Il silenzio delle parole e il rumore dell’acting out

di Elsa Maria Hein Alocco

immagine Alocco

 “Io vorrei avere la stessa capacità di accordare parole e pensieri, quello che mi passa per la testa e quello che scrivo. Vorrei riuscire a scrivere con la stessa corrispondenza perfetta che c’è fra una nota scritta e una nota suonata…

L’usignolo cinguetta fino allo sfinimento, per bucare la sua voce, sembra che cerchi un varco per sfondarla… è sbalorditivo che una bestiolina così piccola abbia una potenza di suono talmente voluminosa. A me questo non rallegra. Al contrario, mi fa pena. Almeno avesse una vocina più piccola, la potrebbe sopportare. L’usignolo è sbigottito da quello che gli esce dal becco quando spreme il suo minuscolo petto, una nuvola di voce enorme gli cade addosso quando si mette a cantare… L’usignolo si dispera per la sua voce stessa. Si spaventa della mostruosità che gli esce dal becco, pensa di liberarsi della sua voce buttandola fuori, non sa che quello zampillo sonoro non avrà mai fine. Non è come un vomito o una tosse, che prima o poi finiscono. Il corpo non riesce mai a svuotarsi della sua voce”. Scarpa (2008 pp.63-64)

In questo spazio propongo qualche mio pensiero che prende forma nella mia stanza d’analisi e nel mio lavoro di supervisione con gli allievi. Pazienti che parlano tanto, parole che fanno rumore nella mente e nel corpo dell’analista. Pazienti che non parlano, allievi che si angosciano per la mancanza di parole dei loro pazienti. A volte il silenzio è rumoroso, assorda. Pazienti che lamentano il non dire dei loro analisti. Cercare le parole, per l’analista, che contengano un’integrazione tra il proprio sentire ed i propri pensieri, in uno spazio e in un tempo, nell’hic et nunc, decidere se è il caso di dire oppure no, è un lavoro arduo. Per il paziente niente lascia supporre che sia più semplice parlare, dare significato, certo, il paziente è più libero se si tiene presente la regola fondamentale: la libertà di dire tutto quello che gli viene in mente.

Propongo il silenzio, in questo mio lavoro, come la mancanza di comunicazione verbale. Intendo per comunicazione la capacità di trovare parole che contengano un significato rispetto al sentire ed al pensare in quel momento. Parole che abbiano la funzione di dire, all’interno di se stessi e del rapporto analitico, qualcosa che attivi o mantenga attiva la dimensione processuale individuale e di rapporto.

Mi servirò di due tematiche fondamentali del discorso psicoanalitico che userò qui come cornice: l’acting out e il setting psicoanalitico.

L’acting out come sostituzione, “al posto di” la parola; il setting analitico come la totalità dei fenomeni compresi nella relazione terapeutica tra analista e paziente, sia nella sua dimensione di non processo (le costanti) sia nella sua dimensione processuale (le variabili).

 Acting out

E’ complesso il percorso che la teoria psicoanalitica compie intorno a questo concetto. L’acting out sia da parte del paziente che da parte dell’analista, ancora oggi, come in passato, viene spesso pensato come un attacco alla cura, un attacco al pensiero, un fenomeno molto disturbante all’interno della stanza analitica. Normalmente le riflessioni sul tema non sono libere da pregiudizi. Alla luce dell’esperienza, con pazienti psicotici o con aspetti psicotici della personalità, questa forma di comportamento occupa un posto centrale nella discussione: non viene più valutato solo dal punto di vista fenomenologico ma anche dal vertice metapsicologico. Si considera la possibilità di leggere questo comportamento collegato ad aspetti interni che non trovano rappresentabilità e quindi parola. Non possiamo considerarlo un registro di linguaggio poiché questo presuppone un livello di elaborazione rappresentativa. Possiamo invece considerarlo un modo che permette di ottenere un’informazione legata ad un movimento interno: tale movimento indica conflitti ed angosce che si depositano nella dimensione transferale e controtransferale. Questi elementi possono albergare in “quel luogo” in attesa di essere seppelliti per sempre o di trovare una strada per essere rappresentati, pensati e comunicati all’interno di se stessi e del rapporto. L’agito può contenere segnali di possibili registri di linguaggio, tra questi quello verbale nel tentativo di portare alla coscienza una particolare problematica, sicuramente carica di contenuti psichici arcaici.

