Lo spazio della relazione: dal reale al virtuale.

di Raffaella Antonucci

immagine Antonucci

 

Probabilmente nessuno  avrebbe potuto prevedere l’arrivo di una pandemia come quella che ha invaso il nostro mondo e le nostre vite nel giro di pochissimo tempo.

Una pandemia in cui il contatto con l’altro diventa pericoloso e potenzialmente letale. Bisogna stare a più di un metro di distanza dalle altre persone, indossare mascherine, stare a casa il più possibile per evitare di contagiare ed essere contagiati.

Ciascuno a proprio modo, e nella propria sfera professionale, ha dovuto trovare una strategia per fronteggiare questo pericolo esterno concreto, inaspettato e sconosciuto.

In verità, in molti casi, siamo ancora in fase di ‘comprensione’ su come sia meglio muoversi e i punti interrogativi sono molteplici, specie in quelle professioni in cui il lavoro si basa proprio sulla relazione con l’altro.

Nell’ambito della psicoterapia, e più specificatamente nella psicoanalisi, si stanno aprendo diverse questioni, ed una di queste è la necessità di continuare il lavoro spostando la relazione da uno spazio reale, come quello dello studio del terapeuta, ad uno spazio virtuale, con mezzi quali ad esempio telefono o skype.

Non è un fatto nuovo che attualmente la società sia intrisa di realtà virtuale, ma che cosa questa sia di preciso, e cosa possa comportare per la mente umana, è ancora oggetto di studi e dibattiti.

Con prudenza si può affermare che la realtà virtuale possegga delle caratteristiche peculiari, come ad esempio lo spazio virtuale.

All’interno del lavoro psicoanalitico, lo spazio in cui avviene l’incontro fra analista e paziente (inteso tanto come setting esterno che setting interno) è qualcosa di imprescindibile e inestricabile rispetto a tutto il processo analitico; non si può concepire un paziente e un analista senza uno spazio in cui si incontrano.

Cosa avviene, pertanto, quando questo spazio reale diventa qualcosa di poco sicuro per entrambi i membri della relazione analitica, e bisogna traslarlo su una dimensione virtuale?

Semplificando: è opportuno continuare la terapia con i pazienti telefonicamente o via skype quando parte del setting  (quello concreto) su cui si basano anni e anni di teoria psicoanalitica ci viene meno?

D’altro canto, come si può pensare di interrompere un percorso analitico, ‘abbandonando’ i pazienti a loro stessi, proprio nel momento in cui il mondo esterno diventa ‘concretamente’ fonte di terrori perturbanti?

Inoltre non bisogna sottovalutare la possibilità che anche la mente dell’analista possa ricevere in questa, come in altre circostanze peculiari di vita, degli ‘scossoni’ potenzialmente in grado di mettere a rischio la solidità del suo spazio mentale.

Non sarebbe straordinario immaginare, ad esempio, che un analista possa sentirsi spaventato dalla situazione in atto, preoccupato per se stesso e per gli altri, in un momento in cui è divenuto di primaria importanza cercare di tutelare la propria salute.

Guardando da questa prospettiva, un analista che riconosca con se stesso di essere spaventato dalla possibilità di essere contagiato e di essere esso stesso fonte di contagio per i propri pazienti, agirà saggiamente nel momento in cui deciderà di chiudere il suo studio fisico e proporre sedute telefoniche o in videochiamata. Ciò per evitare che possa trasferire inconsciamente sul paziente, già impegnato con le sue angosce, i propri turbamenti.

Se dunque bisogna tutelare il paziente dall’intrusione delle angosce dell’analista, e si deve evitare di farlo sentire abbandonato, sembra che la terapia online, pur con tutti i suoi punti oscuri e ancora in fase esplorativa, diventi in questo frangente il ‘male minore’

Ammesso che di male si tratti. Verrebbe da chiedersi, cosa ne avrebbe pensato Freud, se si fosse ritrovato all’epoca in una situazione analoga alla nostra. Si sarebbe arreso alle circostanze avverse, o avrebbe studiato un modo per praticare la psicoanalisi anche nel cyberspazio?

E che dire, poi, del suggerimento di Bion, di sostare nell’incertezza? Quale occasione migliore di questa per mettere alla prova un assunto così fondante l’assetto mentale dello psicoanalista?

Ci si potrebbe domandare, infine, se la crisi che stiamo vivendo attualmente non possa essere fonte di nuove scoperte e di nuove frontiere per la terapia psicoanalitica, inglobando ad esempio elementi di novità e ristrutturando il setting sulla base di esigenze concrete del mondo attuale.

 

 

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