Nostalgia: e come portati via si rimane.

di Andrea Ludovica Februo

immagine Februo

Quando ogni luce è spenta

E non vedo che i miei pensieri,

Un’Eva mi mette sugli occhi

La tela dei paradisi perduti

(Giuseppe Ungaretti)

L’esilio è, per eccellenza, la condizione del sentire nostalgico. Ma qual è il nostro esilio? Quali i paradisi perduti cantati da Ungaretti? Perché ci sentiamo “mancanti”, nostalgici, incompleti? Cos’è la “nostalgie d’un pays qu’ on ignore” di cui parla Baudelaire?  In assenza di risposte univoche, provo a seguire la linea melodica che meglio risuona dentro di me. “Amore è nostalgia”, scrive Freud (1919, p. 106), nostalgia del corpo della madre. Fornari definisce la vita intrauterina il paradiso perduto, mondo in cui vigeva la soddisfazione totale del bisogno e propone una trasformazione suggestiva dell’incipit del Vangelo di Giovanni che diventa: “All’inizio era il Suono, il Suono era presso la madre, la Madre era il Suono” (Fornari, 2005, p. 185); nella “musica materna” secondo l’autore, si pongono le radici inconsce della musica e del linguaggio che evocherà, parlando delle cose di questo mondo, il senso primario dell’essere stati in un altro mondo. La vita inizia così, con un addio, con un dolore intenso che una madre, attraverso le sue cure e la sua presenza, rende tollerabile: il suono della sua voce, l’odore e il sapore del suo latte e della sua pelle, il contatto corpo a corpo creano, ancor prima che avvenga il rispecchiamento nel volto, uno spazio che permette uno scambio bilaterale e, allo stesso tempo, la riedizione del legame fusionale tra lei e il suo bambino; il nuovo e il conosciuto si intrecciano in una relazione in cui il neonato, travolto dalla sue sensazioni e da angosce intollerabili, è contenuto e rassicurato dal ritorno dell’uguale, dai ripetitivi ritmi della coppia che gli garantiscono un senso di continuità dell’esistenza. Mi piace immaginare che la nostalgia per un paese sconosciuto di cui parla Baudelaire sia la nostalgia per un mondo molto lontano, non ricordabile e non verbalizzabile e, allo stesso tempo, incredibilmente vicino, perché scritto nella nostra carne, nella esperienza del corpo, in un inconscio pulsante ma non rappresentabile, contenitore di esperienze appartenenti ad un’ epoca precedente alla nascita del simbolo: l’epoca preverbale, tempo delle prime esperienze estetiche, della prima relazione d’amore o addirittura l’ epoca prenatale, tempo della soddisfazione totale del bisogno?
Il bambino, man mano che cresce, impara sempre di più ad indugiare nell’attesa ed a tollerare la frustrazione: quando arriva a poter concepire che la madre c’è, anche quando non la vede, può sostare in uno spazio vuoto, in un’attesa, in cui prende vita una tristezza necessaria, una sofferenza da cui nasce il desiderio. E’ nell’ assenza che si forma il pensiero, l’emozione, la spinta verso l’altro, verso la rappresentazione e il simbolo. Solo dove è depositata la traccia della soddisfazione del bisogno, dell’esperienza di piacere e di unità, può nascere il dolore per ciò che è perduto. Per questo la nostalgia appare come una zona di penombra, di chiaroscuro: sorella dello struggimento melanconico che porta ad un ripiegamento narcisistico, o di un dolceamaro desiderio che spinge verso la ricerca, la simbolizzazione? Un sentire nostalgico è possibile solo quando si può attraversare il lavoro del lutto e si può accedere ad un funzionamento depressivo; altrimenti si deve parlare di una nostalgia “perversa” che immobilizza, nega ogni possibilità di separarsi, idealizza il passato e ricrea onnipotentemente e magicamente la fusione con l’oggetto primario, come nel caso del funzionamento del tossicomane di cui parla Rossi (1980); in questi casi i processi che dovrebbero portare ad esperienze maturative e di crescita si sono arrestati di fronte ad angosce di perdita troppo forti, intollerabili e impensabili. A me, questa, non piace chiamarla nostalgia. Mi pare che in un funzionamento di questo tipo, nelle dipendenze in genere, il dolore mentale non si possa sentire; c’è un’angoscia troppo intensa, inaccessibile, messa a tacere attraverso il rapporto compulsivo con la sostanza. Mi sembra che dove c’è un sentire nostalgico, il dolore per l’impossibilità del ritorno (dal greco nostos, ritorno, algos, dolore), ci sia la possibilità di attraversare la sofferenza. Dove c’è nostalgia si dischiudono le porte al gesto, alla voce, al canto; c’è una ricerca di parole, un susseguirsi di immagini, di