Una delle definizioni di acting out da riportare in questo lavoro è quella di Bellak (1965) che lo propone come una formulazione somatica di un contenuto non verbale. Questa definizione, secondo altri autori, lascia indefinita la differenza tra atto impulsivo, sintomo e acting out. Certamente c’è un registro di linguaggio corporeo, basti ricordare i sintomi dell’isteria di conversione, che non può essere considerato acting out. E’ chiaro che nell’isteria c’è l’intenzione di comunicare attraverso una rappresentazione anche teatrale che sottende un’operazione psichica che assume quella forma di comunicazione: un modo di risolvere un conflitto e di difendersi dall’angoscia dove è riconoscibile un livello di rappresentabilità mentale.

Attraverso l’acting out non si comunica ma si informa. Su questo punto risulta molto utile riflettere: “Per quante discussioni si facciano sullo sviluppo precoce, siamo tutti d’accordo che in questa fase non esiste un linguaggio verbale articolato e che quindi non lo avremmo nemmeno quando il conflitto si riproduce nel transfert. Se le cose stanno cosi, pretendere che il paziente ci comunichi qualcosa che per definizione è inesprimibile sarebbe allo stesso tempo sciocco e crudele. Perciò, per operare come analisti, dovremmo comprendere questo tipo di messaggio e restituirlo in qualche modo al paziente, sapendo che egli sta segnalando qualcosa nell’unico e perciò nel miglior modo possibile”. (Etchegoyen, 1990, p. 813).

Questa proposta segna una valida differenziazione con quell’agito che ha la funzione di rendere impossibile il lavoro analitico. In questo caso, l’acting out è un modo a cui si fa ricorso che va dal pensiero all’atto, dalla parola al non pensiero, rappresenta un tentativo di mantenere psichicamente l’onnipotenza narcisistica ovvero ha la funzione di rinforzare la struttura difensiva.

In questo lavoro mi interessa sottolineare la finalità dell’acting out che spinge ad un’operazione di ritrovamento di corrispondenze significative per rendere possibile la comunicazione, elementi che solo attraverso il comportamento spingono la mente a trovare un significato, operazione che è o può essere al servizio dell’integrazione dell’Io.

Partendo da Fenichel, molti autori, hanno messo in rilievo la partecipazione dell’analista all’acting out dal momento che si tratta di un comportamento carente di parola che si inserisce nel transfert e nel controtransfert. A volte l’oggetto contenitore di questi aspetti molto primitivi è rappresentato dal corpo. L’acting out si può paragonare al pianto del neonato, carente di possibilità rappresentativa. Il pianto sentito soprattutto sensorialmente stimola la mente dell’adulto che l’accoglie ed è attraverso la lettura delle proprie sensazioni che si può dare significato a quello che sta accadendo nel neonato: mi riferisco alla funzione di revérie. Sottolineando la peculiarità di questo fenomeno Zac. J.(1968) propone che l’acting out inocula un contenuto nel recettore. Proporrò in questo lavoro, attraverso materiale clinico, come il recettore può essere il corpo dell’analista.

Per concludere questa riflessione riprendo una proposta di Grinberg (1956) il quale, evidentemente, tiene presente la teoria di Bion rispetto allo sviluppo del pensiero: egli considera l’acting out costruito come un sogno in quanto certi elementi della realtà psichica rimangono a livello di processo primario e quindi l’acting out è come un sogno drammatizzato e agito durante la veglia, un sogno che non è stato possibile sognare.

Setting

La situazione analitica comprende tutti i fenomeni che attraversano la relazione terapeutica tra analista e paziente. In essa esiste una dimensione processuale e un’altra che deve rimanere costante per poter stimolare e studiare il processo nella sua evoluzione.

Le regole che fanno diventare costanti gli aspetti che nelle relazioni comuni sono variabili (fondamentalmente tempo ed spazio), vengono concordate attraverso il contratto analitico che si fissa dopo i colloqui di consultazione. Il setting può essere considerato il “non processo” del percorso analitico quale condizione fondamentale per osservare l’aspetto processuale.

Bleger (1966, p. 160) propone uno studio molto approfondito delle vicissitudini che il setting in un percorso analitico può presentare. L’autore propone: “Quello che mi interessa esaminare è la psicoanalisi del setting psicoanalitico. Esiste una letteratura importante sulla necessità del suo mantenimento e sulla rottura o distorsioni che accadono nel corso di qualsiasi analisi, dall’esagerata osservanza ossessiva, l’ acting out o alla disgregazione psicotica. (…) Certo è che, a volte in forma permanente e a volte in forma occasionale, il setting si trasforma da sfondo di una gestalt in figura, cioè in processo”.

