di Sergio De Risio e Chiara Cuomo
Esistono, nel campo dei numerosi e spesso interessanti tentativi di trovare un terreno su cui fondare il principio dell’Etica, due prospettive apparentemente quasi incompatibili, che in realtà presentano spunti dai quali poter sperare una “convergenza” mirata, operazione che le trasforma entrambe ed il cui risultato potrebbe a sua volta costituire quel terreno di fondazione che stiamo cercando.
Le definiamo, per ragioni che saranno subito evidenti, prospettiva di una caduta libera dell’Etica dall’alto, e prospettiva di una crescita lenta dell’Etica dal basso, indicando come vertici di riferimento per la prima il nome di K.O. Apel e per la seconda quello di D. Dennett.
La sostanza dell’indirizzo seguito da Apel consiste in una ripresa dei temi della filosofia della ragione pratica di Kant, ripresa che è una cruciale rotazione dei medesimi, nel senso di una loro attualizzazione a misura delle esigenze del vivere contemporaneo, operata intorno all’asse di un preciso sapere atropo-psicologico-linguistico, che nel novecento si è andato accumulando e consolidando. La ripresa Kantiana di Apel consegue il tal modo un risultato di assoluta originalità, definito nei termini di etica discorsiva. Kant, già a partire dalla “Fondazione della Metafisica dei Costumi” aveva disegnato la cornice di riferimento per una disciplina materiale, l’etica appunto, la dottrina dei costumi, intesa come “scienza della libertà” (I. Kant, Fondazione della Metafisica dei Costumi, Prefazione, BA IV).
All’interno di questa cornice aveva enucleato il famosissimo “imperativo categorico” formulato così:
“Agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale della natura” (I. Kant, Fondazione della Metafisica dei Costumi, BA 52).
Più oltre, in BA 79 e BA 80, aveva dispiegato tre modi “per rappresentare il principio della moralità” come “altrettante formule della medesima legge”. Le tre formule, o forme della stesa legge, adattate però per “avvicinare un’idea della ragione all’intuizione (secondo una certa analogia) e perciò al sentimento”, esprimono che “tutte le massime hanno:
1. Una forma, consistente nella universalità;
2. Una materia, ossia un fine, per cui la formula dice: l’essere ragionevole, che è fine per sua propria natura, quindi fine in se stesso, deve volere per ogni massima come condizione limitatrice di tutti i fini puramente relativi ed arbitrari;
3. Una determinazione completa per mezzo di questa formula: tutte le massime derivanti dalla legislazione che noi stesi istituiamo devono concordare con un possibile regno dei fini come con un regno della natura”.
Accostando un po’ più decisamente l’attenzione alla seconda formula (e sempre tenendo ben presente che essa è seconda di tre formule, che sono comunque forme di una medesima legge) è possibile notare il rilievo che Kant attribuisce all’elemento razionale, che anche costituisce, a nostro avviso, l’elemento di una continuità naturale, con la “postazione di fondo” costituita dalla Critica della Ragion Pura. Il capitolo II della Critica della Ragion Pratica, intitolato per l’appunto “Del concetto di un oggetto della Ragion Pura Pratica”, presenta infatti l’esordio che segue:
“Per un concetto della ragion pratica intendo la rappresentazione di un oggetto come di un effetto possibile della libertà… Il bene ed il male sono i soli oggetti di una ragion pratica. Difatti col primo si intende un oggetto necessario della facoltà di desiderare e col secondo un oggetto necessario della facoltà di aborrire, ma l’uno e l’altro secondo un principio della ragione”. Questo principio, questa legge fondamentale della ragion pura pratica, Kant l’aveva già presentato nel paragrafo 7 ricordando che dice: “Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale”, e, trattandolo teorematicamente, l’aveva dotato del seguente “corollario”: “La ragion pura è per sé sola pratica e dà (all’uomo) una legge universale che chiamiamo legge morale”. In sostanza ben si intende, credo, che ciò che Kant presenta è una specie di “voce interiore”. Una voce che dalla Ragion Pura si leva ogni volta che nel reale incontra il bene/male (gut/böse) e le fa dire rivolgendosi alla Volontà: non voler niente, sotto la mia direzione (cioè sotto la direzione di me come Ragione), se non in quanto lo ritieni gut o böse.
