Il marchio di Caino

di Pierluigi Franceschini

 immagine Franceschini

 Invidia deriva dal verbo latino invidere (da cui il derivato invidiare), ovvero “guardare (videre) con sguardo bieco” (in– con senso negativo) con i suoi derivati aggettivali invidu(m) e invidiosu(m). In greco viene utilizzato il termine phthonos che nella visione del Nuovo Testamento assume il significato di vita non redenta. In ebraico il termine che designa l’invidia è qin’ah, cioè cottura, riscaldamento, in quanto ricorda il rossore del viso di colui che prova dispiacere perché gli altri hanno ciò che egli desidera. L’Invidia fa la sua comparsa nel mondo con il gesto fratricida di Caino che uccide suo fratello Abele che, come l’etimo del suo nome ci ricorda, è già consegnato alla transitorietà, cioè alla morte (in ebraico, Hebel significa “soffio“, “vapore“; mentre in greco, Abel significa “vanità”, nell’accezione di ciò che è “transitorio”). Caino uccide suo fratello Abele, perché Dio aveva guardato con favore Abele e la sua offerta invece di Caino e la sua offerta; quindi Caino viene scacciato, ma, come atto di grazia, Dio mette un segno su di lui affinché nessuno lo uccida (Gen 4:3-15,24-25). Successivamente Caino è costretto a vagabondare nel paese di Nod (in ebraico: “terra di vagabondaggio”): l’omicidio lo ha condotto lontano da Dio.

 

Come mai il racconto biblico pone come atto costitutivo dell’esistenza umana un fratricidio nato dall’invidia? Ma soprattutto perché Dio evita che Caino venga ucciso?

Sappiamo che l’Invidia viene inserita nella lista dei Sette Vizi Capitali, confinandola nel Regno del Male e attribuendogli un significato negativo, soltanto nel XVII secolo, grazie a Gregorio Magno, pur comparendo nelle Sacre Scritture dove viene descritta come un sentimento negativo. Infatti nel secondo capitolo del Libro della Sapienza, al versetto 24, si dice che è per l’Invidia del Diavolo che la morte è entrata nel mondo. Il testo antico collega dunque il limite dell’umanità a un peccato di invidia: Satana è l’invidioso per eccellenza. Ma sappiamo altrettanto bene che la dis-giunzione tra ciò che vale e ciò che non vale trova la sua nascita nella fondazione metafisica dei valori che Platone rintraccia nel tò Agathòn (il Bene) e colloca nell’Iperuranio. Riflettendo attraverso questa logica, l’intera cosmogonia e Weltanschauung (Visione del mondo) si modificano radicalmente, determinando la scissione metafisica tra cielo e terra, tra psiche e soma, tra bene e male, tra anima e corpo, tra spirito e materia, dove il valore sta tutto da una parte e il dis-valore dall’altra. La stessa tradizione biblico-semitica propone dunque un dualismo cosmico che contrappone la vita alla morte, il bene al male, lo spirito alla carne, il peccato alla redenzione. Ma se nella riflessione biblica l’Invidia viene intesa nella sua accezione negativa seguendo la logica dualistica di bene e male, che senso ha l’Invidia per la Psiche?

Per gli scrittori dell’antica Grecia il sentimento dell’Invidia viene colto soltanto attraverso una prospettiva moralista che induce sia Esiodo nelle Opere sia Plutarco, quando cita nello scritto La tranquillità dell’animo un verso delle Opere di Esiodo, sia Aristofane, nelle Vespe, a condannare il sentimento umano dell’Invidia.

Per Aristotele l’Invidia è per sua natura cattiva (Aristotele, 1965), mentre Dione di Prusa, il filosofo cinico-stoico, nella sua opera Sull’Invidia (perì phthonos) del 78 d.C., definisce l’Invidia attraverso un esempio: “Se ad un vasaio conviene che nella stessa città e villaggio non lavori un altro vasaio, ciò non sarebbe conveniente anche per un macellaio? Egli potrebbe così vendere a coloro che ne hanno bisogno qualsiasi tipo di carne egli abbia, anche una bestia da macello minuta o vecchia” (Desideri, 1978, p. 537). Per Dione insomma coloro che esercitano la medesima professione si invidiano; non diversamente si esprime Platone quando fa dichiarare a Socrate di aver udito qualcuno dire che il simile è ostile al simile e gli uomini buoni agli uomini buoni.

Nella speculazione filosofica moderna l’Invidia viene equiparata all’odio, come nel caso di Spinoza, oppure al dolore, come nel caso di Hobbes.