In questo lavoro Bleger si occupa soprattutto del “setting muto” e cioè di quella situazione dove il setting si mantiene invariabile prendendo la forma e la funzione di un’istituzione. Paragona questo fenomeno al contesto in cui si sviluppa la relazione madre-bambino nel suo momento simbiotico dove l’individuazione è molto scarsa, ma questo momento è condizione indispensabile per avviare il percorso che la permette.

Da questo punto di vista si può affermare che esistono, nella relazione analitica, due setting per il paziente: quello proposto dall’analista e consciamente accettato attraverso il contratto analitico e quello che rinchiude un “mondo fantasma” e che contiene le proiezioni dell’analizzando. Questi due aspetti sono validi anche per l’analista. La differenza, per l’analista, è che questo mondo perde il suo aspetto “fantasma” e diventa oggetto pensabile grazie all’autoconoscenza acquisita nella propria analisi personale e allo studio della tecnica e delle teorie psicoanalitiche.

Il “mondo fantasma”, propone sempre Bleger, esiste racchiuso nel setting e viene alla luce in parte o totalmente solo quando questo varia o si rompe. “Le variazioni del setting mettono in crisi il rapporto fusionale e problematizza l’Io ed “obbligano” a una rielaborazione sul fronte dell’integrazione attraverso una reintroiezione degli aspetti proiettati o alla riattivazione delle difese per immobilizzare aspetti non integrabili della personalità, in quel momento.”. (Bleger, 1967, p. 253). Zac (1968) afferma che il setting si rompe attraverso l’acting out.

Effettivamente qualsiasi variazione del setting fa improvvisamente emergere un senso di separatezza tra i due membri della relazione analitica.

Il setting spesso “parla” attraverso la sua variabilità, separazioni stabilite, piccoli ritardi dovuti alla vita quotidiana. A volte il setting “urla” quando viene colpito dall’ acting out di uno dei membri del rapporto. Il setting, quello esterno, è accordato e deve essere in ogni caso ristabilito, ma il “dire” o “l’urlare” deve essere analizzato e quindi considerato parte del processo e cioè contenuto analitico. Le “crepe” che si creano con la rottura del setting permettono il passaggio alla dimensione processuale di contenuti che rischiano di rimanere muti se l’azione dei due membri del rapporto coincide solo nel ristabilire immediatamente le regole.

Caso Clinico

Il rumore che esce dalle cose è come il loro scopo, è la loro volontà che li oltrepassa e li rende più grandi, si espande nell’area”. Scarpa (2008, p.53).

Il materiale clinico presentato corrisponde al 4° mese d’analisi con tre sedute settimanali.

Il paziente è spinto dai familiari verso un trattamento poiché non esce più di casa e si sente “immobilizzato” dai suoi “pensieri” contraddittori.

Dalla prima seduta (non succedeva durante i colloqui) il paziente suona il campanello in anticipo di venti o trenta minuti. A volte trova chi apre e a volte no. Se riesce ad entrare nella sala d’aspetto si siede e lascia la porta aperta, altrimenti rimane fuori ad aspettare accanto al portone.

L’analista si sente braccata nei suoi movimenti, la sua pausa tra il paziente precedente e lui sembra essersi annullata, non solo nella sua mente.

E’ molto evidente che attraverso questi movimenti del setting esterno ma soprattutto interno all’analista, inizia a configurarsi un discorso che non trova ancora pensabilità e quindi parola.

L’acting out arriva prima del pensiero ed in questo caso è l’analista che drammatizza con il suo comportamento una problematica presente nella sua mente e soprattutto nel suo corpo e nella sua emotività.

