rappresenta appunto l’Altro, ossia qualcosa di diverso da noi. Questa forte distinzione fra l’io e l’altro, espressa anche con una nota di timore, è stata sfatata dalla stessa psicoanalisi nel momento in cui Freud ha mostrato come l’Io stesso non fosse unico. È possibile, infatti, scoprire gradualmente come l’altro possa coincidere con le proiezioni dell’Io o come direbbe il poeta Arthur Rimbaud: «L’Io è un altro» (Rimbaud, 1971). Con ciò intendo che nell’esplorare l’alterità si possa scoprire la propria stessa identità; attraverso il conoscere e riconoscere l’altro si abbia la possibilità di iniziare a conoscere e riconoscere se stessi. La necessità di avvicinarsi al bisogno altrui conduce al confronto con il bisogno stesso che abbiamo dell’altro. Entrare, perciò, in contatto con le emozioni altrui richiede in principio un contatto diretto con le proprie emozioni senza che queste rappresentino un ostacolo, bensì sfruttandole come un “trampolino” di lancio verso qualcosa di più ampio.
Lo psicoanalista Stefano Bolognini ha paragonato lo spazio d’analisi a una “piscina analitica” (Bolognini, 2005) che può permettere al paziente di immergersi nelle proprie parti del Sé. Il terapeuta, invece, è paragonato a un istruttore di nuoto, il quale deve valutare se scendere in acqua oppure restare a bordo vasca, così come l’analista deve valutare il proprio livello d’intervento con il paziente. Lo psicoanalista bolognese sottolinea come sia necessario che l’istruttore di nuoto debba essere in primo luogo una figura esperta in acqua e, in secondo luogo, essere poi capace, anche fuori dall’ambiente acquatico, di guidare e riconoscere il grado di aiuto necessario al nuotatore. Allo stesso modo, lo psicoterapeuta deve essere un esperto della tecnica necessaria per fronteggiare le profondità sub-consce della mente, così da poter essere un punto di riferimento per il paziente. L’incontro in acqua con il bambino può rappresentare un’introduzione, un trampolino di lancio, verso quella piscina analitica in gran parte ancora tutta da esplorare. È importante perciò anche con il soggetto autistico mantenere uno sguardo curioso verso l’evoluzione delle tecniche psicoanalitiche necessarie a guidare il paziente fuori e dentro tale piscina analitica.
Fonti bibliografiche
Libri:
– Bion W.R. (1997), Esperienze nei gruppi e altri saggi. Roma: Armando Editore.
– Bion, W.R. (1962), Apprendere dall’esperienza. Roma: Armando Roma
– Bowlby, J. (1972). Attaccamento e perdita: Vol. 1: L’attaccamento alla madre. Torino: Bollati Boringhieri.
– Ferro A., Meregnani A. (1993), Criteri di analizzabilità e assetto mentale.
– Fonagy P. (2002), Psicoanalisi e teoria dell’attaccamento. Milano: Cortina
– Gabbard G.O. (2011), Introduzione alla psicoterapia psicodinamica. Milano: Cortina.
– Grandin T., Panek R. (2014), Il cervello autistico. Milano: Adelphi.
– Landoni G., Jaffe’ R. (2006), L’ assetto mentale dello psicoanalista nella consultazione. Milano: Cortina.
– PDM Task Force (2018), Manuale diagnostico psicodinamico PDM-2. Milano: Cortina.
– Tustin F. (1997), Per una teoria psicoanalitica dell’autismo. Roma: Armando.
Articoli:
– Bolognini S. (2005). Proposta per una rassegna alternativa dei fattori terapeutici. In margine a “Ripensare l’azione terapeutica” di G.O. Gabbard e D.Westen. Gli Argonauti, 104, 51-68.
– Keenan M.B, Newman L.K., Gray K.M., Rinehart N.J. (2017), A qualitative study of attachment relationships in ASD during middle childhood. Attachment & Human Development, Routledge Taylor & Francis, 19, 1-21.
– Oppenheim D., Koren-Karie N., Dolev S., Yirmiya N. (2015), Stability and change in Resolution of diagnosis among parents of children with autism spectrum disorder: Child and parental contributions. Development and Psychopathology, Cambridge University Press, 27,1045–1057.
– Rozga A., Hesse E., Main M., Duschinsky R., Beckwith L., Sigman M. (2018), Attachment & Human Development, Routledge Taylor & Francis. 20, 160-180.
– Seskin L., Feliciano E., Tippy G., Yedloutschnig R., Sossin M, Yasik A. (2010), Attachment and Autism: parental attachment representations and relational behaviors in the Parent-Child dyad. Springer Science+Business Media,
38:949–960.