Il corpo e la casa

di Tiziana Sola

immagine Sola

“…uno le case può venderle o cederle ad altri finchè vuole, ma le conserva ugualmente per sempre dentro di sé”

                                                       (N. Ginsburg, “La città e la casa”, 1984).

 

Ad una mostra sullo Yemen (“Nel paese della Regina di Saba” – Roma) in un silenzio ovattato, trasfigurato nelle immagini che ritraggono superbamente il profilo di una cultura affascinante e al contempo inquietante, colgo una frase che introduce gli usi e costumi relativi alla casa e agli ambienti interni. Questa: “Edificate con l’immaginazione il vostro riparo nel deserto prima di costruire una casa dentro le mura di una città… La vostra casa è il vostro corpo ingrandito” (K.Gibran, Il profeta, 1923). Conosco questo testo ma non ricordavo questa frase che mi accende all’istante l’entusiasmo per scrivere qualcosa che al momento mi coinvolge personalmente, la casa, come dimensione dell’abitare, esperienza metafisica dell’esistere, e del problema dell’armonia tra spazio esterno in cui si sceglie o ci si ritrova a vivere e spazio interno che si costruisce a partire dal corpo. In quella frase colgo così ciò che da un po’ di tempo vado pensando a proposito dei significati profondi che la “casa” assume nella nostra esistenza, sperimentando in prima persona le sensazioni che un nuovo luogo abitativo evoca o ri-evoca, come se quello spazio non fosse solo luogo fisico occupato da un corpo fisico, ma rifrazione di una “casa interiore” che si edifica nel corso delle esperienze della vita, attraverso un corpo che, a partire dal momento in cui si apre al mondo, si permea di una serie di significati (di senso) e acquisisce una valenza soprattutto simbolica.

Nel mio recente trasferimento in una nuova casa ho potuto sperimentare come la casa non sia solo il luogo che ci ospita, o il punto di riferimento familiare perché vi partiamo ogni mattina per ritornarvi la sera. Non è semplicemente un “dove”. In effetti la nostra lingua nel dire “abito in” o “abito a” confonde e riduce il senso dell’abitare, che a mio avviso invece esprime qualcosa di più complesso legato al nostro essere. Un essere trasfigurato nel luogo che abita, nelle persone e negli oggetti che lo circondano. I francesi ad esempio dicono “j’abite Paris” oppure “j’abite rue Saint Michel” e non “à la Rue Saint Michel”; quando imparai questa lingua mi resi conto che questo modo di dire contiene in sé una differenza di fondo e cioè il fatto di non riferirsi tanto al luogo oggettivo quanto  all’azione soggettiva di un Io che abita ovvero che si proietta in quel luogo, impregnandolo di vissuti propri.

E l’Io è innanzitutto un corpo. Un corpo vissuto, dotato di senso, che non può prescindere dallo spazio che occupa. Galimberti su questo scrive pagine splendide sul suo libro “Il corpo”, specie quando dice  “Come apertura originaria sul mondo, il corpo è trascendenza” (Galimberti, 1983, p.66). In questa espressione ritrovo una dimensione vitale che è quella della “ricerca” cioè del corpo che scopre lo spazio che vive, e al tempo stesso si scopre, si conosce o si ri-conosce.

Ho cercato per molto tempo la mia nuova casa. L’ho cercata spinta da un desiderio di uno spazio più consono alle mie necessità. Nessuno mi impediva di rimanere nella casa precedente che pure ho amato molto. Sentivo tuttavia un bisogno di cambiamento, come se quella casa fosse diventata asfittica, rispetto al mio spazio interno desideroso di nuove possibilità, di orizzonti più larghi. La ricerca è stata estenuante, al limite dello sfinimento. Scoprivo che non bastava avere a disposizione una casa più grande. Ne ho viste tante, di quelle che le agenzie convenzionalmente definiscono “belle case”, ma nel momento in cui vi entravo le sentivo ostili ed estranee, consapevole d’istinto che non le avrei mai abitate. Questa ricerca era dunque una scoperta di me e di ciò che per me rappresenta lo spazio che vivo. Poi un giorno, in circostanze del tutto casuali, scopro una casa, la vedo ed è la folgorazione. Avevo l’impressione che tutto fosse al posto giusto, che la divisione delle stanze, l’esposizione geografica e lo spazio esterno di cui la casa disponeva, rispondevano perfettamente a ciò che cercavo. Era la “mia” casa. La riconoscevo.

