Nel proprio vissuto il legame con l’opera d’arte

di Lea Merlino

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“Assorbiti dai nostri pensieri, incalzati dall’ora o dalla meta, quante volte abbiamo confuso la via con il numero dei nostri passi? Ci sono vie che hanno il merito di rappresentare per noi il più corto cammino da fare fino a un punto stabilito. Marciscono nei loro limiti, come impiegate alle dipendenze di una grande amministrazione: Alcune – è vendetta la loro? – scontrose, ristrette di vedute, sono sempre inclini a ricoprirci di timbri. Ci sono tanti modi per accorgersi d’una via.  Guardarla dalla finestra, come si guarda lo scorrere di un fiume, è perderla a poco a poco. Spesso il banale fatto di fermarsi all’improvviso in mezzo ad un marciapiede che non contiene il flusso dei passanti, di venirne urtati, travolti, è sufficiente a farcela vedere nella sua miseria o nella sua gloria. La via non è mai uguale. È una via lenta o veloce, in certi giorni pigra. Per raggiungerci nelle nostre dimore, si rifugia nel rumore del suo viavai o nel silenzio perforante del suo cielo e delle sue pietre. Non vi prestavamo alcuna attenzione quando ne facevamo parte”.
(Edmond Jabès – Il libro delle interrogazioni)

“…desidero riprodurmi concentrato. Ciò che ero, ciò che sono, ciò che sarò. Ciò che potrei essere… Il mio lavoro è una polemica personale dell’artista per esemplificare l’apertura e l’ampliazione della personalità umana.”
(Arnulf Rainer-1972)

“Sulla vaporizzazione e sulla condensazione del¬l’Io. Tutto è qui.”
(C. Baude1aire – “Il mio cuore messo a nudo”)

