di Vincenzo Tozzi
“Sono triste là fuori , nella strada dove si accumulano le casse.[…] Ma tento di dare l’idea di ciò che sento, un miscuglio di varie specie di io e della strada estranea che, proprio perché la vedo, anch’essa, in modo sotterraneo che non so analizzare, mi appartiene, fa parte di me.”
(Fernando Pessoa, “Il libro dell’inquietudine”)
Consideriamo il fatto che la psicoanalisi è una scienza all’interno della quale, l’oggetto e il soggetto della conoscenza sono identici. C’è una mente (dell’analista) che osserva un’altra mente (dell’analizzando). Questo risulta essere un vero e proprio paradosso, in quanto, nelle altre scienze naturali, c’è sempre una mente che osserva qualcosa di altro. Nella medicina per esempio, la mente del medico osserva e studia una malattia o un sintomo (questo è valido anche per la psichiatria) .
Come se non bastasse, nella psicoanalisi coincidono perfettamente anche il soggetto e lo strumento dell’osservazione; l’analista stesso diviene infatti lo strumento che permette di arrivare alla conoscenza dell’altro. Questo complica ulteriormente le cose: c’è una mente che osserva il funzionamento di un’altra mente, utilizzando come strumento, il proprio funzionamento.
Nel corso della sua attività di analista, Freud ha attribuito alla psicoanalisi anche uno statuto teorico, definendola “scienza dell’inconscio”. La psicoanalisi diviene allora “scienza della soggettività”, cioè dell’individuo nella sua parte psichica di cui esistono fatti osservabili e altri raffinatamente reconditi. L’indipendenza di questa scienza è fondata soprattutto sul metodo che essa utilizza, il quale richiede la verifica della pratica clinica e le elaborazioni teoriche capaci di consolidarne i procedimenti.
Nel lavoro “Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico”, Freud parla di nuovo del problema del metodo. Egli affronta questioni riguardanti la tecnica di ascolto del paziente (attenzione fluttuante) e dell’atteggiamento di neutralità analitica e suggerisce al futuro analista la necessità di un’analisi personale. […] piuttosto è lecito esigere ch’egli si sia sottoposto a una purificazione psicoanalitica e abbia acquisito nozione di quei complessi personali che sarebbero atti a disturbarlo nella comprensione di quanto gli viene offerto dall’analizzato. Non si può ragionevolmente dubitare dell’effetto squalificante di simili deficienze personali; ogni rimozione non risolta nel medico corrisponde, secondo un’indovinata espressione di Wilhelm Stekel, a una “macchia cieca” nella sua percezione analitica. (Freud 1912, p. 537)
In questo saggio Freud affronta la difficile e (soprattutto) delicata questione che riguarda la formazione degli analisti (e che dovrebbe riguardare la formazione di qualsiasi approccio psicoterapico), e di nuovo ribadisce che le rimozioni dell’analista determinano “macchie cieche” nella percezione analitica, difficoltà legate al passaggio delle percezioni inconsce alla coscienza.
Per continuare un parallelo con la professione medica, possiamo affermare che come il chirurgo ha il dovere di utilizzare un bisturi sterilizzato con estrema cura , l’analista ha il dovere di “purificare” il suo strumento, che non è altro che se stesso, la propria mente, attraverso l’analisi personale. Il paziente rappresenta perciò per l’analista, come il figlio per il genitore, un primitivo aspetto del sé: e proprio perché l’analista può riconoscere nel paziente il suo primo sé che è stato già analizzato, egli può analizzare il paziente. Diversi anni dopo Freud riprende il discorso in “Analisi terminabile e interminabile” scrivendo: “Il medico ammalato di polmoni o di cuore, nella misura in cui abbia comunque conservati la propria capacità di lavorare, non è ostacolato dalla sua malattia né quando deve diagnosticare né quando deve curare disturbi intensi: l’analista, invece, a causa delle particolari condizioni cui è sottoposto il lavoro analitico, è effettivamente disturbato dai propri difetti quando si tratta di cogliere esattamente le condizioni del paziente e di reagire ad esse in maniera adeguata. (Freud, 1937)
Qui non calza più il paragone con la medicina. Infatti , mentre il medico organico potrebbe avere un organo malato e continuare a curare i propri pazienti, per l’analista questo non è possibile. Avere la propria mente disfunzionale vuol dire avere uno strumento che gli impedisce di “vedere” del materiale analitico e in ultima analisi di prendersi cura del paziente. Qui egli sottolinea, però, non solo come problemi inconsci possano rendere “ciechi”, ma riconosce anche all’inconscio dell’analista il ruolo di indispensabile strumento della comprensione analitica, che assume un ruolo ambiguo e contraddittorio di “strumento che vede” e di “strumento che rende ciechi”. Ed è forse questa continua ambiguità che costituisce il fascino e la ricchezza della teoria psicoanalitica.
L’analista deve quindi necessariamente vegliare attivamente sull’eventuale propensione a sostituire una censura sua propria, a quella che il paziente ha abbandonato.
A questo punto sorgono spontanee alcune domande: come fa l’analista a trattare questo materiale che riecheggia dentro di sé? Come fa a non confondere le sue emozioni con quelle del paziente?
Abbiamo già detto che l’analisi personale è il primo passo per riuscire a non attribuire al paziente stati d’animo o emozioni nostre. Ma non basta. L’analista deve affinare una capacità di movimento, di agilità mentale, una oscillazione continua tra il tener conto di quello che il paziente gli comunica, e il rilevare cosa suscita in sé quello stesso materiale, come “risuona” dentro di lui. All’interno del processo analitico l’analista deve utilizzare una sorta di “doppia attenzione”, deve badare alla comunicazione del paziente, ma contemporaneamente, deve riuscire facilmente a tornare verso se stesso (Ferrari, 1983, p.477).
L’analisi diviene, in questo modo, un processo interattivo di co-narrazione, che si colloca all’interno dello spazio analitico .
BIBLIOGRAFIA
FERRARI, A. (1983), Relazione analitica: sistema o processo?
Rivista italiana di Psicoanalisi, 29,4 : 476-496, Roma: Il pensiero
scientifico Editore.
FREUD, S. (1912), Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico.
OSF 6, Torino: Boringhieri, 1974.
FREUD, S. (1937), Analisi terminabile e interminabile. OSF 11, Torino : Boringhieri, 1979.
PESSOA F. (1986), Il libro dell’inquietudine. Milano: Feltrinelli.