Il paziente è in sala d’attesa, l’analista pensa che può andare con tranquillità fuori dallo studio durante la pausa e si dice : “lui è chiuso lì”. Si rende consapevole di un suo rifiuto. Torna e pensa che oggi è arrivato tanto tempo in anticipo poiché mancano ancora 15 minuti alla seduta. Va in stanza e solo “all’ora pattuita” invita il paziente ad entrare. Osserva il paziente, sembra imbarazzato ma si sdraia mentre l’analista si sente molto confusa e disturbata, più che in altre sedute, dall’intenso e sgradevole odore (sensazione che l’accompagna dai colloqui iniziali) che invade la stanza analitica. Dopo 10 minuti di seduta mentre tenta di capire cosa sta accadendo sul fronte del proprio mondo interno, si rende conto che ha rotto il setting poiché ha iniziato la seduta quindici minuti dopo l’orario. Rimane molto colpita, lo stato confusionale si attenua di fronte al problema di decidere cosa fare sul fronte del setting esterno. Decide di “non dire” e di finire la seduta rispettando l’orario (la seduta è ridotta quindi a 30 minuti). La scelta di “non dire” poggia sulla consapevolezza di non poter tradurre il significato degli accadimenti in parole che costituiscano una proposta analitica comprensibile ed utile al paziente. Era venerdì, ultima seduta della settimana.

Lunedì:

Pz: Beh sono arrivato 15′ prima, pensavo che era alle 16 il nostro appuntamento… mi sdraio?

An: Si chiede se tutto è come sempre? É preoccupato?

Pz: Mi sento confuso, tutto il fine settimana sono stato confuso…

Si sdraia mentre l’analista pensa che è un buon inizio se il paziente si sente confuso e se riuscisse a parlare della sua confusione.

An: Penso che intorno all’orario delle nostre sedute stia accadendo qualcosa che bisogna comprendere e dare il tempo per permettere che ciò accada.

Con i 15 minuti d’anticipo il paziente sembra dire “dammi indietro quello che mi hai tolto”, l’analista concorda con la percezione sul fronte del tempo tolto ma propone il problema all’interno del rapporto analitico.

É da sottolineare che per la prima volta il paziente parla di uno stato psichico confusionale.

Pz: Il tempo… non so cosa dire…

L’analista sente pesantemente l’odore sgradevole, molto disturbante. Il dato sensoriale spinge a pensare ad un contenitore troppo saturo che impedisce di distinguere perfino gli odori in esso contenuti. La propria sensorialità segnala il punto d’urgenza. Chiede scusa e apre la finestra, si rende conto che sta aprendo lo spazio fisico. Per poter pensare lo spazio mentale deve essere meno tossico e più libero dalla sensorialità.

L’analista associa il dato sensoriale all’acting out del venerdì: la mancanza di distanza si rende evidente come un aspetto della relazione. L’ “odore” fa diventare tutta la stanza analitica, compresa la coppia, un “involucro” chiuso dove la funzione discriminatoria fondamentale del pensiero è fortemente impedita.

L’analista comprende che non può proporre niente di significativo che possa rappresentare ciò che sente e che sia utile al paziente. Il rifiuto è chiaro, ma di cosa? Il senso di rifiuto è qualcosa che appartiene ad aspetti propri, il “perturbante”, citando Freud? O questa sensazione potrebbe essere condivisa con il paziente?. Nella mente dell’analista è chiaro solo che il suo proporre con le parole, in quel momento, sarebbe molto riduttivo rispetto a quello che sta accadendo dentro di sé in relazione al paziente. Il silenzio delle proprie parole allora è l’unica autoproposta che l’analista riesce a rappresentarsi come adeguata.

Il paziente, in silenzio come l’analista, dopo pochi minuti parla:

Pz: Adesso mi ricordo un sogno: stavo in un grande locale e c’era un’entità che io conosco perché è apparsa in altri sogni… un maschio, cucinava la cena per noi, diceva, ma in quel locale c’era una puzza insopportabile!!!! Ha piedi sporchi, capelli sporchi, il sesso… era una schifezza. Me ne vado perché dico che io li non mangio niente con quella puzza… Vado in un locale accanto, non conosco nessuno e allora torno. C’era una donna e sempre l’uomo che cucinava e adesso apparecchiava. Ero molto sorpreso perché prima non avevo visto la donna, mora, ed anche perché la puzza non c’era più. Mi rendo conto che l’ uomo preparava qualcosa di positivo: voleva un incontro tra di noi. Allora io dicevo alla donna che ero arrabbiato perché mi aveva tradito, si era allontanata, io la volevo lasciare ma lei piangeva perché voleva me e allora abbiamo fatto pace. Poi cambia e mi trovo con una donna bionda, siamo una coppia, la presento a mia madre e a mia sorella… no, mio padre non c’era.

An: Cosa pensa di questo sogno?

Pz: Non capisco niente, solo questa puzza ma poi era buono quest’uomo!