Cartesio ne descrive con precisione i segni diagnostici, sottolineando come in latino l’Invidia è propriamente detta livor, che significa colore plumbeo, “una mistura di giallo e nero simile a sangue coagulato”.

Nietzsche ne parla in Genealogia della Morale attraverso il sentimento di ressentiment, cioè di risentimento, di segreta invidia, che la classe dei Sacerdoti prova nei confronti della aristocrazia cavalleresca: la casta Sacerdotale, non potendo ottenere ciò che appartiene alla casta dei signori, crea una tavola di valori antitetica a quella dei signori (Nietzsche, 1984).  Max Scheler, nei primi decenni del Novecento, sottolinea la differenza tra invidia e gelosia: la prima è una specie di risentimento verso qualcosa che qualcuno ha ma che non mi appartiene, la gelosia invece è la paura che qualcuno mi porti via   ciò che  già ho.

Dante colloca gli invidiosi nel secondo girone del Purgatorio e li descrive come uomini coperti di cilicio che avanzano sorreggendosi gli uni agli altri per via delle palpebre cucite con filo di ferro (Dante, 1990).

Non diversamente si esprime la psicologia quando Freud sostiene che la bambina, sotto il complesso di evirazione, prova la cosiddetta invidia del pene, cioè desidera ciò che non gli appartiene: il pene. Notando la differenza anatomica rispetto all’altro sesso la bambina si sente deprivata, gravemente danneggiata, ritenendo la madre responsabile della sua mancanza, in quanto anche lei non possiede il pene. È proprio l’invidia del pene, generata dal complesso di evirazione, che determina il passaggio dalla fase dell’attaccamento preedipico, dove la bambina rivolge il suo attaccamento nei confronti della madre, alla fase edipica dove il padre diventa l’oggetto amoroso della bambina (Freud, 1978).

Secondo il pensiero kleiniano l’invidia trova la sua origine nella pulsione di morte: non potendo possedere le caratteristiche ambite dell’oggetto, il bambino ne desidera la distruzione. L’invidia, afferma la Klein, è un’energia distruttiva la cui quantità è biologicamente determinata. Nella fase schizoparanoide il seno è ritenuto onnipotentemente buono (gratificazione) ma anche onnipotentemente malvagio (frustrazione). Quando l’oggetto nutre e sostiene i bisogni del bambino, il bambino prova gratitudine, quando invece si nega scatena il sentimento dell’invidia. L’armonizzazione dei due sentimenti è alla base di un Io integrato e stabile (Klein, 1969) .

Insomma sembrerebbe che l’Invidia sia universalmente connotata da un sentimento distruttivo nei confronti dell’altro perché possiede ciò che noi non abbiamo e desideriamo. Ma allora perché la Psiche presenta uno dei suoi infiniti volti attraverso l’immagine dell’Invidia? Che cosa vuole l’immagine dell’Invidia? Ma soprattutto in che relazione si trova l’Invidia con lo sguardo bieco, con Caino, con la cottura e il rossore, con l’odio, con il dolore, con la distruzione, con l’ostilità del simile per il simile, con il risentimento, con il livore e il sangue coagulato, con il cilicio e le palpebre cucite con filo di ferro?

