L’amore per la parola

Intervista a Giuseppe Civitarese

di Maria Paola Ferrigno

immagine Civitarese

Considerando la tua ricca produzione scientifica mi sorge subito una domanda: qual è il lavoro cui sei più legato?

Mi verrebbe da dire quello che sto scrivendo al momento, anche perché quando una cosa è finita è andata, non ti appartiene più, mentre ciò a cui stai lavorando ti cimenta profondamente. In questo periodo sto scrivendo qualcosa sul tema bioniano delle ‘trasformazione in allucinosi’.   Mi ci sono dedicato negli ultimi tempi con passione e, come spesso accade nel complicato processo della scrittura, c’era qualcosa che, nel lavoro, non ‘girava’, qualcosa che sentivo, in un certo senso, bloccato. Ad un certo punto, però, e il bello della scrittura è proprio questo, mi è sembrato di trovare una strada, facendo e rifacendo, attraverso un processo che è sempre piuttosto misterioso. È straordinario come, improvvisamente, leggendo e rileggendo, correggendo e rivedendo il testo, hai l’impressione che gli intoppi vadano a posto e, proprio come accade con i pazienti, le cose acquistino senso ll’improvviso. È un processo simile all’esperienza estetica nell’arte, c’è un profondo emotivo che viene coinvolto e, a un tratto, la sorpresa, un ritmo felice che si impone, molto convincente, e tu senti di avere intuito forse qualcosa di prezioso, il che non esime dal mantenere sempre un atteggiamento molto critico rispetto alle cose che fai. In quei momenti conquisti un ritmo emotivo che comprende corpo e mente, una sorta di nuova integrazione/coesione psico-somatica, come dice Winnicott, il corpo nella parola. È quello di cui parla Bion quando indica il linguaggio dell’effettività: come possiamo toccare e raggiungere l’altro con le parole. È evidente come la scrittura sia strettamente legata alla clinica. Anche nella scrittura non puoi forzare le cose, devi darti tempo per permettere non solo il lavoro conscio ma anche inconscio e preconscio finché, a un tratto, ti ritrovi a quello che ti appare come un possibile punto di arrivo. Ci vuole tenacia, lavoro e tempo, e anche una continua correzione. Ma se guardo indietro, ai lavori che ormai sono ‘andati’, quelli che considero con più indulgenza sono le pagine delle vignette cliniche che, rileggendole oggi, ancora mi divertono o mi emozionano. Resto sorpreso, talvolta, nel constatare che anche a distanza di tempo – e il tempo è implacabile – mi risuonano ancora con una certa vivezza e freschezza. Infine è necessario tollerare che non puoi scrivere il ‘lavoro perfetto’. Come mi ha detto una volta Antonino Ferro, che è stato uno dei miei supervisori, ‘c’è sempre una lavatrice che lava più bianco’, una frase che mi ha aiutato moltissimo. Ancora guardandomi indietro, se penso a singoli lavori, penso al primo lavoro pubblicato sull’IJP e, ancora, ‘Trascendere la cesura’ e il lavoro sulla metalessi nell’interpretazione, perché forse hanno un briciolo in più di originalità degli altri. Mi rendo conto anche che della maggior parte dei lavori che ho scritto, quelli che amo di più, come quelli appena menzionati, sono tutti un po’ alla frontiera con la narratologia e la filosofia. Penso che le cose migliori nascano spesso quando ci si assumono i rischi delle contaminazioni con altre discipline.

Quello che hai appena detto mi offre la possibilità di un’altra domanda: lo spazio onirico in seduta è popolato anche dalla tua passione filosofica (Derrida, Merleau-Ponty, ….), dai tuoi interessi letterari e cinematografici, oltre che dal pensiero di Bion, Ogden, Grotstein, un casting davvero molto popolato: qual è la tua bussola? Forse tutte queste ‘presenze’ hanno a che fare con quella esperienza estetica che tu ritieni un elemento profondo della psicoanalisi? E il vecchio Freud come vi convive?