Sono in scena, cioè, due personaggi: Ragione e Volontà. Si ascolta una voce della prima che parla alla seconda. Autore del massimo livello: I. Kant.
Questa scena viene dilatata a dismisura nella etica discorsiva di K.O. Apel, mantenendo costante la “musica di fondo” della razionalità, ma ampliando indefinitamente il numero dei personaggi.
Questo passaggio, questa trasformazione (in senso matematico) che Apel opera sul “possibile regno dei fini”, che è anche il regno proprio della ragione pura, acquistano fruibile efficacia in funzione ed in ragione del sapere sedimentato intorno all’universo dell’essere-in-relazione, a partire innanzitutto dalla invenzione introdotta da Freud attraverso quella relazione particolarissima e di straordinaria portata euristica che si chiama relazione psicoanalitica. Nei confronti della psicoanalisi Apel non è senza una certa diffidenza. Egli rimprovera infatti alla relazione psicoanalitica il fatto di apparire come un discorso che non accade tra pari. Ma fatto sta che in una relazione analitica l’asimmetria dei ruoli posa su una base di profonda ed essenziale simmetria dei soggetti, che si manifesta a coloro che ne sono gli attori come autoevidenza assoluta e reciproco riconoscimento di “pari dignità”. Anzi al di fuori di questa necessaria autoevidenza la relazione analitica è di fatto impossibile. Essa è la cornice che ne consente il dispiegamento secondo le direttrici inalienabili di libertà e di razionalità, che abbiamo già imparato a conoscere come parenti strettissimi della condizione etica, anzi come costituenti un tutt’uno col principio dell’etica e definenti il campo unico in cui necessità e libertá coincidono.
Fatto sta, comunque, che nei “discorsi psicoterapeutici” (che sono comunque figli dell’esperienza della psicoanalisi), Apel non esita a trovare un modello concreto dell’esercizio dell’etica discorsiva. E quale controprova si potrebbe facilmente mostrare come nell’ambito della discorsività psicoterapeutica, un atteggiamento disetico comporti precisamente il crollo di ogni possibile valenza terapeutica ed il suo rovesciamento in conseguenze disutili e dannose.
In termini più rigorosamente filosofici la trasformazione operata da Apel consiste essenzialmente nella assunzione nel campo della categoricità trascendentale Kantiana di quegli “a-priori” pragmatici che sono l’essere-in-relazione (comunità) ed il linguaggio (comunicazione).
L’etica discorsiva concerne la discussione, appunto, sul filo della razionalitá pura, in primo luogo dei principi di ciascuno. Essa garantisce conclusioni che saranno tanto meglio fondate quanto più:
1. si sarà sviluppato il discorso secondo ragione
2. si saranno coinvolte persone con pari dignità quali partecipi allo sviluppo del discorso stesso
3. si sarà dedicato tempo specifico alla discussione.
L’etica discorsiva, attraverso queste caratteristiche di massima, non si limita, né può limitarsi, al solo regolare relazioni tra soggetti o gruppi di soggetti. E’ parte integrante del suo possibile regno dei fini costituire il modello per i rapporti ad es. tra Stati, posto che il principio di razionalità possa acquisire diritto di “cittadinanza ubiquitaria” presso i medesimi. Senza dubbio l’articolazione del sistema delle diplomazie alle forme ideali dell’etica discorsiva, potrebbe nel futuro assicurare obiettivi di pace e di stabilità a ciascuno Stato, come all’insieme degli stessi. Così come tende ad accadere quando l’etica discorsiva comunque si applichi al più ampio numero di soggetti interessati.
Abbiamo cercato di riassumere con una certa semplicità le linee cruciali dello sviluppo dell’imperativo categorico kantiano nell’etica discorsiva in K.O. Apel.
