Il difetto

di Claudio Merini

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Se non proviamo con tutte le forze a sentire ciò che sente un altro, come riusciremo a raccontare la sua storia?
(A pesca nelle pozze più profonde, Paolo Cognetti)

Il campanello suona quando mancano pochi minuti alle sedici. Un po’ più forte del solito e con qualche minuto di anticipo, pensa l’analista. Apre il portoncino e nel salutarla capisce subito che oggi Daniela è particolarmente turbata. I suoi passi verso lo studio sembrano incerti, l’equilibrio precario. Si stende sul lettino e prende dalla borsetta il fazzoletto.
– Sono stati giorni durissimi, dottore. Troppo duri… Non ce la faccio. L’unico momento di tregua è quando la sera mi rintano sotto le coperte e mi rannicchio…  Ho paura.
(Silenzio)
– Di cosa ha paura?
– Ho paura di non farcela. Non so stare sola. Ho paura di attaccarmi al primo che passa, di ricaderci un’altra volta. Come devo fare? Mi aiuti, dottore.
La donna piange e si soffia forte il naso. L’analista si sente sotto pressione e in conflitto: sa che è meglio darle una mano, ma non tanto da respingere la crisi emotiva. Cosa dire?
– Ora sta cercando di attaccarsi a me. Spero di non essere il primo che passa.
La donna ha un sussulto di riso che si confonde col pianto. Il terapeuta è abbastanza soddisfatto del proprio intervento, perché d’istinto ha restituito a Daniela quello che stava avvenendo nella relazione usando le sue parole (“attaccarsi” e “il primo che passa”).
– No, lei è importante per me, tanto che ho paura di diventare dipendente da lei. Anzi, mi sa che già lo sono.
L’analista è contento di essere importante per i suoi interlocutori analitici: dà un senso alla sua vita; contare nel cammino esistenziale di altri lo fa sentire almeno in parte realizzato – sebbene un suo maestro tanti anni prima gli avesse fatto notare che un terapeuta non dovrebbe avere questo tipo di tornaconto.
– Può essere una dipendenza che l’aiuterà a diventare indipendente.
– Sarebbe un miracolo: è tutta la vita che mi appendo a qualcuno.
La donna si soffia di nuovo il naso e resta in silenzio.
– Mi appendo a qualcuno… come una giacca in cui non c’è dentro nessuno – dice l’analista accorgendosi della rima involontaria.
– Senza un uomo che mi ama sono niente… È colpa mia se sono rimasta sola. Avrei dovuto adattarmi di più.
– E come mai non l’ha fatto?
– Stavo malissimo. Il mio ex marito è una persona attaccata alle cose materiali, insensibile al bello e senza un minimo di comprensione per gli altri. Non c’erano affinità. In realtà ero sola anche quando stavo con lui.
– Si sarebbe dovuta adattare a tutto questo?
– Molti lo fanno.
Silenzio. Daniela piange e si soffia il naso. L’analista pensa che anche lui non si è adattato. Ci aveva provato ed era stato molto male. Lui poi è recidivo, non può che stare dalla parte di chi ha il coraggio di cambiare. Gli viene in mente la canzone di Vasco Rossi “Vuoto a perdere”, quando dice “mentre vado a cercare qualche cosa di più, che alla fine poi ti tocca di pagare”. Sì, cercare qualcosa di più ha un costo non da poco – pensa un po’ mestamente – ma in fondo per certe persone è necessario, altrimenti si spengono. Un rumore secco rompe il silenzio che regna nella stanza.
– Mi cade sempre – dice la donna raccogliendo da terra il suo smartphone – Sembra che lo voglia rompere, così la smetto di guardare ogni due minuti se c’è qualche messaggio. È diventata un’ossessione.