Non so se posso riconoscere di avere una bussola. So però di essere molto curioso e che ciò che mi porta, e talvolta mi spinge, è il coraggio (o l’incoscienza) dei mei ‘coup de coeur’, il farmi trasportare dagli innamoramenti; così è stato per Freud, Derrida, un certo Barthes, per esempio. Poi ci sono state anche delle bussole. Per esempio, Bion, a mio parere, è stato reso fruibile soprattutto dai post-bioniani; e anche per me, ciò che mi ha aiutato nella mia lettura di Bion, che inizialmente trovavo ostico, la mia bussola è stata Sandler, il suo libro ‘The language of Bion’, purtroppo non ancora tradotto da noi, letto e riletto appassionatamente un’estate al mare. Riconosco che una cosa che mi spinge molto nel mio modo di studiare la psicoanalisi e in definitva poi anche di lavorare – che popola il mio lavoro di tante ‘presenze’ – è la passione antichissima per la lettura, il nostro abitare il mondo attraverso la lingua, il flusso di coscienza cui chiedi di aiutarti a reintegrare ciò che è scisso. In un bellissimo racconto di Ingeborg Bachman, ‘Simultaneo’ (in ‘Tre sentieri per il lago’, di Adelphi), c’è una traduttrice simultanea, Nadja, che traduce per non pensare e non elaborare il lutto della perdita del suo paese, della sua città, ma in definitiva della madre, è alienata dalla sua vita, fino a quando fa un incontro e tutto cambia, si riappropria delle sue emozioni scisse attraverso un processo molto doloroso. Le diviene evidente come si può abitare una lingua oppure alienarsi in essa, lo stesso senso di spaesamento espresso da Michel Leiris in L’Afrique fantôme quando scrive: ‘Être loin d’une femme et vivre dans l’absente, qui est dissoute et comme évanouie, n’existe plus en tant que corps séparé, mais est devenue l’espace, la fantômatique carcasse à travers laquelle on se déplace’. La lingua è la lingua materna, il corpo materno. Come fare stare insieme tutto: anni fa mi capitava a volte di chiedermi se non fossi dispersivo nei miei interessi. Da un bel po’ ormai ho smesso di avere questa preoccupazione perché mi sono reso conto che, invece, quando scrivo e lavoro, le cose riaffiorano secondo un’inconscia necessità, e che così le accolgo. Le tante curiosità tornano come in una rêverie – secondo me c’è un forte parallelismo tra scrivere e lavorare – quel processo psicologico di elaborazione che dà una costanza e un ordine emotivo a ciò che scrivi, come anche nel leggere, quando hai la sensazione che una lettura ti aiuta a conquistare una pienezza di vita. Per me Ogden e Ferro sono gli Autori più preziosi ma il primo resta Freud che è la base di ogni altra lettura: non puoi capire Bion se non hai capito Freud e non puoi entrare nella cornice teoretica intersoggettiva di Bion se non hai compreso l’ottica uni-personale di Freud. Molta psicoanalisi si è sviluppata su quella che Freud stesso definisce una ‘finzione’, lo sviluppo che lui propone del bambino è in parte una finzione. Bion invece sottolinea l’importanza della relazione e della funzione della mente della madre, e questo è quello che più mi interessa. Ma insomma, la passione per Freud è intatta! E non accetto che qualcuno si autonomini per così dire interprete autorizzato o avanzi diritti di ‘copyright’. Mi sono anche chiesto a volte se mi sarei appassionato alla psicoanalisi se Freud non fosse il grande scrittore che è. La domanda anche mi inquietava un po’, perché sembrerebbe implicare un aspetto estrinseco di seduzione. Mi sono poi risposto che è importante, invece, che gli Autori principali della psicoanalisi siano anche grandi scrittori: se noi vogliamo rendere la complessità della psiche, quando scriviamo è necessario esprimere anche la nostra soggettività, che diventa lo stile della nostra scrittura e la garanzia della nostra comprensione estetica/integrata dell’oggetto-mente. Mi pare di essere arrivato a capire che la qualità della scrittura sia sostanza e non ornamento in psicoanalisi, e che pertanto, non è affatto accessoria. Non solo, ma una scrittura psicoanalitica più ‘scientifica’, depurata, formulistica sarebbe un fallimento o una specie di auto-fraintendimento.

Realtà esterne e realtà interne, realtà storica ma anche campo, sensorialità e proto emozioni: sembrerebbe una difficile convivenza. Come fare convivere piani così diversi?