odori, di sensazioni perdute. La nostalgia è il luogo della poesia e della musica, dell’espressione dell’indicibile, del tentativo di rappresentare i movimenti più profondi e oscuri della nostra vita psichica. Freud, nel saggio Caducità (1915), ha legato l’esperienza del bello, la limitazione temporale del suo godimento e il lavoro del lutto ad un filo indissolubile; “il valore della caducità è un valore di rarità nel tempo” scrive, e di seguito: “Noi vediamo unicamente che la libido si aggrappa ai suoi oggetti e non vuole rinunciare a quelli perduti, neppure quando il loro sostituto è già pronto. Questo dunque è il lutto.” (Freud, 1915, p.174-175). Nostalgia, precede e segue il lavoro del lutto: si presenta come un dolore intenso e bruciante prima della resa, della rinuncia all’oggetto, per trasformarsi in una dolce, tenera tristezza quando l’elaborazione è avvenuta. [Circondata dal cemento; sentivo un dolore gelido, metallico, tagliente. Mi sentivo svuotata, disperata, persa; tutto ciò che stava accadendo era privo di senso. Sospesa in un tempo immobile, come immobili erano i nostri visi (e il suo…), qualcuno parlò: dovevamo decidere cosa scrivere sul manifesto mortuario. In quel momento accadde qualcosa: “Vulesse fa’ ‘revenì pe’ n’ora sole, lu tempe belle de la cuntentezze…”, le parole, la melodia di questa nostalgica canzone abruzzese, ma soprattutto il suono della sua voce, con cui amava intonarla, irruppero nella mia mente. In pochi istanti il dolore divenne caldo, dolce e avvolgente; piansi. Furono queste le parole con cui annunciammo la sua perdita. Credo che in quel momento, tra quelle note, si posero le fondamenta del mio personale lavoro del lutto: dopo circa un anno dalla sua scomparsa, attraversato il dolore di questa elaborazione, potei iniziare il triste recupero dei nostri teneri ricordi, accompagnata da una speciale musica di sottofondo] Nostalgia: la nostra mente insiste nel tentativo di ritrovare ciò che è lontano, perduto, inafferrabile; per un attimo si ha l’illusione di un recupero: la sensazione è viva, pulsa nel nostro sangue. Poi, svanisce di nuovo…Mi torna in mente il mito di Orfeo e Euridice nelle letture che ne danno Fornari (2005) e Di Benedetto (2000). Orfeo, distrutto dalla nostalgia per la perdita dell’amata, grazie al suono della sua lira e del suo canto commuove i signori dell’Ade e ottiene di recuperare l’amata Euridice e riportarla nel Regno dei Vivi, a patto che non si giri mai a guardarla durante il cammino. Orfeo fallisce, perché non resiste alla tentazione di rivederla; Fornari propone di leggere il mito come una metafora della forza seduttiva del Suono capace di ricondurre l’uomo nel suo paradiso perduto, di far sperimentare l’unità simbiotica con la madre (Euridice), che però non potrà mai essere rivista, ma solo ri-sognata. Di Benedetto aggiunge che Euridice rappresenta la nascita del simbolo e, come tale, può rivivere solo finché Orfeo sa tollerare l’incertezza. Il regno dell’Ade rappresenta il passato nel quale prendono vita oggetti interiori, perduti, che possono arrivare alla luce, in una forma rappresentabile, se si rinuncia ad una pulsione di impossessamento, che spinge verso il regno del fisico, del concreto. Scrive Di Benedetto: “la mente cresce se […] si lascia in qualche modo fecondare dal passato, per riplasmarlo attivamente e concepirlo in forma rigenerata.” (Di Benedetto, 2000, p. 52) Il conoscere implica una spinta a ricercare il passato, a scorgere il conosciuto nel non conosciuto, il non familiare nel familiare. La spinta verso la conoscenza è materia del perturbante; come l’arte, come il transfert. Il sentire nostalgico, il desiderio di ritrovare il tempo perduto, dà vita alla Recherche di Proust; il passato si può ricordare, se si è consapevoli del fatto che ricordare è sempre ricreare; la nostalgia porta con sé questo dolore, poiché nulla del tempo vissuto si può recuperare davvero: è possibile trasformarlo in parole, in voce, in ricordo, in canto. Attraversato il dolore della perdita, si può accedere a nuove esperienze di bellezza: la caducità, il bello e il lavoro del lutto si fondono nella vita, nell’arte, nella psicoanalisi. Come accade ad Isak Borg, protagonista del film Il posto delle fragole; il viaggio interiore, intrapreso durante l’inverno della sua esistenza, gli farà ricostruire la storia della sua vita, attraverso il lavoro della memoria e il lavoro del sogno. Un percorso da cui il vecchio e solitario Isak, che all’inizio del film pronuncia