Secondo il mio parere i sentimenti e le immagini che vengono utilizzate per spiegare l’Invidia sono il frutto della letteralizzazione: l’Invidia è sempre stata interpretata e vissuta attraverso una versione letteralizzata e non metaforica. Non ci siamo mai posti la domanda “ma che cosa vuole l’Invidia e verso cosa tende?”. L’Invidia ha subito la stessa sorte della Paranoia così come è stata analizzata da Freud: ha subito una doppia letteralizzazione. Come ci ricorda Hillman nella Vana fuga dagli Dei, quando il desiderio è letterale, allora la vittoria su quel desiderio è a sua volta letterale. Difatti, nell’abbinamento materiale-formale, quando uno dei due è letteralizzato, l’altro segue il suo esempio. Per Freud dietro ad ogni delirio si cela un desiderio omoerotico (io, un uomo, amo lui, un uomo), che rappresenta la causa materiale, e tale desiderio viene nascosto attraverso una negazione formale, cioè il delirio. È chiaro, sostiene Hillman, che se io prendo alla lettera il significato del desiderio inevitabilmente sarò portato a letteralizzare anche la sua negazione formale (Hillman, 1991). Se io desidero letteralmente ciò che possiede l’altro, anche la mia negazione sarà letterale: voglio distruggere letteralmente l’altro. Come uscirne? “La liberazione sia dal materialismo del desiderio sia dal formalismo della negazione – afferma Hillman – ha bisogno di quella zona intermedia che è il poetico, il metaforico, l’umoristico, l’ingannevole, l’immaginale, l’incompleto, di quella luna dove non esistono generi, dove la coscienza non è né questo né quello” (Hillman, 1991, p. 48-49). L’Invidia in realtà non desidera ciò che non possiede e che vorrebbe avere, ma ricerca un nuovo modo e un nuovo senso di godere ciò che possiede. L’Invidia è il monito dell’Anima che ci esorta a ritrovare la bellezza di ciò che siamo. È la richiesta di ritrovare Eros in ogni immaginario. L’Invidia fa la sua comparsa nel palcoscenico immaginifico della nostra Anima ogni volta che abbiamo perso il senso della nostra esistenza. Ecco allora che è possibile comprendere l’odio e il dolore, come i due volti della letteralizzazione dell’Invidia; lo stesso rossore, a cui fa riferimento il termine ebraico qin’ah, testimonia emblematicamente la mancata cottura da parte di Psiche. Se, come ci ricorda Hillman nella sua opera Le storie che curano, la terapia deve avere il crudo per cuocere (Hillman, 1984), allora il rossore è il sintomo evidente di una mancata elaborazione psichica. Non diversamente è possibile comprendere la similitudine cartesiana del livore con il sangue coagulato: il sangue coagulato rappresenta un meccanismo di difesa che, se è essenziale per l’organismo, certamente non lo è per l’Anima. La coagulazione del sangue mostra la nostra volontà distruttiva nel non voler seguire un processo trasformativo richiestoci da Psiche. Allo stesso modo l’immagine dantesca delle palpebre cucite con filo di ferro, più che indicare la logica conseguenza della legge del contrappasso, è un evidente richiamo dell’Anima ad entrare nella casa di Psiche. Per far ingresso nella dimora di Psiche occorre percepire oltre l’immediatamente percepibile: occorre ricevere dagli dei il dono della cecità in cambio dell’”epopteia”, cioè della “vista superiore”.

Ecco allora che lo stesso termine Invidia indica il movimento riflessivo della Psiche che trasforma, e non distrugge, gli eventi in esperienza. Il prefisso “in” di Invidia perde la sua accezione negativa di “contro”, e trova nuove sfumature di senso. Lo stesso Hillman, nel suo ultimo lavoro pubblicato nella rivista Anima (L’Arte di comprendere), scrive un articolo intitolato “In”, definendolo la parola dell’Anima, il luogo dove si nasconde la vera persona, il me interiore, la posizione privilegiata dei valori dell’Anima (Hillman, 2007). Allora molto probabilmente il gesto fratricida di Caino diventa un simbolo di trasformazione che necessita dell’intervento di Dio affinché non venga preso nel suo significato letterale e quindi eliminato. Il rischio che si corre è che, tra questi giochi letteralizzanti, Caino e il suo sentimento di Invidia restino confinati nel paese di Nod, cioè nella terra del vagabondaggio.

 

BIBLIOGRAFIA

Aristofane, Le Vespe. Gli Uccelli, Milano: Garzanti, 1990.

Aristotele, Grande etica, Etica eudemia, Bari: Laterza, 1965.

AA.VV., La Bibbia, Milano: San Paolo Edizioni, 1995.

Dante A., La Divina Commedia. Purgatorio, Torino: S.E.I., 1990.

Descartes R., Opere filosofiche, Bari: Laterza, 1967.

Desideri P. (1978), Dione di Prusa: un intellettuale greco nell’impero romano, Messina: D’Anna.

Esiodo, Opere, Torino: Einaudi, 1998.

Freud S., Introduzione alla psicoanalisi, Torino: Bollati Boringhieri, 1978.

Hillman J. (2007), “In”, Anima, L’Arte di comprendere, 21: 109-120.

Hillman J. (1991), La vana fuga dagli Dei, Milano: Adelphi.

Hillman J. (1984), Le storie che curano, Firenze: Raffaello Cortina Editore.

Hobbes T., Leviatano, Roma-Bari: Laterza, 1989.

Klein M. (1969), Invidia e gratitudine, Firenze: Martinelli.

Nietzsche F. , Genealogia della Morale, Milano: Adelphi, 1984.

Plutarco, La serenità d’animo, Milano: Archinto, 2004.

Spinoza B., Ethica, Firenze: Neri Pozza, 2006

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