Il familiare e il perturbante in Funny Games

di Chiara Conti e Donatello Giannino 

immagine Conti Giannino

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

(Italo Calvino, Le città invisibili)

 

Ad introdurre il termine perturbante in ambito psicologico fu Jentsch (1906), il quale attribuiva a tale concetto quella reazione che si è soliti provare dinanzi a ciò che è nuovo, insolito, inconsueto. Freud (1919) riprende tale concettualizzazione e tenta di sistematizzarla attraverso le nuove intuizioni che in quel periodo stava sviluppando. All’inizio del suo saggio, il padre della psicoanalisi sottolinea subito la divergenza di pensiero da Jentsch, affermando che “il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare” (p.270), per poi passare in rassegna una disamina filologica del termine “Unheimlich”, termine che in italiano non trova il suo corrispettivo, e le teorizzazioni di Schelling a riguardo. Ne deriva che, il termine “Unheimlich” in tedesco significa ciò che non è familiare, che è estraneo, non usuale. Il suo opposto è “Heimlich”, ovvero il tenuto nascosto, segreto, celato, oltre al significato di “familiare” ed “intimo”. Freud quindi sottolinea, partendo da questa premessa, come l’“Unheimlich” risulta lo svelamento di ciò che è familiare ma tenuto nascosto, quindi rimosso e negato alla coscienza. Da qui il conseguente stato ansioso e disturbante derivante dalla natura traumatica del perturbante. “Unheimlich” e “Heimlich”, spaventoso e familiare, due termini antitetici che nell’incontrarsi generano il perturbante.

Ciò che più ci spaventa, ci destabilizza nel vedere un’opera d’arte “perturbante” è ciò che l’opera stessa riesce a far emergere in chi guarda, l’inquietudine di fronte all’improvviso ritornare alla coscienza di ciò che si era creduto superato ed accantonato.

Lo stesso vale per quanto riguarda le visioni cinematografiche. Scrive Paola Golinelli (2004, pag.454) “il cinema, come l’arte in genere, ci permette ogni volta di superare un limite, oltre il quale andiamo incontro ad una esperienza sconosciuta che, proprio perché posta al confine tra due realtà – quella interna e quella esterna – sollecita la curiosità e il desiderio”. Il cinema è essenzialmente un doppio della vita reale e offre mondi e aspetti alternativi a quelli vissuti quotidianamente di fortissimo impatto, in cui l’esperienza percettiva raggiunge effetti sconvolgenti in grado di contattare le nostre aree cieche.

Ed è ciò che avviene quando si osserva un film come Funny Games. Qui vi è l’apice del conflitto estetico, vi è incertezza, dubbio, curiosità di fronte all’insensatezza delle azioni e vi è il tentativo di colmare quei vuoti che ci inducono alla ricerca della conoscenza, a K., per dirla come Bion, per liberarci da quel vissuto perturbante che ci pervade e ci fa vivere questa tragica esperienza.

Entrambi sentiamo la necessità di sottolineare la potenza disturbante della visione dell’opera Hanekeiana. Se consideriamo il perturbante come a un qualcosa legato alla vista, al guardare, Haneke ci spiazza, è abile in questo, non mostra mai l’atto violento ma solo il suo risultato, il tutto attraverso un crudo realismo rappresentativo. Lui non ci vuole solo fruitori della sua opera, ma soggetti e protagonisti attivi dentro la pellicola stessa.

La trama del film è dannatamente semplice. La pellicola è un remake shot-for-shot dell’omonimo film diretto nel 1997 dallo stesso Haneke, cambiano solo gli interpreti e l’ambientazione, con l’obiettivo di raggiungere un pubblico più vasto. Una famiglia borghese, George (Tim Roth), Anne (Naomi Watts) e il piccolo Georgie (Devon Gearhart), si dirige in vacanza alla casa sul lago. Qui due ragazzi vestiti di bianco, dall’aria gentile ed educata, con una banale richiesta di poter avere delle uova, prendono possesso della famiglia ed iniziano a mettere in scena i loro “giochi divertenti”. Questi giochi sono fini a se stessi, privi di una reale motivazione. I due ragazzi non vogliono derubare la casa, vogliono solo annientare l’altro, vogliono umiliare, terrorizzare, uccidere.

Sin dalla prima scena avvertiamo e sentiamo dentro di noi quel qualcosa di spaventoso che genera angoscia. Tale sentimento si alimenta sempre più man mano che l’insensatezza delle azioni e delle parole si fanno sempre più incomprensibile. “Perché lo fate?”, chiede George. La risposta non può che essere: “perché no?”.