Sì, vi sono state e vi sono tante polemiche tra gli analisti a proposito della necessità di scegliere una prospettiva uni-personale o bi-personale, un solo modello o più modelli. Il punto essenziale per me è tenere ben presente che qualsiasi prospettiva è convenzionale e non assoluta. Io lavoro con un modello intersoggettivo ma credo che per i nostri scopi non possiamo rinunciare al soggetto e a tenere sullo sfondo una psicologia del soggetto separato. Merleau-Ponty direbbe che un soggetto è sempre in un ‘campo di relazioni’, ma pure lui è stato accusato di tendere a costruire una ‘metafisica del corpo’. Spinta alle sue estreme conseguenze la sua stessa filosofia, che io amo, porterebbe a dissolvere l’idea stessa di un soggetto che conosce. In ogni caso, le prospettive che ritagliamo per guardare al mondo sono quelle più utili per le finalità della nostra disciplina. Il modello del campo bi-personale è, a mio parere, la visione che nel lavoro clinico si dimostra più trasformativa e ci permette di espandere al massimo il paradigma onirico, che ovviamente è centrale già in Freud. È possibile vedere tutta la seduta come un sogno. L’altro essenziale principio freudiano portato alle estreme conseguenze è quello della comunicazione inconscia tra le menti. È evidente allora che neppure l’analista è trasparente a se stesso e che il senso si struttura sempre in ritardo, in après coup, e anche questa nozione è centrale in Freud. Anche se ci ha dato gli strumenti per cogliere gli aspetti espressivi del sogno, Freud però ne ha privilegiato l’aspetto traduttivo per una preoccupazione di maggior scientificità. Oggi vediamo il sogno più come una specie di poesia della mente che è necessaria per una continua digestione del reale per dare un significato personale all’esistenza. Come si vede, per me è essenziale la conoscenza di Freud, però non bisogna cadere nello stereotipo secondo cui Freud ha già detto tutto. Innanzitutto perché non è vero, e in secondo luogo perché, quello che Borges dice di Kafka, che ha creato generazioni di precursori di Kafka, vale anche per Freud. Vale a dire che troviamo molte cose in Freud, ma solo perché sono state valorizzate al massimo da Autori successivi. Cosa possiamo fare noi psicoanalisti con i nostri pazienti? Non possiamo cambiare il passato né le caratteristiche del loro mondo esterno, ma possiamo aiutarli a modificare la realtà psichica. L’atteggiamento che si ha rispetto alla biografia e alla realtà materiale cambia anche a seconda dell’idea che uno ha dei fattori terapeutici principali: se Freud sottolineava l’importanza della traduzione dall’inconscio al conscio, oggi sembra più importante raggiungere un unisono emotivo, come dice Bion. L’unisono emotivo, come aiuta il bambino che ancora non ha una capacità riflessiva, in una sorta di ancoraggio alla mente della madre, così consente al paziente di dare un ordine alla sua esperienza di vita. Tenere sullo sfondo la visione del soggetto isolato non penalizza una visione più corretta della biografia e della realtà materiale. Più riusciamo a capire come interagiamo con il paziente, e lui con noi, e più abbiamo un modello affidabile di come lui strutturi e abbia strutturato le sue relazioni al di fuori dell’analisi. Ma, ripeto, assieme al punto di vista più logico e razionale sulla biografia del paziente è importante guardare la realtà psichica, la realtà dell’inconscio in modo più rigoroso: c’è da chiedersi in base a quale criterio attribuiamo alcune cose al passato del paziente o all’esterno e quali le riferiamo invece al transfert e all’analisi. Se, per esempio, il paziente ha subito un abuso a sei anni, di questo aspetto della sua storia l’analista può avere una comprensione razionale oppure entrare in una identificazione conscia, può costantemente fare appello ai propri ricordi e a qualche cosa che può avere sofferto; è più difficile invece pensare al ‘personaggio’-abuso non solo come a un personaggio del passato del paziente ma anche come a un modo in cui il paziente e la coppia, inconsciamente, presentificano qualcosa che sta avvenendo lì, tra loro, un aspetto ‘abusante’ dell’uno o dell’altro o, anche della coppia in sé. Questo è molto difficile, è la cosa più sistematicamente incompresa o travisata della teoria bioniana del campo analitico, l’aspetto per cui non c’è commentatore avverso che rinunci alla famigerata nozione di ‘deriva’ – esercitare la critica ovviamente è legittimo, ma confesso che a volte penso che mi piacerebbe se ci fosse un Flaubert della psicoanalisi per raccontare dei nostri Bouvard e Pécuchet – perché significa prendersi più responsabilità rispetto a quello che succede e al proprio inconscio. Occorre naturalmente precisare che se da un lato bisognerebbe vedere tutta la seduta come sogno, ciò non va fatto in modo meccanico, come se uno monitorasse in modo troppo vigile il significato della conversazione vista dall’ottica del pensiero onirico della veglia. È necessario oscillare invece tra immersione e interazione, lasciarsi perdere nel racconto anche storico o della realtà materiale per farsi sorprendere poi da una visione diversa. In caso contrario, tutto diventa una sterile traduzione simultanea che serve solo a non pensare, come nel racconto della Bachman. Idealmente le teorie ci dovrebbero ritornare alla mente dopo essere transitate attraverso un lavoro psicologico inconscio, la rêverie, la capacità negativa. Tutto, così, diventa più autentico e più appassionante nell’incontro della seduta, un’avventura che vale la pena di vivere. Ci possono essere livelli diversi per apprezzare l’onirico in seduta; non solo la rêverie, per esempio, ma anche il dispositivo più conscio e intenzionale della ‘trasformazione in sogno’ di Ferro, che vuol dire premettere a qualsiasi comunicazione la frasetta ‘ho sognato che’. È evidente che in seduta funzioniamo a livelli diversi e a seconda dei casi utilizziamo diversi attrezzi concettuali.