L’analista riflette sul fatto che ormai è difficile essere indipendenti, dato che si è perennemente collegati ad altri attraverso la rete. Si ricorda dei lunghi pomeriggi invernali da bambino, quando non si poteva uscire per raggiungere gli amici e le uniche risorse erano i libri di Salgari e la breve tivù dei ragazzi con Zorro o Rin Tin Tin. Bisognava fare i conti con la solitudine, anche perché gli adulti di casa erano presi dalle loro faccende. E lui difatti è diventato un esperto di solitudine e cerca di aiutare altri a viverla senza drammi, anzi trovandovi il segreto della creatività. Spesso ci riesce, qualche volta no. Con Daniela è dura e ancora non ha capito cosa davvero si nasconde dietro quel suo attaccarsi coatto agli uomini. Comunque intanto ha trovato un registro per comunicare con lei. All’inizio gli sembrava di sbagliare sempre quando le parlava. Daniela era molto difesa e respingeva quello che veniva da lui. Ora invece la diga si è aperta. La donna sul lettino incomincia a respirare in modo accelerato, rumoroso. Sta cercando di attirare l’attenzione dell’analista.
– Cosa succede?
– Mi vergogno… mi vergogno.
– Di cosa?
– Sono una sfigata. Non mi doveva succedere. Mi ha rovinato la vita.
Daniela resta in silenzio e ricomincia a piangere tanto forte che tutto il suo corpo sussulta.
– Cosa le ha rovinato la vita?
– Mi vergogno a dirglielo. Cerco sempre di non nominarlo per fare in modo che gli altri non lo notino. Quella parola non la uso mai. La dica lei, dottore, non la faccia dire a me.
– Sinceramente non so di cosa sta parlando.
– Ma mi ha vista bene?! – dice la donna con rabbia – Non faccia finta di niente!
L’analista è perplesso. Sta cercando di indovinare a cosa Daniela si riferisce. Forse al fatto che è in sovrappeso? Ma non gli pare un motivo convincente. E poi non lo vuole dire lui, perché se indovinasse confermerebbe che agli occhi degli altri il difetto di Daniela appare evidente.
– Forse quello che lei crede un difetto evidente non lo è per gli altri, che nemmeno lo notano.
– Anche un cieco lo noterebbe; non mi prenda in giro.
– Questo indovinello non mi piace per niente. Quando se la sentirà sarà lei a parlarmene.
L’analista si rende conto di aver usato un tono un tantino duro, ma pensa che era necessario. In fondo se Daniela non ha mai usato la fatidica parola, ora ha l’occasione di farlo per la prima volta e rompere così il tabù. Però intanto a lui è venuto in mente di cosa potrebbe trattarsi. Lo aveva notato subito, alla prima seduta, ma poi non ci aveva fatto più caso, perché in fondo era ben armonizzato col resto del viso. Probabilmente si tratta del naso – pensa. Attende per vedere se ha indovinato. Gli capita abbastanza spesso di prevedere cosa il suo interlocutore dirà. Sa che sarebbe meglio non fare previsioni, ma gli piace mettere alla prova il suo intuito. Si deve pur concedere qualche sfizio in questo lavoro durissimo, tutto dedito agli altri.
– Da ragazzina già non ero un granché, poi improvvisamente mi sono ritrovata con… Mi ricordo quando la prima volta l’ho visto nello specchio. Non è possibile, ho pensato… Ho chiuso gli occhi e li ho riaperti, sperando che si trattasse di un’allucinazione… E invece no. Era lì in mezzo al mio volto, con quella gobba orrenda… Ha capito di cosa sto parlando, dottore?
– Credo di sì.
– Ecco, lo vede, non si può non notarlo. Fa schifo.
– Non lo vuole proprio nominare.
– Se non lo nomino è più facile dimenticarmi che esiste. Sono una sfigata… proprio a me doveva capitare. Nessuno mi poteva volere conciata così. Quando Carlo, il mio primo fidanzato, incominciò a corteggiarmi mi sembrava impossibile. A me lui non piaceva, però pensavo di non meritare di più e così siamo rimasti insieme per otto anni, finché mi ha lasciato per un’altra. Disse che le mie continue richieste di attenzione l’avevano sfiancato. Io pensavo che l’altra era più bella, quello doveva essere il vero motivo. Se almeno avessi avuto il coraggio di operarmi… Avevo paura che tolte le bende mi sarei ritrovata più brutta di prima.