Ancora una volta vogliamo ricordare, prima di riferirci a D. Dennett, come l’Etica sia stata sempre concepita dagli esseri umani come un imperativo proveniente dall’Alto. Come è evidente in Apel, questo imperativo si esprime attraverso regole leggi che hanno lo scopo di regolare gli aspetti pragmatici dell’essere umano. Anche se fosse un’altra questione religiosa, filosofica o squisitamente psichica – come è il caso di Freud – sarebbe comunque questione di “Un Altro”, che è Uno Sopra e che guida il sé a limitare il proprio comportamento.
Tutti conosciamo un certo imbarazzo, e proviamo anche un certo fastidio nel trovarci di fronte a queste regole che ci portiamo dentro e che richiedono di essere seguite, anche se qualche volta non siamo pienamente convinti di dover farlo.
L’etica discorsiva, già ispirata dalla Ragion Pura, supportata dalla discussione razionale tra puri e pari esseri umani, potrebbe implicare un certo più alto grado di fede in questo essere umano naturale. Ma qualcosa di trascendentale, anche troppo trascendentale, ancora rimane nei puri pari esseri umani. Questa è la ragione che spinge D. Dennett verso il suo coraggioso tentativo di costruire un’etica bio-culturale, a partire dai suoi studi appassionati e appassionanti nel cosiddetto campo dell’Intelligenza Artificiale: un artificio secondo natura e, più precisamente, secondo una natura rigorosamente e decisamente darwiniana.
Il più significativo contributo in quel campo, dovuto a Dennett, Professore alla Taft University, dove si dedica con lo stesso fervore sia all’insegnamento sia alla ricerca, è raccolto nel libro che porta il titolo de “L’Idea pericolosa di Darwin”.
Che cosa mai può esserci di pericoloso in un’idea?
Sappiamo in realtà che varie idee hanno effetti pragmatici disastrosi, nel significato più o meno metaforico della parola. Questo è il motivo per cui dobbiamo essere molto cauti nel prendere qualsiasi idea, prima di usarla: dovremmo operare una sorta di filtraggio precauzionale prima di destinare un’idea al suo uso ordinario.
Ma non è questo lo scopo dell’“Idea pericolosa di Darwin” di Dennett.
Nel delineare una forma dell’Etica proveniente dal basso, Dennett sottolinea che quello che c’è di pericoloso in un’idea è sempre qualcosa che riguarda un’altra idea.
Il pericolo di un’idea è prima di tutto un pericolo per le altre idee, forse quelle che sono private della pratica salutare di una sufficiente connessione tra idee critico-competitive. In realtà, senza competizione, una vera competenza non sarà mai sviluppata. Per queste “idee in competizione” Dennett adopera un termine, coniato da Dawkins nel 1976 che è il risultato della fusione dei nomi gene e memoria: meme. Il meme è un’unità culturale che semplicemente evolve in una maniera che è vantaggiosa per se stessa. Questo significa che è semplicemente incline a diffondersi, e il fatto stesso è aldilà del bene e del male.
La sua tendenza a diffondersi è una caratteristica primaria totalmente indipendente dal suo valore. Se si fossero diffusi memi cattivi o dannosi – per la maggior parte dei suoi portatori – noi non saremmo mai stati in grado di scrivere, leggere, cantare, dipingere o guardare quadri, comporre e ascoltare musica o provare a comprendere la memetica.
Questa è la ragione per cui la diffusione dei memi non può avvenire secondo i criteri di una legge puramente mimetica. La pura mimesi autoregolante coincide con il grado zero dell’Etica, ma in realtà mira alla costruzione di ciò che possiamo propriamente considerare un’Etica memetica evoluzionistica, che coincide con il grado d’inclinazione dell’Etica all’Infinito.
