Riflessioni psicoanalitiche sul concetto di inclusione: il pentolino di Antonino.

 di Diana Lupi

immagine Lupi

Scopo di questo articolo è quello di introdurre il lettore nel mondo dell’inclusione, concetto attuale e noto nel mondo della didattica e pedagogia contemporanea, traendo spunto dal testo “Il pentolino di Antonino[1] di Isabelle Carrier, favorendo, quindi, delle considerazioni che possano servire a comprendere cosa significa includere ovvero cosa, chi, dove, quali sono le difficoltà che si incontrano.  Punterò l’attenzione sullo sviluppo, durante la storia, della funzione del pentolino, del significato che mano a mano inizia ad avere e quindi del cambiamento che comporta, di riflesso, in Antonino, il protagonista di questa storia.

LA STORIA

Propongo, prima di tutto, una breve sintesi, a tratti commentata per favorire la comprensione, del testo originale “Il pentolino di Antonino”.

Un giorno un pentolino cade sulla testa di A., è così che lo stesso si accorge di avere il “pentolino” e di non essere proprio come gli altri. Ricerca così affetto, considerazione, è più sensibile, affettuoso, sa dipingere, ha tante qualità. Il problema sorge quando la gente nota solo il pentolino (è strano, inquietante …) non vedendo più l’interezza del bambino. Così A., accorgendosi di questo, inizia a percepire la difficoltà di gestire la vita avendo il pentolino: è tutto più complicato, pochi si accorgono che A. fatica più degli altri per farcela. Se non ce la fa si arrabbia, piange, dice parolacce, a volte picchia e viene sgridato. Così, inizia a sentirsi diverso, lontano dagli altri e trattato diversamente… decide di doversi sbarazzare del pentolino ma è impossibile, non si può “staccare” da sé. Decide, allora, di nascondersi sotto al pentolino e la gente poco a poco lo dimentica. Per fortuna esistono persone straordinarie, c’è chi aiuta A. a tirare fuori la testa dal pentolino, è Margherita e gli insegna a conviverci, ad esprimere le paure attraverso il pentolino, ritrova così la felicità. M. gli confeziona una saccoccia per portare il pentolino, continuerà ad esserci ma sarà più discreto. La gente adesso lo trova pieno di qualità ma A. è sempre lo stesso, ovvero è riuscito grazie a M. a trovare un posto dentro e fuori di sé al pentolino.

I COMMENTI

Il pentolino è la rappresentazione concreta della difficoltà in genere: è la forma di un disturbo, di una patologia, di uno svantaggio di qualunque genere: psichico, sociale, economico, culturale, religioso…

Tutto questo rientra, fra l’altro, in ciò che il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca individua come BES[2], Bisogni Educativi Speciali, a cui si rimanda ad approfondimenti didattici-pedagogici diversi, ovvero quei bisogni che devono essere visti, considerati e, quindi, integrati-inclusi.

La storia di A. è un esempio di come un bambino possa vivere con una difficoltà ovvero con un pentolino. Inizialmente A. non si cura di questa “diversità”; se ne accorge solo quando gli altri, che fungono da specchio, lo inducono a “riflettere” sulla realtà della presenza della diversità. Il pentolino oscura il suo vero sè, le sue qualità: A. inizia a detestarlo, inizia ad irritarsi. Così, sentendo la non gratificazione nel rapporto con gli altri, assume comportamenti inadeguati, al limite, che rappresentano veri e propri sintomi. Segnali di difficoltà che indicano la presenza di disagio, di fatica che il b. sente per raccordare la sua complessità alla realtà, lo sforzo che tenta di compiere, pur riuscendoci con difficoltà, nel trovare un modo di stare con gli altri. Il pianto, la parolaccia sono la rappresentazione del sentire la diversità con l’altro da sé, la discontinuità, come la definisce Winnicott[3], che il “problema” crea nel rapporto con i pari. Stare dentro un’ottica di inclusione, significa comprendere che un disagio così come i suoi sintomi, rappresentano uno scollamento fra il b. e il suo problema e fra il bambino con la società, e la società con il problema. Infatti, come emerge nella storia, tutti i sintomi sono prodromi di quello che poi diventa un isolamento. A., grazie ai sintomi, fa emergere tutta la difficoltà che incontra per potersi integrare in sé e, quindi, con gli altri. Nella storia tutti i tentativi di A. di “essere come gli altri” sono vani, per questo si nasconde e scompare. Nella storia emerge la figura di Margherita, deputata ad accogliere primariamente la difficoltà che comporta l’avere un disagio, secondariamente, con quella qualità definita resilienza, fa scoprire in che modo un problematicità, laddove elaborata e metabolizzata, diventa un’esperienza fondante di vita, un tassello in più nella costruzione del sé: è grazie a questa condivisione ed elaborazione del disagio, che A. può ripresentarsi al mondo libero dallo stesso. Un altro modo per dire che un trauma, laddove accolto ed elaborato, diventa un pezzo del sé che ritorna al proprio posto, una parte mancante della storia di vita che finalmente trova una collocazione psichica, una cerniera che finalmente ricuce e unisce due lembi di una vicenda che si erano scissi.