Premessa
Laddove si avverte l’attrazione verso una qualsiasi forma di espressione artistica, sia come esigenza propria o come ricerca esterna, in ogni caso si instaura con essa un rapporto viscerale, che trova sede nel profondo, che richiama archetipi e percorsi dimenticati, “tracce” ormai abbandonate, modalità o stili inconsapevoli o modellati dai contesti e dalle mode, illuminando così un canale privilegiato di liberazione da sé e dalle sovrastrutture imposte, di riacquisizione dell’io. Vero e autentico. In questa chiave di lettura, traggo dall’esperienza lo spunto per descrivere e analizzare il legame che si stabilisce tra l’individuo, fruitore, nel caso specifico, ed opera d’arte.
Una malattia devastante… almeno nell’evocazione di vissuti e contesti di distruzione, di impotenza e di morte. Tento di rientrare nel dolore, di rivisitare l’attimo o gli attimi immediatamente successivi alla rivelazione…. è difficile… il tempo costruisce barriere, mi accorgo di usare mezzi e modi che attutiscono, che riducono la ferocia dell’impatto, gli stati hanno subito trasformazioni radicali, le parole subiscono ulteriori modifiche nel momento in cui assumono forma scritta… provo a guardare…. quello che c’è oggi non è la stessa cosa di ciò che c’era ieri, ma in parte ancora oggi…. ieri… un terrore dilagante, l’incapacità di formulare un pensiero coerente, solo un’incontrollabile, diffusa, incontenibile paura… Avverto la minaccia. Una minaccia forte e concreta alla mia vita, alla possibilità di vivere. Non voglio morire.
La mia incomprensione è tale. Sento anche la rabbia…. rabbia per l’impotenza? per la necessità di accettare passivamente? per il rifiuto della sofferenza? per le costrizioni e i limiti di una nuova condizione? per l’insoddisfazione che improvvisamente diventa insostenibile per la preoccupazione di vivere anche l’impossibile in poco tempo? Le lacrime testimoniano la rottura di argini e sistemi di contenimento, con esse viene fuori di tutto. È finita. Quanto potrò vivere ancora? Che mi aspetta? Che mi faranno? Che faranno al mio corpo? Mi ha tradito, avevo sempre confidato nella sua forza, avevo tratto da essa energia e benessere…invece…
O mio Dio, covavo un mostro!
Nel silenzio, senza alcun segnale il mio corpo si trasformava, ma da quando? Chissà se non ho prestato attenzione, se ho trascurato dei segni…. Sicuramente ho delle responsabilità, è un messaggio chiaro in questo senso. Non ho dato il giusto spazio a me, alle urgenze che sentivo di non poter imporre all’esterno. Quanto mi sono ferita negli anni? Quanti permessi negati, quante insoddisfazioni razionalizzate, rinunce allontanate e rimosse… pensavo magicamente di non dover mai pagare un prezzo?
…il mio pensiero corre via, non riesco a fissarne i contenuti, idee disorganizzate, affastellate, il caos, non ho alcun controllo su di esso, al suo passaggio impetuoso e confuso sfioro parti sconosciute di me, che fanno sorgere dubbi o assumono la veste di sconvolgenti consapevolezze…. Il mio tentativo costante è quello di dare ordine e organicità, di costruire o ricostruire nessi, con gli altri forse mi riesce, ma non mi appartiene, lo sento… sento che non ci sono dentro completamente… Io sono là, nel marasma totale, in un liquido nero, vischioso.
Mi ricopre. Mi impedisce di parlare. Mi opprime. Mi soffoca. Rallenta i miei movimenti. Perdo i contatti con lo spazio ed il tempo, mi sento catapultata nello spazio, in completa assenza di gravità, dove i riferimenti che orientano si perdono. Mi muovo nel nulla. Sento il distacco dalle cose, dagli ambienti, ma soprattutto dalle persone. Mi rimandano un senso di estraneità dal quale non so difendermi. Anche dai miei figli. Si, sono altro, sono lontani. Io sono altrove. Non posso, non riesco ad avvicinarmi. Tutto mi giunge ovattato. Sembro in trance. Tocco ma non tocco. Guardo ma non guardo. Parlo ma non parlo. E uno stato che mi impedisce di sentirmi viva, che tenta di bloccare ogni via all’ espressione sensoriale. Perché siete altro da me? ed io chi sono diventata? Non abito più il mio spazio.
Mi sento oggetto di una grande violenza. Violenza perpetrata al mio corpo, al mio essere donna. Una violenza assurda, innaturale, ma razionalizzata. Giustificata. Trova fondamento negli studi, nell’infinità di numeri e parole che riempiono i fogli prodotti “a certificazione…”Da accettare. Senza condizioni. Ma ogni parte di me si ribella e dice “no”. Perché le mie energie non mi sembrano sufficienti a sostenere la prova. Perché avverto la fine. Se chiudo gli occhi, vedo una mano… non so a chi appartenga. E minacciosa, invadente, violenta. Vuole entrare dentro di me… ci riesce… Strappa via dei pezzi, mi porta via qualcosa che mi appartiene, da sempre…il sangue che la circonda lo testimonia… Lo sforzo per riallacciare le fila di un disegno, dei miei progetti, è sovrumano, ma devo riuscirci!
Devo cercare ancoraggi solidi e cercarli dentro di me. Voglio ascoltarmi. Voglio realizzare i miei desideri. Conoscere. Cercare, tendere a…. Accelerare. Accettare i cambiamenti e integrarli in nuove proiezioni di me. Acquisire certezze. Liberarmi dall’involucro che la malattia ha creato. Guardare verso nuove direzioni.
In un contesto così caotico, casualmente avviene “l’incontro” con l’opera d’arte. E con l’artista, dopo. Arnulf Rainer. Una fotografia. Un ritratto, deformato da smorfie di disperazione o disgusto, esasperato da ditate di colore violento. E si “tocca” ciò che giace dietro le parole e le azioni e i flussi di pensiero. Le vibrazioni, i fremiti, gli scossoni, nel momento in cui vengono articolati e sistemati per trovare prima piena consapevolezza e trasparenza, poi per aprirsi all’ espressione esterna in veste di parola e sintassi, perdono la loro connotazione primaria, diventano altro. Nessun punto in comune con l’origine. La verità interiore viene così negata alla parola. E alla percezione? Si riesce a visualizzare la lotta tra pulsioni vitali e distruttive, l’essere vivo e l’ossessione della morte. Ancora più contorto e tormentato il rapporto tra la razionalità dell’immagine fotografica e il mondo fantasmatico, l’immaginario e simbolico espresso dall’intervento segnico e cromatico. Nasce dall’incontro uno spazio condiviso di intima fusione, di ricerca comune, di letture interiori portate all’esterno, di un sentire riconosciuto, seppur originato da motivazioni e storie diverse. Immagini di paure, che non si riescono a controllare, che dilagano, che allagano, che invadono. Angosce deturpanti. Testimonianze tangibili di dolore. Tentativi di rappresentarlo. Tentativi di rappresentare un incontro con la morte.