Questa sensazione si è via via amplificata nel momento in cui vi ho situato i miei mobili, i miei oggetti, i miei libri, i quali assumevano anch’essi un’altra dimensione, un’altra faccia. Erano diversi come anch’io mi sento diversa nel muovermi in uno spazio nuovo e familiare al tempo stesso. E in questa nuova armonia colgo tuttavia il senso più profondo di quella irrisolvibile contraddizione che porta tanti di noi a dividersi tra bisogno di sicurezza, di appartenenza ad un ambiente familiare, e bisogno di evoluzione, di scoperta del mondo, con la consapevolezza che ogni armonia, ogni equilibrio raggiunto con lo spazio che ci circonda è transitorio, precario.

Nella frase di Gibran credo che il concetto della precarietà sia implicito laddove evoca la metafora del deserto. Il deserto è solitudine, inevitabile incontro col sé che non può non essere ascoltato; ma è anche mutante e i suoi abitanti sono nomadi, i quali cambiano nel momento in cui vagando, si rifugiano in case ogni volta diverse. E’ una metafora in cui colgo che la casa muta inevitabilmente in funzione dei cambiamenti che si verificano in noi, nel momento in cui siamo liberi di aprirci alle esperienze della vita.

Se in effetti il corpo è trascendenza ed acquista senso solo proiettandosi fuori di sé, credo che lo spazio privato, espressione esterna e tangibile di quello psichico interno, si forma a partire dall’impatto col mondo più largo. Così il corpo diventa vissuto, si sperimenta, conosce le passioni e l’accorato mondo dei sentimenti nel momento in cui si trascende nelle relazioni. E. Borgna ne fa il leit-motiv del suo ultimo lavoro  (1999) affermando “Non c’è condizione umana senza dialogo”; e citando M. Heidegger sottolinea “Non è mai dato, innanzitutto, un Io isolato, senza gli altri”. Come se l’Io non potesse trovare la sua dimensione individuale se non nell’incontro con l’altro.

La casa è certamente un rifugio, luogo di stabilità, tra cose che non ci ignorano e volti familiari. Ma non sempre è così. Credo che spesso sia solo un riparo disperato di chi, non avendo punti fermi interni, si aggrappa alle mura della casa e alle persone che ci vivono, per non perdersi. Con la sensibilità e il tatto che lo contraddistingue E. Borgna, nel libro citato, riporta la storia di una anziana signora strappata alla “sua” casa, dove aveva vissuto molti anni col marito. Alla morte di questo era stata costretta a trasferirsi in un’altra casa più economica, che non le piaceva. In concomitanza di questo cambiamento, e non della perdita del marito, aveva avuto uno scompenso depressivo tale da richiedere il ricovero in clinica psichiatrica. Penso ad una mia paziente che, dopo qualche anno di terapia, si trova per caso a dirmi che lei a casa non c’è mai. Subito dopo il lavoro vi rientra per rassettarla e poi fugge via a “casa sua”, cioè a casa di sua madre, nel “suo” quartiere. In seduta, come folgorata da un’intuizione, riferendosi alla casa da cui fugge via, mi sussurra “sa, non c’avevo mai pensato, ma io mi sono ammalata in quella casa…quella casa mi è estranea”. Così la casa rischia di trasformarsi in una prigione quando il corpo non ha la libertà di trascendersi “fuori di sé”, perché oppresso dalle angosce di perdita e dalla paura di arrischiarsi nei pericoli del mondo. Così l’unico rifugio, più della casa, diventa la malattia, psichica o somatica, dove il corpo non è più il veicolo delle nostre esperienze ma è l’ ostacolo attorno al quale ci si avvita, via via che gli investimenti dalla vita esterna si riducono, sino a vivere di malattia. Galimberti utilizza metafore della salute laddove dice che il corpo nella sua ambivalenza, vive solo dimenticandosi: “io sono il mio corpo solo non essendolo” (op. cit. p. 73), e ciò mi riporta alle acute riflessioni di H. G. Gadamer, che in un discorso più generale sul senso che la malattia assume per il malato, sostiene  “La salute…non può essere esaminata, in quanto la sua essenza consiste proprio nel celarsi. A differenza della malattia, la salute non è mai causa di preoccupazione, anzi non si è mai consapevoli di esseri sani” (1993, pag. 107). Ma egli sostiene anche che non c’è malattia senza salute ed io penso alla transitorietà dello star male come un diritto che ognuno di noi è tenuto a prendersi ogni qual volta la vita appare ostile e inospitale. Bisognerebbe in effetti chiedersi oggi quali altri sentieri, oltre quello della malattia, un uomo può percorrere per conservare la sua dimensione individuale.

