di Irene Giancristofaro
Cara Maria,
mi è difficile poterti raggiungere quando ti fai nebbia ed immobile, senza l’intenzione di un volo. Ti chiedo di ascoltare il mio passaggio di tempo perché io e te siamo dalla stessa parte. Anche adesso. Trovare un riparo che può salvarci è possibile. E te lo scrivo …
Credo che la solitudine sia un’illusione, pensai quando un pomeriggio d’autunno sentii una malinconia vicina e un ricordo parlarmi addosso. Volli tornare in uno dei luoghi della mia memoria dove, tra gli alberi di melograno, cercai di ritrovarmi in un passato che non passa mai. Avevo bisogno di incontrare di nuovo colei che persi in un giorno d’agosto, quando mi salutò dicendomi: “non voglio lasciarti ma sono stanca … ho bisogno di pace”. Quella fu l’unica volta in cui antepose se stessa a me e la lasciai andare. In quel posto volevo dimenticare lo scorrere del tempo, ascoltare ancora la voce di mia nonna paterna e farmi raccontare quanto io fossi diversa. O quanto tutto fosse, ormai, diverso. Sedetti nello stesso punto dove ero solita guardarla mentre dissodava il terreno e mi ricoprii di foglie e di fiori. Feci quel gesto in maniera del tutto inconsapevole. Forse perché volevo riappropriarmi di quella natura selvatica e delle stagioni andate. Come se quel tempo, in cui tutto sembrava possibile, durasse ancora, come accade nei sogni o nella follia. Le sue storie attraversavano i naturali silenzi, narrando misteri difficili da spiegare a chi non sapeva afferrarli. Nella vita si cerca sempre qualcosa di nuovo. Io stavo cercando qualcosa di conosciuto che, allo stesso tempo, mi apparisse diverso. Lei riuscì a farmi perdere i confini tra il reale e l’immaginario, offrendomi inconsapevolmente ciò che in futuro mi sarebbe sembrata una consolazione. Ne ebbi soprattutto bisogno quando ricevetti la visita di un ospite inatteso, che sbagliò il tempo destinato al nostro incontro. Avvertendo la sua presenza, la mia mano sinistra tremò e, in seguito, lo fece ancora. Quando il tremore divenne ostinato la mia storia cambiò e divenne un’altra da imparare ogni giorno. Compresi che non sarei stata più la stessa e che stavo attraversando una linea d’ombra in cui rischiavo di perdermi o di nascere di nuovo. Scelsi di reinventarmi ancora una volta, non senza dolore, non senza rabbia. Sentii anche che la mia diversità dovevo farmela perdonare, come fosse una colpa. Una vergogna ferina mi chiese la solitudine ed io, per un po’, l’accontentai. Fu quella richiesta che mi portò di nuovo nel posto dei melograni. Avevo bisogno di essere accolta da qualcuno o qualcosa che mi aveva sempre accettata per quella che ero e che non sarei mai stata. In silenzio. Mi sembrò che il sole all’orizzonte proiettasse il mio viso di bambina in uno di quei frutti dalla scorza dura e dal ventre molle, che si fa da sempre significato della vita e della morte, legati da un confine sottile. Ne colsi uno e chiusi gli occhi per riposare dentro un ricordo che lei, un giorno, mi affidò. Uno di quei ricordi che permettono, anche solo per pochi istanti, di poter fuggire da una sorte decisa ma non scelta. Entrai di nuovo in quella storia dove si racconta di un regno che, quando non c’è, bisogna inventarlo. Il regno delle fate e della magia, tanto illusorio quanto necessario. Un luogo in cui ogni difficoltà viene superata, scomparendo per sempre. Lei me ne parlava quando ricordava i giorni dell’infanzia trascorsi nei campi, lenti e prevedibili. Giorni in cui ogni crudeltà era racchiusa in una bellezza. La natura è da sempre stata un riparo che si fa salvezza. Si sorprendeva spesso a guardare la Maiella, chiedendosi cosa ci fosse oltre quella montagna che per lei rappresentava la