la frase “son morto pur essendo vivo”, uscirà profondamente cambiato; riconciliandosi con i suoi oggetti perduti, ri-attraversate le sue più antiche paure, riacquisisce un’ intima capacità di amare. Proust, Bergman, mille altri ancora. L’espressività artistica si muove dallo scacco, dalla perdita, dall’assenza. Si nutre del dolore, della mancanza, della nostalgia. Spesso nella spinta creativa, si sente la necessità di stravolgere il linguaggio che si ha a disposizione; l’artista è alle prese con la rappresentazione dell’irrappresentabile, spinto dalla necessità di dare una forma al suo caotico sentire, produce l’opera d’arte: nelle sue espressioni più sublimi la creazione contiene in sé l’intellegibilità del simbolo ed un suo incontenibile eccesso (così come il sogno…). Qual è, allora, il nostro esilio? E’ l’esilio dai nostri vissuti più oscuri e profondi, da quel mondo sommerso e inconoscibile, che non si fa sistematizzare nell’ordine simbolico. Scrive Calvino (1995, pag.7): “Nel momento in cui la mia attenzione si sposta dall’ordine regolare delle righe scritte e segue la mobile complessità che nessuna frase può contenere o esaurire, mi sento vicino a capire che dall’altro lato delle parole c’è qualcosa che cerca d’uscire dal silenzio, di significare attraverso il linguaggio, come battendo colpi su un muro di prigione.” La cura psicoanalitica, come l’arte, cerca di dare voce agli esiliati, ai vissuti imprigionati, all’inconscio, all’emozione, alle sensazioni in cerca di parole, alle esperienze perdute. Si serve della inestinguibile spinta verso il ritorno, del dolore che costringe l’esistenza in un tempo circolare, del desiderio nevrotico di ripetere, riproporre, riesumare. All’interno del setting e della relazione si tenta di costruire un linguaggio, uno spazio, in cui possono nascere nuove esperienze di bellezza. Chi ama la musica lo sa: si può accogliere con stupore ed emozione la variazione solo attraversando la tristezza e l’attesa-ricerca del tema già conosciuto, ascoltato e amato, inscritto nella memoria; nello struggimento dell’attesa nostalgica arriva la variazione, sufficientemente vicina al tema originario da dare la gioia del ritrovamento, sufficientemente lontana da produrre una nuova, rivoluzionaria esperienza estetica, che pone le sue radici nell’attesa del recupero del tempo vissuto. Attraverso la relazione analitica, come in musica e in poesia, possono rivivere “Passato, presente e futuro, come infilati al filo del desiderio che li attraversa”. (Freud, 1907, p. 379). Il dolore impensabile può diventare una sofferenza da percorrere, può divenire nostalgia; poi il lutto, il desiderio e, di nuovo, la nostalgia. In un tempo divenuto percorribile. Freud scrive che la psicoanalisi ha come fine quello di curare la miseria della nevrosi per poter accettare la comune infelicità di ogni essere umano; Sarte (1943) parla dell’uomo come di un Dio mancato. Rimane, dunque, la nostra “mancanza” originaria, la nostra solitudine; però, potersi vivere questa profonda tristezza, animati da una costante tensione verso l’Altro, da un illusorio desiderio di completezza e di comunione che ci spinge verso la ricerca, la conoscenza, il viaggio, l’amore, ha un sapore ben più dolce che vivere nel disperato tentativo di negarla. Concludo, come ho iniziato, con le parole di Ungaretti, che ci regala uno scorcio meraviglioso sulla nostalgia, che prende vita nel buio delle tenebre, prima di una nuova alba, di una nuova primavera.

Nostalgia

Quando / la notte è a svanire/ poco prima di primavera / e di rado / qualcuno passa /
su Parigi s’addensa / un oscuro colore di pianto / In un canto / di ponte / contemplo / l’illimitato silenzio / di una ragazza tenue / Le nostre malattie / si fondono / E come portati via / Si rimane
BiBLIOGRAFIA

Calvino I. (1995), Sotto il sole giaguaro. Milano: Mondadori

Di Benedetto A. (2000), Oltre le parole. L’ascolto psicoanalitico del non detto attraverso le forme dell’arte. Milano: Franco Angeli.

Fornari F. (2005), La nascita psichica. Rivista di Psicoanalisi, 51:181-190.

Freud S. (1907), Il poeta e la fantasia. O.S.F. 5.

Freud, S. (1915), Caducità. O.S.F. 8

Freud, S. (1919), Il Perturbante. O.S.F. 9
 .

Rossi (1980), I lotofagi. Rivista di psicoanalisi. 26: 359-367.

Sartre J-P.(1943), L’essere e il nulla. Trad. it. Milano: il Saggiatore, 1991.

Ungaretti G. (1969), Vita d’un uomo – Tutte le poesie. Segrate: Arnoldo Mondadori Editore.

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