Qual è la tua visione sull’interpretazione?

Il modo in cui si concepisce l’interpretazione dipende dai modelli di riferimento. Da un lato c’è l’idea di una interpretazione tradizionale, quella fatta al momento giusto, completa perché prende assieme passato, presente e transfert. Un altro modo è concepire l’interpretazione in senso meno specifico, come ciò che aiuta il paziente a crescere dal punto di vista psichico e lo mette in grado di sognare la realtà e di diventare un ‘narratore’ migliore della propria storia di vita. Non c’è bisogno di dire tanto una verità che sia frutto della sola mente dell’analista, e da un certo punto di vista questa sarebbe una non-verità, ma è più utile introdurre elementi onirici nel campo analitico, quella ambiguità che ti fa vedere la realtà da tanti punti di vista, ed è questo che poi ti commuove. Un’interpretazione debole, enzimatica, narrativa favorisce la creatività del paziente, non la blocca. È necessaria anche la sostenibilità dell’interpretazione: una cosa vera per me e non tollerabile per il paziente rischia di essere traumatica. Per modulare i propri interventi, una possibile bussola sono i derivati del pensiero onirico della veglia, i personaggi che raccontano le emozioni che via via si accendono nel campo. A rigore, se il campo è generato da entrambi è impossibile separare l’apporto dell’uno e dell’altro. L’interiorità del paziente e dell’analista sono luoghi del campo. Quel che conta è come portiamo avanti la narrazione che scriviamo insieme, quali sviluppi narrativi sono possibili, se questi sviluppi sono trasformazioni positive o no. In questa prospettiva possono benissimo starci anche le interpretazioni di transfert, purché siano intese anch’esse non come verità assolute, ma come uno dei generi narrativi possibili, se per quel dato paziente la cosa è comprensibile e se serve per comunicare. Non possiamo dimenticare che all’inizio la mente del bambino si sviluppa senza che lui abbia una comprensione semantica del discorso, ma solo semiotica, musicale. Il modello del gioco vale anche per l’analisi degli adulti.

Leggendo i tuoi scritti di tanto in tanto ci si ritrova in Francia, poi in Inghilterra, altre volte in America e poi in Sud America, una sorta di biglietto circolare: non ti sei mai perso? A cosa devi la sicurezza con cui, al di là di questo girovagare, ti ritrovi sempre con il tuo paziente, nell’intima stanza dell’analisi?

