di Gabriella Marulli
Le tematiche che vengono proposte non appartengono al gergo sistemico, dove le parole maggiormente usate sono confini, alleanza, triangolazione… a volte occorre pensare altre parole per tentare delle corrispondenze con il proprio modello di appartenenza. Anzi, l’idea di pensare il silenzio in ottica sistemica, mi consente una riflessione sull’uso che di fatto faccio di un tema che non afferisce in maniera diretta al proprio modello terapeutico ma alla propria indole e che diventa in qualche modo autoreferenziale al modo in cui uso il silenzio in stanza di terapia.
Da vocabolario la parola silenzio è riferita o all’assenza di parola o in senso figurato alla presenza del gesto, se si cerca su internet la parola SILENZIO si viene bombardati da centinaia di articoli. Ci sono molte parole per definire il silenzio. Dal punto di vista “sistemico” la posizione teorica relativa a questo concetto la si può riferire alla comunicazione non verbale, per la qual cosa si fa riferimento all’assenza della parola e al significato che il gesto può assumere. Ma continuando a inseguire il mio pensiero mi domando quanto della mia attuale idea di silenzio derivi dalla convinzione che Baudelaire espresse quando enunciò che “l’oppio ingrandisce le cose che già non hanno limiti”; o alla domanda Batesoniana di “qual è il limite delle cose?” O all’immagine del quadro di Turner “il treno”.
Si inizia a delineare l’idea che per me il silenzio sia la percezione della fine di un oggetto e l’inizio di un altro, la linea di confine, la linea che fa riferimento al sacro. Ma questo è solo un aspetto autoreferenziale, poi mi rendo conto che il silenzio si presta a una infinità di interpretazioni, sia dal punto di vista culturale che individuale: osserviamo un minuto di silenzio!!! Ma io cosa ne faccio del silenzio, lo uso in stanza di terapia? Lo ascolto? Mi si aprono innumerevoli interrogativi. Credo che uno degli sforzi della psicoterapia sia di accrescere le aree di consapevolezza e questo può essere fatto tentando di cambiare il silenzio del sintomo. Mi viene in mente un racconto di H. Boll “La raccolta di silenzi del dott Murke”, nel quale il sig. Murke aveva avuto l’incarico di tagliare secondo le indicazioni dell’autore due conferenze sull’essenza dell’arte, incise su nastro per un programma radiofonico. Il sig. Murke colleziona i ritagli di silenzio.
Come uso il silenzio, il silenzio in senso metaforico come assenza di parola, o quando la parola è troppo piena, cioè quando la ripetizione sembra non dare altra possibilità. Su ciò, nel tentativo di consentire che una parola occupi il silenzio in maniera congrua, uno strumento che mi viene in aiuto è la scultura familiare, o anche il gesto, il non verbale che compare nella stanza di terapia. Il corpo parla nel silenzio. Uso questo strumento soprattutto con le famiglie dove o circola troppa emotività, quelle famiglie che non presentano segreti tra gli individui, dove i confini sono molto permeabili, dove ognuno sa tutto dell’altro, o viceversa dove ognuno va per la sua strada, tutti sono autonomi e non sembrano avere bisogno l’uno dell’altro. La rappresentazione può essere attuata nel passato, nel presente e nel futuro. Questo strumento è molto utile quando abbiamo in terapia famiglie con bambini e/o adolescenti, dove spesso il sintomo è il tentativo sofferto di differenziazione dell’adolescente o del giovane adulto.
Ricordo, una famiglia composta da padre, madre e due figli. Il primogenito tossicodipendente, con molti tentativi di comunità affrontati ma interrotti per diverse ragioni… La madre appariva “complice” nel sostenere il figlio, attraverso comportamenti ambivalenti e incongrui. Gli incontri con la famiglia sembravano eterne prime sedute. I genitori in disaccordo sulla modalità di sostenere il giovane Fabio e quest’ultimo visibilmente sotto oppiacei continuava a negare l’assunzione di qualsiasi sostanza anche dopo il riscontro positivo delle analisi.