fine del mondo. Un confine tra il possibile e lo straordinario, oltre il quale poter immaginare tutto l’immaginabile. In quei momenti, le sembrava di giocare un gioco proibito, dove il non farsi bastare la miseria le appariva quasi come un peccato. I peccati vanno consumati in solitudine, per goderne davvero. Ma, a volte, se confessati consentono un piacere maggiore. È quello che provò, in un pomeriggio di primavera, una sua compagna di giochi nel rivelarle un segreto, mentre le rivolgeva uno strano sorriso che le si insediò per sempre nel cuore. Le confidò che, di notte, si lasciava condurre dalle fate attraverso i campi che, fino ad allora, non le erano sembrati mai così belli. Ogni volta assisteva ad un prodigio che apriva un varco segreto nel suo piccolo mondo, dove non aveva mai conosciuto la grazia di un volo. Le fate la facevano galoppare su cavalli dalle lunghe criniere intrecciate con nastri colorati, le permettevano di indossare abiti nuovi e scarpe lucide, mentre le offrivano bambole di porcellana e tazze di cioccolata. Ogni appuntamento terminava con un ballo su grandi prati profumati, illuminati dalle lucciole. Catturarne una equivaleva a poter esaudire un desiderio. Le danze duravano fino all’alba, quando i fiori erano stati ormai calpestati ed era tempo di tornare a casa. Non era un mistero che i contadini, al loro risveglio, potessero trovare nelle stalle i cavalli sudati e con le criniere intrecciate. In alcune mattine, sulle siepi di alloro selvatico, erano solite apparire tracce dei passaggi delle fate, che solo le contadine più esperte sapevano riconoscere. Lei mi disse che quel pomeriggio fu l’ultima volta che vide la sua piccola amica perché, pochi giorni dopo, partì per l’America insieme alla famiglia e non tornò mai più. Aggiunse anche che fu impreparata a quell’abbandono asciutto, perché pensava che alcuni legami potessero durare per sempre e non scomparire in qualcosa che, per lei, era poco più di niente. Quella bambina le aveva portato via il sogno, lasciandole solo l’attesa. Allo scorrere di alcune stagioni, comprese che non era il sogno ad essere fuggito ma la sua fiducia a volerci credere ancora. Sentì dentro di sé il perdono quando riuscì a percepire il profumo che si era sprigionato dai fiori calpestati da quei misteriosi passi di danza e l’antica frattura divenne il luogo di un rinnovato incontro. Da quel momento, sognò dentro a brani di canzoni e musiche da ballo. Imparò a danzare molto bene e a conoscere la grazia di un volo. La incontrai anch’io quella grazia, quando cominciai a rifugiarmi nei libri e nelle poesie o in tutto ciò che l’illusione sa rendere in un abbraccio, che si fa coraggio e diviene esistenza. Ora so che la mia storia può diventare altre storie … voglio scrivere, ne ho bisogno, anche quando mi è difficile spiegare ciò che non ho capito ancora. E quando sentirò che un sogno fugge io continuerò a restare. Quel giorno d’autunno misi in tasca il mio melograno, ringraziandola le sorrisi e me ne andai.
Maria,
le fantasie di una mente sono tante e le puoi incontrare ovunque, anche in posti apparentemente strani. A me accade spesso in un luogo che strano lo è davvero o, quanto meno, insolito e difficile da spiegare. Uno spazio in cui s’imparano silenzi e parole che credevi di conoscere già, dove il tempo appare sospeso tra il possibile e il probabile.
In quel posto, che chiamano setting, le fantasie si traducono in altre forme e acquistano senso.
La conoscenza può essere illusione o rivelazione, e tanto altro ancora …
Cara amica, sentirai sempre la forza del mio abbraccio, in qualsiasi tempo, luogo e nome sceglierai di farmi abitare.
Abbi cura di te stessa, come io ne avrò di me.