Penso che sia necessario perdersi. D’altronde la psicoanalisi nasce chiudendo gli occhi, entrando in uno stato ipnoide, è necessario perdersi nel sogno. Va anche detto che, come Dostoevskij scrive sempre ‘Delitto e castigo’, e anche i grandi Autori della letteratura e della psicoanalisi scrivono sempre lo stesso libro, così ognuno di noi non fa che girare attorno alle stesse cose, ossessivamente. E allora, che cosa vuol dire perdersi? La psicoanalisi nasce perché Freud accetta di perdersi, per così dire, considerando oggetti che prima non erano degni dell’attenzione della Scienza. Perdersi nel lavoro clinico può significare provare a essere senza memoria e desiderio, ma si sa che memoria e desiderio tornano nella rêverie, sono loro che non si dimenticano dell’analista. C’è sempre un momento di sintesi. Insomma, in analisi perdersi è anche un’arte. C’è poi l’esperienza di sentirsi persi nella vita, che prima o poi arriva a tutti. Anche questo è fondamentale, perdersi nel dolore, nelle angosce, cose che tutti viviamo. Anche in questo senso posso dire che a volte mi sono sentito perso. C’è poi la Babele delle lingue della psicoanalisi: confusione o ricchezza? Forse un po’ dell’una e un po’ dell’altra. Ognuno deve trovare il proprio centro. E non posso non ricordare le mie due analisi, molto diverse tra loro: una con un analista di ‘lingua’ francese, e l’altra con un post-kleiniano, le identificazioni inconsce con i miei supervisori ecc. Infine, come dice Ogden, è necessario perdersi nel senso di ricreare la psicoanalisi con ogni paziente e, con lo stesso paziente, in ogni seduta, e questo è davvero commovente. È importante, comunque, essere se stessi, non in modo spontaneistico ma disciplinato. A proposito del perdersi, un’altra cosa che mi viene in mente è che io, per esempio, resto un abruzzese, e anche se trapiantato a Pavia, mi sento sempre un po’ straniero, provengo da una Terra che, pur essendo così vicina alla grande civiltà di Roma, resta un po’ primitiva, ruvida e anche selvaggia. E comunque qualcuno ha detto, non so se Lacan, che per tutti la condizione normale è l’esilio.

In buona sostanza, qual è la ricetta che potresti indicare, per esempio, ai giovani analisti e ai candidati perché possano diventare curiosi viaggiatori senza perdere l’orientamento?

Farsi guidare dalla passione mi sembrerebbe una prima indicazione, quella passione che accomuna tutti gli analisti, che non mancano mai di sottolineare questo aspetto: la scelta appassionata del proprio lavoro. E, ancora, la curiosità e la disponibilità a lavorare tanto. Se c’è anche un po’ di talento è un aiuto, ma di certo bisogna lavorare tanto, che vuol dire anche studiare tanto.

So che, da buon lettore, sei interessato anche alla scrittura della psicoanalisi- tanto che ne fai uno dei punti di forza del tuo programma elettorale in vista delle prossime elezioni SPI- quale è, per te, l’essenza della scrittura psicoanalitica, ciò che consente la preparazione di un buon piatto, che sia invitante, gustoso e facile da digerire?

Deve essere, idealmente, una scrittura viva, la sintesi ‘estetica’ di corpo e mente, stile e teoria; tutte cose che troviamo in Autori molto diversi tra loro, come Freud, Winnicott, Ogden, in un modo molto particolare anche nella Klein, quella qualità della scrittura che ti emoziona e ti convince perché mentre ti parla di una cosa te la fa anche vedere e vivere. Bion, per esempio, si chiede continuamente quali siano le ‘evidenze’ della psicoanalisi e come parlare ai pazienti e contemporaneamente come scrivere, ed è uno di quelli che riesce a dire mostrando. Se parliamo di verità intendiamo quella emotiva, nell’ordine dell’esperienza estetica, e ci riferiamo a qualcosa che ti parla e ti arricchisce emotivamente oltre che cognitivamente e che fa avvenire in te una trasformazione. Quando parli al paziente anche tu hai ricomposto, dentro di te, quindi in un luogo del campo, una qualche coesione psico-somatica, qualcosa che può anche rimanere muto ma è proprio a partire da questa esperienza che puoi azzardarti a dire qualcosa al paziente. Nella scrittura si pone lo stesso problema: come parlare al lettore in modo da aggiungerlo? Anche questa è una conquista, richiede un processo di continuo affinamento. La cosa più difficile e importante è trovare la semplicità delle parole vive. Ai colleghi in supervisione a volte propongo un esercizio: provare a dire la stessa cosa che hanno detto al paziente (in modo scolastico), per esempio, in dialetto o come la direbbero a un amico al bar o a una persona che conosce poco l’italiano. Provo insomma ad aiutarli a trovare un modo più affettivo e semplice, nella scrittura come nella clinica, e questo richiede un immenso lavoro, e ogni volta è gratificante avere l’impressione di fare un passo avanti. Infine, è importante avere (cercarsi!) dei buoni maestri, ma poi devi vincere la sfida di trovare la tua voce.

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