di Hannelore Heuer
Estate 1964
Un Fiume
Un fiume scorre nel suo letto
Ed io a guardarlo mi metto
Ha appena piovuto
Il terreno è bagnato
Regna il silenzio ed il paese pare abbandonato.
C’è un sasso, che gli impedisce il passo
Ma il fiume non s’inquieta
Cammina calmo verso la sua meta.
Ritorna il sole, luccicante
Arriva un bimbo, bello e cantante
Getta nel fiume l’esca
Si siede, aspetta, pesca.
Appena ho visto il quadernetto un’emozione fortissima mi ha fatto aumentare il battito cardiaco. E’ stato trovato in un cassetto nella camera di mamma, mio fratello lo ha tenuto da parte, me lo ha porto con uno sguardo sornione e un leggero sorriso, come di complicità.
“Penso che ti appartenga”, mi ha detto.
Credevo che fosse andato perso, ma c’era da aspettarselo, mia madre non buttava mai niente e poi forse io glielo avevo dato in consegna. Ritrovarmelo tra le mani dopo 35 anni…che sorpresa!
Un linguaggio da “puer”, anzi da “puella” con tutta la freschezza di quel tempo. Avevo solo dodici anni, mi si sono bagnati gli occhi per la tenerezza.
Sempre alla ricerca della rima, ricordo che lasciavo scorrere la matita sul foglio, senza pensare, veniva tutto da sé. Poi andavo a leggere il mio capolavoro alla mamma che accoglieva la mia nuova poesia con grande entusiasmo, anche quando era banale o sciocca. Era sempre un motivo d’ incontro tra noi.
Leggendo “Un Fiume”, ho pensato alla mia professione.
In queste poche righe, ho trovato un’analogia straordinaria con il lavoro che mi sono scelta.
Il fiume, il suo percorso, l’ascolto della pioggia, del silenzio, l’abbandono, l’ostacolo del sasso, l’inquietudine, il cammino, la meta. Il ritorno del sole, la luce, il bambino ed infine la “pazienza” del paziente e dello psicanalista che “insieme” al suo paziente si siede, aspetta e ad ogni seduta pesca nell’immensità dell’anima sua e dell’altro.
Aggiungere altre parole non serve. Solo un paio di esempi presi da alcune sedute negli sprazzi di ricordi.
Dalla porta per arrivare al lettino si deve percorrere un breve corridoio. Nei primi colloqui il paziente è “vis à vis”. Alle mie spalle ho appeso un quadro che rappresenta una zona dell’antica Gerusalemme con persone vestite con tuniche bianche e turbanti. Non si vedono facce. C’è penombra.
Il paziente sul lettino, invece, ha davanti a sé un quadretto che rappresenta un prato con fiori rossi e gialli e in lontananza tre vele sul mare azzurro, con un cielo limpido, turchino, con qualche nuvoletta bianca. Il mio inconscio ha scelto, non a caso, questi due dipinti, piazzandoli simbolicamente in punti diversi delle pareti nello spazio analitico.
Sigfrido.
“Dottoressa, a casa ieri mi è venuta in mente una cosa. Pensavo che è da due anni che vengo qui due volte alla settimana, ma solo la volta scorsa mi sono accorto del quadro sulla parete di fronte al lettino. Come ho potuto non << vederlo >> per tutto questo tempo?” “Secondo lei che cosa può vedere adesso che prima non vedeva?”
“I colori…e le vele. Ho pensato che quando sarò guarito potrei essere come una di quelle vele, lasciarmi trasportare dal vento, verso nuovi orizzonti. Questo pensiero mi ha accompagnato in questi giorni e mi ha riempito di speranza.” Sospiro.
“Di cosa si sta liberando con questo sospiro?”
“Di un peso, mi sento più leggero.”
Ultima seduta di Sigfrido al momento del saluto prima di lasciarsi.
“Le ho portato un piccolo regalino, l’ho fatto io, rappresenta quello che mi sento di essere adesso.”
Ho aperto il pacchetto, che già intuivo cosa potesse contenere, dalla forma rettangolare piatta. Un quadretto con un gabbiano che vola, solo, in un cielo misto di colori, che rappresentano tutti i possibili aspetti della vita, dal chiaro allo scuro.
“Ecco, questo sono io adesso, dopo l’analisi. Adesso posso volare da solo.”
Lilly.
“Il problema è quel coso, come si chiama…?”
“???”
“Ma sì, quello che sta su”, indica col dito qualcosa verso il soffitto, “quella specie di macchina in cielo, che guarda giù e vede tutto…anche lei è in pericolo, sa? Deve stare attenta. Non un siluro…”
“Un satellite?”
“Ecco brava, il satellite.” Un sorriso le allarga il viso, si è sentita capita, è contenta.
“E poi le voci dei microfoni, ma lo sa che fino a poco tempo fa credevo che quelli nella televisione parlassero proprio solo a me? E’ da poco che ho capito che parlano a tutti. Le mie amiche mi dicono che sono fissata.
Eh, quante cose…! Vivo male con tutte queste cose intorno.” Pausa.
“Sa qual è l’unico momento della giornata in cui provo gioia?”
“???”
“È bellissimo. I piccioni della piazza mi riconoscono quando mi vedono arrivare e mi vengono incontro, sanno che porterò loro la <<pastina>>, sa, quella piccola piccola.” Fa un gesto col braccio e la mano aperta dall’alto verso il basso, mimando il volo dei piccioni dall’alto del cielo verso di lei, giù nella piazza. Gli occhi di Lilly si accendono, è tutta presa dalla descrizione sia verbale che gestuale di quello che lei vede e sente. Mi fa emozionare, percepisco in me la poesia che lei autrice e attrice, sul palcoscenico della piazza, può viversi per qualche momento.
“Per il resto della giornata sono come quelli lì dietro a lei.” Lilly si mette una mano sulla bocca e sugli occhi.
Non capisco subito a cosa si stia riferendo, poi mi viene in mente il quadro alle mie spalle.