Dennett scrive che la biologia impone alcuni legami a quelli che consideriamo i nostri valori: essi non sopravviveranno a lungo se non siamo in grado di scegliere i memi che ci sono utili, e se questa scelta non darà risultati migliori che una scelta casuale. In ogni modo non abbiamo visto ancora il lungo termine: l’esperimento culturale di Madre Natura su questo pianeta è in corso solo da poche centinaia di generazioni.
Nonostante tutto questa condizione non può evitarci un’osservazione autoevidente. Non possiamo fare a meno di notare che tra tutti gli abitanti della nostra mente, i memi dei concetti normativi come verità, bontà, bellezza, dovere si sono stabiliti nella maniera più salda. Quindi stiamo a vedere e aspettiamo. L’esperimento di Madre Natura è ancora in corso. Tra questi memi stabilmente ancorati nella nostra mente ce n’è uno che in particolare si è diffuso universalmente: Freud l’ha isolato col nome di “Complesso di Edipo”. Esso intende dare una serie di regole a quell’istinto indisciplinato che tuttavia è cosi importante per la sopravvivenza delle specie: l’istinto sessuale.
Ci chiediamo se Madre Natura, nel suo corso infinito, inventerà mai un meme che possa essere un equivalente del Complesso di Edipo per dare una serie di regole alla violenza o alla volontà di potenza. L’esperimento rischia di farsi particolarmente interessante. Prima di tutto perché sarebbe necessario, per un meme come quello di Edipo, di stabilirsi nella maniera più salda nelle nostre menti, così fermamente da assumere quel significato universale che perlopiù l’Edipo assicura. Ed è ben noto che l’Edipo è una struttura di ancoraggio salda all’interno dell’inconscio.
Nel gioco delle infinite opposizioni multiple che caratterizzano la mente e le relazioni tra le menti, solo il principio simbolico assicura la possibilità di co-noscere, con-sentire, con-venire verso l’astratta fondazione di quel che è. Allo stesso tempo, chiediamoci cosa è fondamentalmente universale nel concetto freudiano. Ovviamente universale è il significato simbolico che risulta in gran parte dalla lettura che Jacques Lacan ha fatto sia negli “Scritti” – in particolare in quello chiamato “Kant con Sade” e nel seminario dedicato all’ “Etica della Psicoanalisi”. Essenzialmente concerne la relazione tra la LOI (la Legge) – Il Nome del Padre, l’Altro Simbolico – e le leggi (o “leggine”) che ti portano a letto (lettino) sulla base di un malinteso diritto al piacere. Queste leggine quotidiane, spesso scritte con i tratti delle lettere d’amore, non smettono mai di dimostrarsi quello che sono, nel senso che sono scritte come lettere sadiche. Eccezioni alla regola deviano i soggetti portandoli via, distogliendoli dall’esercizio ragionevole dell’etica discorsiva, e anche da qualsiasi possibilità di evoluzione che segue una ragionevole polemos nel significato eraclitiano. Polemos, che concordiamo di tradurre con la parola liberalista: competizione.
Lasciaci ricordare – lo abbiamo già detto, ma non è mai abbastanza – che senza competizione una vera, propria e totale competenza (o coscienza) non sarà mai raggiunta.
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Riceviamo e siamo autorizzati a pubblicare l’articolo tratto dal libro “Bioethics in Complexity: Foundations and Evolutions”, che contiene, tra gli altri, articoli di Karl-Otto Apel, Daniel C. Dennet, Arnold H. Modell, a cura di Sergio De Risio e Franco Orsucci, edito dall’Imperial College Press, 2004.
BIBLIOGRAFIA
Kant I., Critica della Ragion Pura, 1778
Kant I., Fondazione della Metafisica dei Costumi, 1785
Freud S., Opere, 1967
Apel K.O., Comunità e comunicazione, 1977
Dennett D.C., L’idea pericolosa di Darwin, 1995
Dawkins R., Il gene egoista, 1976
Lacan J., Scritti, 1966
Lacan J., Seminario VII, “L’etica della Psicoanalisi”, 1959 – 1960
Gentile G., Eraclito. Vita e frammenti, 1995