Daniela singhiozza. L’analista sente il dolore della sua interlocutrice e pensa ai propri drammi adolescenziali. I due restano in silenzio, come storditi dal senso di sofferenza che aleggia nella stanza. La luce sta declinando, ma l’analista non si alza per accendere la lampada come fa di solito. Gli sembra che la penombra possa lenire il male. Il silenzio è totale, nemmeno un abbaiare di cane o una voce nella strada. Solo il ticchettio dell’orologio scandisce un tempo immobile. Il mondo pare essersi ritirato per lasciare Daniela e il suo analista in una nicchia privata dove poter sentire fino in fondo se stessi. Ci sono talvolta in questa stanza momenti così rarefatti che paiono appartenere a un’altra dimensione, tra il sogno e la realtà. L’analista sa per esperienza che in questi momenti ci si tocca profondamente e avvengono passaggi decisivi. La sua mente è in uno stato di sospensione e nello stesso tempo di estrema sensibilità. Attimi così lo ripagano di tante fatiche. Ha gli occhi chiusi e quando li riapre vede la mano destra di Daniela protesa verso di lui. La donna è in una posizione innaturale, supina sul lettino, col braccio teso all’indietro.
– Ho bisogno di sentire che lei c’è – dice Daniela.
L’analista dopo un attimo di esitazione allunga la sua mano e prende quella della donna. È consapevole di quanto sia problematica l’accoglienza di quella richiesta, ma sente che ora qualsiasi tentativo di parlare e riflettere sul significato di quanto sta accadendo sarebbe fuori luogo, o meglio fuori tempo. Dice a se stesso che lo farà in seguito e intanto lascia che Daniela stringa avidamente la sua mano, la quale risponde in modo materno.
– Sono qui – dice l’analista e intanto cerca una posizione più comoda, dato che Daniela non sembra intenzionata a lasciare la presa. Si sente un po’ ridicolo, seduto sul bordo della poltrona, tutto sbilanciato in avanti. Pensa all’angoscia d’abbandono nascosta dietro il difetto del naso, così inaccettabile, alla difficoltà di Daniela di interiorizzare la sua presenza, tanto da dover ricorrere al contatto fisico per sentirla. Guarda le due mani che si tengono: per un attimo gli paiono due esseri a sé stanti che si accoppiano e prova un certo imbarazzo. Per fortuna Daniela allenta la presa e lentamente ritira la mano. L’analista può ora tornare ad appoggiarsi allo schienale della poltrona. La donna prende un altro fazzoletto di carta e si soffia il naso.
– Mia madre era sempre stanca e arrabbiata – dice con un filo di voce – Non avrei dovuto nascere, ero l’ultima di quattro figli. Non mi voleva. Io non mi staccavo mai da lei. Quando litigava con mio padre minacciava di andarsene e non faceva caso se io ero presente. Se mi avesse voluto bene non l’avrebbe fatto. Ero terrorizzata dal pensiero che mi abbandonasse. E poi lei dove sarebbe andata? Come avrebbe fatto senza una casa?
L’analista si ritrova a pensare all’immensità dell’universo, alla terra minuscola nella sua galassia e quest’ultima minuscola nello spazio incommensurabile tra centinaia di miliardi di altre galassie: una visione da togliere il fiato. Gli succede a volte quando è immerso in un dramma umano, suo o di altri. Prova un grande sollievo a sentirsi molto meno di un moscerino nella vastità del cosmo e nello stesso tempo un senso di vacuità lo invade. D’altra parte sa che per un bambino la madre è una sorta di universo entro il quale tutto ciò che accade può avere un’importanza vitale. Che insanabile contraddizione – pensa l’analista – il microcosmo della nostra esistenza ci condiziona più del macrocosmo che ci circonda e di cui di solito ci dimentichiamo; forse perché cerchiamo di delimitare il problema nel tentativo di controllarlo – così come è più facile concentrarci sulla gobba del naso che sulla tragedia d’essere abbandonati dalla propria madre. Proprio nel mezzo di questi pensieri sente il pianto disperato di un bambino piccolo che viene dalla villetta di fronte. Ecco – dice a se stesso – l’universo che crolla di fronte a un bisogno che non trova contenimento.