La situazione sembrava congelata così da molto tempo. Il mio obiettivo, condiviso dalla equipe che seguiva il caso, era di consentire a Fabio il passaggio in una comunità di recupero da utilizzare per sé (i precedenti fallimenti erano stati addebitati alle colpe altrui: “questa comunità ruba…”; “l’operatore non si doveva comportare così con me…”; “…è colpa di mia madre se sono andato via..”; “mi sentivo pronto quando ho concluso quel programma…”). La storia passata la conoscevo attraverso l’individuale con Fabio. Il futuro sembrava poco visibile ai suoi occhi, inoltre i genitori avevano un’età avanzata. L’impressione era che il tempo si fosse fermato a 20 anni prima, il passaggio del tempo era offerto all’attenzione solo dalle rughe dei volti dei presenti. Non si faceva parola sul futuro, o meglio il futuro si presentava in assoluto silenzio. Un silenzio carico di significato che poteva diventare la chiave per tentare la costruzione di una nuova dimensione di consapevolezza. Diamo parola al silenzio! Uno strumento utile, che consente di “far parlare il silenzio” è la scultura della famiglia. La scultura al presente in analogia con l’unico linguaggio che sembravano parlare. Esplicito la storia dei precedenti interventi e di come ci si sia poi organizzati intorno al sintomo, esplicito il silenzio in atto per il futuro e forse dietro questo silenzio la paura per il futuro… e su questi elementi di riflessione costruisco la “loro rappresentazione”. Affianco delle sedie come a formare un letto al centro della stanza, faccio sedere i genitori ‘l’uno al fianco dell’altro e metto Fabio vicino al muro, distribuisco dei fazzoletti alla signora e al marito, continuo a mantenere lo sguardo rivolto alle sedie trasformate in un letto di morte. Poi guardo lui e poi i genitori, esplicito che questo è il suo funerale e che stiamo piangendo la sua assenza. Rimaniamo in assoluto silenzio.
Ma torno con la mente al racconto di H. Boll e del dott. Murke che dice: …“raccolgo un tipo particolare di ritagli”. “Che genere di ritagli?” “Silenzio”, risponde Murke, “raccolgo silenzio”…
“Quando ho da tagliare dei nastri dove chi parla qualche volta ha fatto una pausa, o anche dei sospiri, respiri, silenzio assoluto – non li butto nel cestino ma li raccolgo io”.
“E che ne farà dei ritagli?” “Li attacco l’uno all’altro e sento il nastro quando sono a casa la sera. Non è molto, per ora ho solo tre minuti – ma del resto non si tace molto”. E’ difficile pensare di incidere il silenzio, ma da allieva, quando il compito era di sbobinare ore di terapia videoregistrata e di rivedere nel dettaglio i passaggi di “disconferma del padre nei confronti del figlio, o di focalizzare il momento in cui il figlio alzava le mani in stanza sulla madre era interessante togliere l’audio alla videoregistrazione e guardare i frammenti di seduta come fossero frammenti di un film muto. Osservare e/o ascoltare il silenzio, non so quale sia il verbo più appropriato, se l’osservare il silenzio o l’ascoltare il silenzio, la paura tra una parola e l’altra.
E come il sig. Murke è importante collezionare i ritagli di silenzio che in ottica sistemica si pongono, nelle parti omesse della relazione. Quelle omissioni alle quali i diversi componenti della famiglia attribuiscono una infinità di significati. Diventa un elemento non verbale, come il pianto o il sorriso, un non verbale di difficile interpretazione, al quale possiamo dare significato attraverso quello che ci viene detto dall’altro. Anche il sintomo ci racconta un modo di dare parola al dolore. Il silenzio come quello che la famiglia o l’individuo non dicono, la parte “omessa” della terapia che probabilmente mi consente di “provare” ad introdurre un cambiamento. E come il dott.Murke, dovevo tentare di guardare qualcosa che non era visibile, dovevo vedere le tracce di silenzio possibili. La traccia sembrava essere il silenzio che si celava sul futuro, del quale non si faceva parola.
Le cose presenti e ridondanti riguardavano il passato e/o il presente, sembrava che il futuro fosse dato esclusivamente dal silenzio o dall’assenza della parola. La relazione tra i componenti della famiglia viene ascoltata in silenzio su un non detto che rimaneva sempre implicito, la scultura ha consentito di rovesciare questo e di rendere esplicito il silenzio del non detto.
BIBLIOGRAFIA
BATESON G. (1976), Verso un’ecologia della mente. Milano: Adelphi.
BATESON G. e BATESON M. (1989), Dove gli angeli esitano. Milano: Adelphi.
BOLL H. (1981), Racconti umoristici e satirici. Milano: Bompiani.