M. confeziona una saccoccia per A. affinchè il pentolino non crei nuovi inciampi lungo il percorso della sua vita. La saccoccia è un contenitore, serve a dare un luogo alla difficoltà, diventa, quindi, uno spazio potenziale[4], direbbe Winnicott, in cui è stato elaborato il disagio e, attraverso l’ausilio di una persona adulta che lo ha accolto, ne è stata trovata la potenzialità. Nella storia, come emerge chiaramente dai disegni ma non nello scritto, anche M. ha una tasca nella quale porta un pentolino, indicativa di come lei, per prima, ha dovuto trovare collocazione, da sola o attraverso l’aiuto di qualcun altro, al “bisogno”. Quindi, prima di A., ha potuto empaticamente provare cosa significa avere qualcosa di diverso dagli altri, ha potuto elaborarlo e infine integrarlo dentro la propria personalità e avviare un processo di integrazione psichica delle parti di sé. Il rimando a un legame terapeutico di cura fra analista e paziente non è così avventato.

Alla fine della storia A. viene apprezzato per tutte le riscoperte qualità, eppure, è scritto “A. è sempre lo stesso”. Ovvero, pur essendo ancora visibile il ricordo del pentolino dentro la saccoccia, nella realtà è avvenuto un gran passaggio interiore, ovvero A. ha imparato a gestire il disagio, lo ha introiettato, non è più un ostacolo alla vita, ma è un elemento che fa parte della propria persona che ha formato una esperienza da cui attingere. Ha creato nella mente uno spazio di possibilità per affrontare le problematicità e soprattutto ha permesso di nutrire la speranza che il trauma non é un ostacolo alla vita, ma può diventare il punto di partenza per costruire la stessa donandole un senso più autentico, in una dimensione complessa dell’essere.

LE RIFLESSIONI PSICOANALITICHE

Il grande lavoro interiore che A. ha compiuto è legato alla possibilità che si è dato di utilizzare quella difficoltà, di avere fiducia e di vederne le risorse. Certamente è stato fondamentale l’intervento di una figura altra che primariamente ha accolto quel bisogno e gli ha trovato un posto, una collocazione originariamente psichica. Inizialmente l’atteggiamento del protagonista rimanda al “come se” di Winnicott [5]: A. è “come se” fosse uno dei membri del gruppo dei pari, ma nella realtà non poteva né era così, c’era qualcosa che lo rendeva diverso. Il “come se” o meglio noto come il “falso sé” rimanda all’idea della finzione, del doversi mettere una maschera per aderire al contesto, per essere omogenei, uguali, per apparire più accettabili al mondo esterno, per essere come gli altri vogliono e non per come realmente si è. Trattandosi di una finzione, non ha a che fare con l’autenticità dell’essere.

L’estrema normalizzazione di quel bisogno, in realtà, allontana ancor di più A. da se stesso e dagli altri. È accogliendo, contenendo il disagio, che si diventa consapevoli di ciò che si ha e di ciò che non si ha. È solo così che si può accedere all’originalità dell’essere, ai fattori intimi e veri della propria personalità senza dover sembrare come gli altri o apparire qualcosa di diverso che non attiene a se stessi.

In conclusione, “Il pentolino di Antonino” metaforicamente rappresenta, ad un impatto più immediato, il percorso positivo di inclusione di un soggetto con uno svantaggio all’interno della società, ma, ad una lettura e analisi più profonda e complessa, svela il senso e l’importanza che un legame riparativo psicoterapeutico può produrre ovvero l’integrazione di sé, l’unione dei frammenti di un trauma che hanno prodotto una disintegrazione nella psiche, l’elaborazione e metabolizzazione dello stesso attraverso cui si arriva a dare un nome a ciò che precedentemente era indicibile né pensabile. E ancora il trovare un contenitore per gli stessi strazianti aspetti, un posto dentro di sé dove conservare ciò che prima causava dolore ed era stato veicolato nell’altrove.

Trovare un luogo a contenuti che prima erano insopportabili, addomesticare gli stessi, come ha insegnato la volpe al Piccolo Principe[6], riscoprendone il legame con tutti gli altri aspetti del sè, significa riacquisire l’interezza, l’originalità e l’integrità della propria persona-psiche, traendo vantaggio dall’esperienza profonda della analisi e, quindi, per dirla con Heidegger, accedere all’esser-ci nel mondo[7].

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

  • Carrier, I., “Il pentolino di Antonino”, Ed. Kite, Padova, 2011;
  • Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 “Strumenti di intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica”;
  • Heidegger, M. “Essere e tempo”, (1927), Ed. Longanesi, Milano, 2005;
  • Winnicott, Donald W, “Gioco e realtà”, (1971), Armando Editore, Roma, 2005;
  • Winnicott, Donald W., “Sviluppo affettivo e ambiente”, (1965), Armando Editore, Roma, 2007

[1] Carrier, I., “Il pentolino di Antonino”, Ed. Kite, Padova, 2011

[2] Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 “Strumenti di intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica”

[3] Winnicott, Donald W., “Sviluppo affettivo e ambiente”, Armando Editore, Roma, 2002

[4] Winnicott, Donald W, “Gioco e realtà”, Armando Editore, Roma, 2005

[5] Winnicott, Donald W., “Sviluppo affettivo e ambiente”, Armando Editore, Roma, 2002

[6] Antoine de Saint-Exupéry, “Il Piccolo Principe”, Edizioni Brancato, 1943

[7] Martin Heidegger, “Essere e tempo”, Ed. Longanesi, Milano, 2005

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