Non lo so ma quello cucinava, faceva qualcosa di positivo e la donna, quella mora, ho pensato che fosse lei…

Il paziente sogna la “puzza”, sogna se stesso invaso dal dato sensoriale e lo relaziona con il maschile, con un modo del maschile di proporsi all’interno del rapporto con una donna, forse un modo che provoca l’allontanamento della donna/analista ma anche di sé stesso. Ha bisogno di “fare pace”, di trovare un’armonia: la “puzza” non c’è più in presenza della discriminazione e del conformarsi di una rappresentazione netta di individuazione.

L’analista rimane in silenzio e ricorda il dire del paziente durante la consultazione: “Io non ho bisogno di un’analista ma di una donna”.

Attraverso il sogno si può formulare un’ipotesi sugli aspetti psichici che si fanno presente nel rapporto analitico attraverso la sensorialità dell’analista e l’acting out di entrambi i membri della relazione. In questo momento del percorso analitico è sostanziale sottolineare l’evoluzione sul fronte della capacità di simboleggiare e rappresentare, privilegiando questo aspetto rispetto all’interpretazione del contenuto del sogno.

Il paziente porta con sé un modello di relazione con il femminile materno appartenente ad un area psichica molto primitiva. Lo drammatizza, lo “dice” invadendo, con la sua presenza fisica e concreta, lo spazio dell’analista, circondandola fuori dalla stanza d’analisi e sommergendola del suo odore all’interno della stanza. Questo trova una risposta da parte dell’analista attraverso l’acting out che colpisce il setting. L’intolleranza fisica verso la richiesta inconscia del paziente potrebbe corrispondere ad un limite dell’analista ma anche del paziente: si può ipotizzare che egli non tollera questa modalità ma è l’unico modello che possiede e lo propone come condizione dell’incontro e passaggio necessario per poter riprendere il processo d’integrazione della propria individualità.

L’acting si può rappresentare come un tentativo estremo e non pensato da parte dell’analista di dare questa informazione: “siamo in due, io ho bisogno del mio spazio, ho bisogno di distanza per poter svolgere la mia funzione, non siamo fusi”; ed anche come il rifiuto del paziente di questo tipo di rapporto proiettato nell’analista. Evidentemente il paziente si è sentito tradito nel suo bisogno di fusionalità producendo una rottura che ha permesso un contatto con se stesso e ha trovato nel registro onirico un modo significativo di comunicare all’interno di se e con l’analista.

Si può ipotizzare che il comportamento dell’analista ed il suo silenzio abbia disturbato la modalità fusionale del rapporto segnalando un senso di separatezza e permettendo un accenno di individuazione.

Dal punto di vista tecnico si può ipotizzare che l’assenza di interventi verbali dell’analista e del paziente, ad acting out avvenuto, abbia creato in quest’ultimo uno spazio mentale che ha permesso la formazione del sogno sul tema che domina la situazione analitica e che si fa presente attraverso l’agito. Questi contenuti si sono inseriti nella dimensione processuale e il setting esterno ha potuto riprendere la sua funzione nell’aderenza all’orario convenuto.

Da parte dell’analista possiamo segnalare una grande attenzione al non detto di entrambi i membri la coppia analitica che spesso si manifesta attraverso la sensorialità. Il silenzio che osserva l’analista ha la funzione di creare spazio mentale, all’interno di sé e nel rapporto. E’ molto importante segnalare la funzione sul fronte del contenimento della frustrazione, non cercando risposte immediate o interpretando ad ogni costo per uscire dal silenzio. Queste operazioni hanno la funzione di insabbiare il senso dell’acting out poiché esso è troppo rumoroso e percepito come pericoloso per il setting interno dell’analista, costruito in anni di formazione, dove la neutralità del proprio muoversi è un parametro spesso troppo imperativo.

Fenomeni come questo si possono evidenziare in certi momenti di ogni percorso analitico e normalmente in presenza di punti cruciali. Soltanto quando l’analista o l’analizzando riescono a rintracciare il significato è possibile chiarire il panorama psichico che il paziente sta presentando in quel momento, permettendo il ritorno ad un dialogo fluido all’interno di ognuno con il rispettivo arricchimento della dimensione processuale del percorso.

“ Non bisogna lasciare che le cose accadano soltanto dentro di noi. Dobbiamo aiutarle a venire al mondo meglio che possiamo, ripensarle, riscriverle, suonarle diversamente (…) Quante cose sento in me che non riconosco perché non so come chiamarle! E quante cose non saprei sentire se non ne possedessi il nome”. Scarpa (2008 pp.110 e 114).

 

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