Basandoci su quanto esposto all’inizio del lavoro Anne non avrebbe mai permesso a quel ragazzo dal viso dolce con modi garbati di entrare nella propria casa se non le fosse apparso così familiare, il quale poteva essere per davvero, agli occhi di Anne, un ospite o parente di vicini. Il perturbante, “in nome della buona educazione”, fa breccia nella casa sotto le mentite spoglie del familiare, del confortante, del rassicurante, per poter mettere in campo un gioco perverso, dove l’altro non è visto come altro da sé, ma funzionale e necessario al proprio modus operandi et vivendi; qui vogliamo evidenziare la peculiarità della violenza, che non necessita dell’altro, di una relazione oggettuale, come invece accade nell’aggressività, ma si colloca prima, in una posizione narcisistica ed anoggettuale in cui ad essere esplicitata non è nient’altro che una incontenibile rabbia, conseguente presumibilmente ad una profonda ferita narcisistica.

In ostaggio non sono stati presi solo i tre componenti della famiglia, ma ogni singolo spettatore. Più volte infatti lo spettatore è reso partecipe, chiamato direttamente in causa, da uno dei due sadici protagonisti, per coinvolgerlo in questo gioco dalle modalità perverse. Nel film il gioco viene utilizzato sia nella rappresentazione della trama filmica sia nella scelta stilistica del regista di rendere partecipe lo spettatore ad un gioco che illusoriamente può controllare attraverso l’uso del telecomando. Funny games, anche in quanto esperienza culturale, sembra avvicinarci a quell’area di transizione, dimensione intermedia tra finzione e realtà, proposta da Winnicott (1971) in cui il gioco, in questo caso violento, appare funzionale per poter transitare dal reale interno al reale esterno dell’individuo.

Così come il regista utilizza le immagini filmiche per rappresentare nel gioco del cinema il proprio mondo interno, i personaggi della famiglia in ostaggio vengono manipolati in funzione della rappresentazione del violento mondo interno di Peter e Paul. Il gioco violento cresce esponenzialmente, si duplica con l’arrivo del secondo personaggio che appare speculare al primo, contatta ed invade i protagonisti del film fino a giungere prepotentemente allo spettatore che si identifica con le vittime fino ad arrivare a simpatizzare per una loro risposta altrettanto violenta, che possa porre fine a quel gioco terribile.

Il colpo di scena della pellicola analogica che torna indietro, disilludendo ogni speranza di salvezza per i protagonisti in ostaggio, rappresenta molto bene come il gioco della finzione filmica possa risultare rassicurante nella misura in cui permette di non perdere il controllo sulla realtà esterna.

In una sala cinematografica non siamo portati a guardare tutti la stessa produzione filmica, ogni spettatore infatti vivrà l’esperienza del film in modo del tutto personale. Il parallelismo tra la comunicazione analitica e quella del cinema si presta molto bene a chiarire come il processo analitico venga sostenuto dalla rappresentazione di elementi del campo intersoggettivo condiviso tra paziente e analista, proprio come accade ad un regista che tenta di rappresentare i vissuti che lo attraversano. In Funny games i contenuti violenti delle scene che il regista Haneke proietta attraverso l’opera filmica arrivano allo spettatore, il quale si trova a sperimentare su di sé una pressione che lo induce a pensare all’irragionevolezza di quelle azioni e a sentire un senso di tensione, ripugnanza e rifiuto fino a contemplare la possibilità o meno di interrompere la visione del film. Come i vissuti del paziente (Ogden, 1994), le immagini del film vengono proiettate sullo spettatore\analista il quale, attraverso la pressione di queste proiezioni, è portato a rivivere nel qui e ora l’esperienza suscitata. In questo modo spettatore e analista, sono indotti a sperimentare se stessi in modo corrispondente agli elementi che regista e paziente riescono a rappresentare (in Fanny games la crudeltà sta nel realismo del metodo narrativo scelto dal regista grazie al quale lo spettatore è portato a rivivere il dramma del sequestro). Ma benché suscitati dal regista e dal paziente questi nuovi elementi sono il prodotto di una diversa organizzazione. Questo apre la possibilità che gli elementi proiettati vengano, questa volta, gestiti e trattati in modo nuovo e diverso. In psicoanalisi ciò che risulta terapeutico si trova nella capacità dell’analista di ricevere le proiezioni del paziente e di utilizzare aspetti della propria e più matura organizzazione di personalità per poter rendere più tollerabile il vissuto al paziente che ora è pronto per reinteriorizzarlo.

Il finale non è altro che un nuovo inizio, come una coazione a ripetere, il gioco ricomincia, una nuova famiglia da umiliare e distruggere, nuove pedine al servizio di Peter e Paul.

 

Bibliografia

Freud S. (1919). Il perturbante. OSF, vol.9. Torino: Bollati Boringhieri.

Golinelli P. (2004). Per una interpretazione psicoanalitica dei film. Rivista di Psicoanalisi, 50, 449-460.

Jentsch E. (1906). Zur Psychologie des Unheimlichen. Psychiatrisch-neurologische Wochenschrift, 22, 203-205.

Ogden T.H. (1994). La identificazione proiettiva e la tecnica psicoterapeutica. Roma: Astrolabio Ubaldini.

Winnicott D.W. (1971). Gioco e realtà. Roma: Armando,1974.

 

Filmografia

Haneke M. (1997). Funny Games. Austria.

Haneke M. (2007). Funny Games. USA, UK, Francia, Austria, Italia, Germania.

 

 

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