– Prima della seduta sono in ansia, ho paura… ho paura di non trovarla o che lei sia arrabbiato o maldisposto nei miei confronti. Temo di essere pesante… di essere una paziente difficile.
(Silenzio)
– Sono una paziente difficile, vero?
– Beh, mette alla prova la mia capacità di essere accogliente.
– È stufo di me?
– No.
– Spero che sia vero.
– È una questione di fiducia.
– Mio padre diceva spesso che la fiducia è cieca.
Proprio così – pensa l’analista – la fiducia è un sentimento a priori che proiettiamo sugli altri. E si rammenta di come per lui negli anni quel sentimento antico è andato ripetutamente a sbattere contro la realtà, sinché a un certo punto, alle soglie della terza età, si è incrinato, introducendolo in territori sconosciuti. Dunque la fiducia – riflette l’analista – può aprire gli occhi, così come la sfiducia può ricredersi – quest’ultimo, in fondo, è uno degli scopi principali del mio lavoro. Certo è dura ribaltare nell’età adulta un sentimento che è cresciuto con noi sin dall’infanzia. Un’impresa titanica. E poi io dovrei essere assolutamente degno di fiducia, o magari, come direbbe Winnicot, sufficientemente degno – livello più abbordabile.
– La seduta sta per finire… Voglio restare qua… Posso?
– Lo sa che non è possibile. Comunque io non sparirò quando lei uscirà da qui. Ci sarò ancora, lo tenga a mente.
– Non è la stessa cosa.
– Lo so, ma è qualcosa.
(Silenzio)
– Vorrei portare con me un oggetto che le appartiene.
– Quale? – chiede l’analista pensando all’oggetto transizionale.
Daniela si guarda intorno.
– Questa – dice la donna indicando una piccola maschera che è appoggiata su un ripiano della libreria.
– Perché proprio quella?
– È un’apparenza… un po’ come me e lei.
L’analista è colpito dall’affermazione della donna, ma sa che è tardi e non c’è tempo per lavorarci sopra. Si annota la frase sul blocco degli appunti e a fianco scrive: “È consapevole del valore simbolico della relazione terapeutica o sta dicendo che la nostra relazione è una farsa?”
– Posso prenderla?
– Sì
Daniela si alza dal lettino e prende la maschera. Dopo averla osservata attentamente la infila nella borsetta.
– Grazie, ora me ne vado.
La donna scende le scale lentamente, come se avesse paura di cadere. Davanti all’ingresso l’analista la saluta con la sua formula di rito – “buona settimana” – e dopo aver chiuso la porta si ricorda di Angela, l’interlocutrice analitica che voleva lasciargli un orecchino. Lei voleva lasciarmi un suo oggetto – pensa – Daniela invece ne ha voluto uno mio. Qual’ è la differenza? Angela aveva bisogno di mantenere una continuità della relazione, così come Daniela. Ma Angela mi vuole lasciare qualcosa di sé che ha valore, Daniela invece non riconosce in sé alcun valore e ha bisogno di qualcosa che mi rappresenti: l’orecchino rappresenta Angela, la maschera rappresenta me. Angela usa a piene mani oggetti transizionali, è una conservatrice di oggetti che gli ricordano le sue passate relazioni, Daniela sembra stia creando ora il suo primo oggetto transizionale o almeno così mi piace pensare. L’una interiorizza, l’altra sta forse imparando a farlo. Mah – esclama l’analista – questo è un lavoro da pignoli, perché è nei dettagli che si nascondono le dinamiche profonde – gli accade spesso di parlare ad alta voce con se stesso. Viene interrotto nelle sue meditazioni dalla gatta che attira la sua attenzione con un miagolio perentorio che significa occupati di me. L’analista si accovaccia, le strofina il mento e l’angolo della bocca e intanto pensa a quanto è fluida la relazione tra lui e la gatta.

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