“Una pietà giustificata o ingiustificata rende quasi impossibile ad un artista accostarsi, ancora ai nostri giorni, al vero volto della morte. Da quando ne sono consapevole, attendo e cerco, faccio la posta come una iena per incontrare il fenomeno della morte incarnata. … Per me, come per ogni altro essere umano, è questo il grande confronto” (Rainer, 1978).
Confronto rimosso. Confronto negato dall’uomo moderno. Annullato. E da questo confronto rinascere, attraverso un percorso spirituale e mistico. E arrivare ad accarezzarsi. Ad accettare i segni. Hanno aperto finestre sull’io. Sono l’espressione di nuove volontà e della determinazione a collocarle in ambiti definiti e precisi. A. Rainer sintetizza un’acuta capacità di osservazione unita all’impellente necessità e alla scelta di restituire un volto ad emozioni for¬ti nell’attimo stesso in cui vengono vissute ed assurgono allo stato di coscienza. I tratti generati da passioni violente sono così effimeri e fluttuanti da non rendere facile la loro riproduzione. L’in-soddisfazione di Rainer verso i risultati della fotografia in questo senso, lo portano ad intervenire direttamente sui volti: quello che Duchenne de Boulogne sperimentava alla Salpetrière nella metà dell’Ottocento con gli elettrodi applicati ai muscoli facciali per provocare espressioni particolari, Rainer lo realizza con i segni di colore.
Scrive Duchenne: ”I maestri dell’arte non hanno sempre saputo trovare le li¬nee fondamentali […] dopo averle istintivamente disegnate con una grande verità nello schizzo, le hanno perdute finendo il loro lavoro senza poterle ritrovare.”
Rainer tenta il recupero delle linee espressive fino ad arrivare, attraverso la fusione di processi di osservazione, analisi e creazione, ma anche attenta e capillare lettura di stati interiori, alla rappresentazione di volti “segnati”, alla complessità di volti “animati”. Da essi emerge l’angoscia paralizzante, l’incontro con la morte, la violenza subita. La rabbia per la propria impotenza. L’individuo viene privato del suo nome e della sua storia, il suo volto coincide con lo stato di disagio, al di là della propria identità, smarrita, offuscata, celata.
Leonardo: ”Farai le figure in tale atto, il quale sia sufficiente a dimostrare quello che la figura ha nell’animo; altrimenti la tua arte non sarà laudabile.”
Al di là della condivisione di un contesto storico, culturale, ideologico di cui alcune opere sono espressione e della conoscenza di un codice fisiognomico teorico di riferimento, la fruizione si accompagna a principi intuitivi, naturali, permettendo una identificazione con l’artista e la sua opera, prima a livello empatico, automatico, riflesso, poi più strettamente cognitivo. Freud a tal proposito parla di “mimica rappresentativa”, riferendosi ai contenuti delle rappresentazioni che l’uomo tende a raffigurare mediante i movimenti espressivi. Murray Smith ha introdotto il concetto di “mimica affettiva”, cioè la reazione istintiva di fronte a talune espressioni. Ma le fasi dell’impatto emotivo e naturale e del¬l’ “entrare dentro” la situazione, in un processo di identificazione proiettiva, a cui segue il bisogno di conoscenza e di accoglimento dell’altro, nell’esperienza descritta si sono succedute in tempi così rapidi da sovrapporsi, da fondersi e costituire una intensa e coinvolgente “cattura”. La “cattura” avviene rispetto al riconoscimento di emozioni elementari ed universali come la paura, la rabbia, il dolore, il piacere, emozioni che non restituiscono una caratterizzazione individuale, in quanto comuni a tutti, ma soprattutto rispetto alle modalità scelte dall’artista per raccontarle, all’originalità e alla peculiarità esperienziale, alla sua forza, al suo linguaggio. La “cattura” diventa il risultato di meccanismi associativi: un volto senza nome, senza identità che esprime la propria personale storia, come se gli appartenesse, quasi la conoscesse fin nelle sue intime digressioni. La “cattura” esplicita il contorto e delicato rapporto tra fisicità e stati dell’essere, tra esteriorità e aree distali, riporta al continuo rimando dall’uno all’altro, in un gioco di ristrutturazioni e revisioni delle proprie componenti. La “cattura” richiama la riflessione verso l’assoluto, l’eterno, verso la tensione dell’uomo a cogliere l’ineffabile, ma contemporaneamente a riferirsi alla relatività della realtà che lo investe e che con forza si impone alla sua volontà. La “cattura” alimenta l’immaginario e permette l’andare oltre il proprio vissuto per incontrare il vissuto dell’artista, l’altro da sé, un mondo diverso, ma che ha gene¬rato lo stesso, identico, violento travaglio.
Avventura psicologica e intellettuale affascinante, che mi ha condotto, in un viaggio denso di sofferenza e riflessioni, di perdite e di conquiste, alla ricerca di nuove identità albergate dentro di me, alla consapevolezza accresciuta della varietà e della ricchezza dell’esperienza umana, alla conoscenza di un artista. Attraversarsi, riconoscere i segni lasciati dal proprio passaggio, fissarli … e da quel volto al proprio volto, in una trasfigurazione sofferta, intensa, quasi magica.

Bibliografia
Clark K. (1939), Leonardo da Vinci, Cambridge: The University Press.
Duchenne de Boulogne G.B.A. (1962), Mècanisme de la physionomie humaine ou Analyse èlèctrophysiologique de l’expression des passions, Paris: V.Renouard.
Ferrari S. (1998) La psicologia del ritratto nell’arte e nella letteratura, Bari: Laterza.
Freud S. (1905), Il motto di spirito, Opere, vol. 5, Torino: Boringhieri, 1972.
Leonini L. (1988), L’identità smarrita, Bologna: Il Mulino.
Rainer A. (1978), Catalogo opere. Edito in pro¬prio.
Smith M. (1995), Engaging Characters. Fidion, Emotion and Cinema, Oxford: Clarendon Press.

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