Personalmente penso che il mondo di oggi non abbia molte attrattive e per vivere in salute bisogna “scegliere” molto, ritagliarsi spazi sempre più ristretti, evitare il più possibile quella massa informe fatta di cose e di persone insignificanti che, col loro peso, invadono chi si ostina a rispettare la propria individualità, la propria sensibilità. Aveva ragione I. Calvino quando anni fà, con straordinaria preveggenza, preparando quelle famose lezioni americane che non riuscì mai a discutere, sosteneva che il mondo di fine millennio gli sembrava condannato ad una pesantezza roboante e rumorosa. E’ per questo che la difesa dello spazio privato è per me fondamentale, quando l’intrusione e l’invasione della vita personale appaiono oggi tendenze a cui tutti sembrano assuefarsi.

Certo lo spazio privato è fondamentalmente una dimensione interiore che non si limita al ritagliarsi di uno spazio esterno, ma, se questa dimensione esiste, si riproduce e si riflette in esso. E’ così che la casa diventa rifugio prezioso, custode della intimità ed anche testimone della vita stessa di chi vi abita.

Qualche tempo fa in un’intervista televisiva sentivo un vecchio psicoanalista, accomodato in un’enorme poltrona della sua casa, ricolma di una miriade di oggetti di varia natura che conferivano all’ambiente una caotica originalità, dire che con la sua casa c’era un costante dialogo implicito, che gli oggetti, tra i quali notavo pupi siciliani, armi rudimentali orientali e mille altre piccole meraviglie ammonticchiate sui mobili, “gli parlavano”. “Tutto mi parla in questa casa” diceva con espressione tenera di chi in effetti parla di qualcosa che gli appartiene intimamente. Io mi sono rivista molto in questo, perché anch’io ho un rapporto particolare con i miei oggetti. Ognuno di loro è stato scelto con estrema cura, ma non per rispettare un criterio semplicemente estetico, bensì in funzione dell’armonia esistente tra me e loro, tale da farmi sentire che ogni oggetto sia anche un po’ “me”. Proprio in questo senso intendo che la mia casa è il mio corpo ingrandito.

E’ ora di prendere congedo. Mentre scrivo, guardo le mie piante dalla finestra. Cominciano ad abituarsi anch’esse a questo nuovo spazio, ed anche al vento che le agita sempre energicamente. Mi sembrano anime trascinate convulsamente verso chissà quali altre mete. Mi viene in mente l’atmosfera struggente e nostalgica di un delizioso romanzo epistolare di N. Ginsburg “La città e la casa” (1984) a cui mi sono umilmente ispirata per il titolo di questo articolo, dove le case con i loro mobili e oggetti cari, sono i precari punti d’appoggio di una comunità di amici che nel tempo si sgretola, ognuno per andare verso il proprio destino. “Crollano i destini, restano le cose. Gli oggetti rimangono, magari deteriorati, però son lì…” commenta l’autrice (op. cit. p. 241). E’ per me una commovente metafora del tempo che scorre e della vita che ci trascina verso altri destini, altre case. Accompagnati da resti di passato, oggetti sparsi, come “masserizie che galleggiano su un fiume in piena” (op. cit.). Masserizie sfuggite all’urto inesorabile eppur salutare della dimenticanza.

 

RIFERIMENTI   BIBLIOGRAFICI

Borgna, E. (1999), Noi siamo un colloquio. Milano: Feltrinelli.

Calvino, I. (1993), Lezioni americane. Milano: Mondadori.

Gadamer, H. G. (1993), Uber die Verborgenheit der Gesundeit. Frankfurt am Main: Suhrkamp Verlag (tr. it., Dove si nasconde la salute, Milano: Cortina, 1994).

Galimberti, U. (1983), Il corpo. Milano: Feltrinelli.

Gibran, K. (1923), Il profeta. Milano: Mondadori, 1985.

Ginsburg, N. (1984), La città e la casa. Torino: Einaudi.

 

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