di Tiziana Sola
“La terra non conosce odio, ma solo amore tramutato in odio, e l’inferno non è che la delusione di un bimbo”
Ian Dishart Suttie
Nel rilassarmi per la pausa pranzo si fa per dire, ascolto come al solito il notiziario nazionale. Tra le vicende della cronaca politica tanto ripetitive quanto sconfortanti, l’ennesimo fatto di cronaca nera: una donna trovata esanime e sanguinante sul letto con un feto morto a fianco. Si chiarisce poi che il marito è fuggito con la figlia, simulando un viaggio e lasciando una lettera a fianco alla moglie incinta nella quale scriveva “partorisci tranquilla e poi raggiungimi”; ciò per nascondere il fatto di averla malmenata così brutalmente al punto da farla partorire. Mi si blocca lo stomaco e mi chiedo cosa possa indurre un individuo a commettere un atto così efferato, quale distruttività si celi negli antri più reconditi dell’essere umano… Non passa una settimana che la stampa, nella sadica ricerca del raccapricciante cui dà prova ogni giorno, snocciola un nuovo fatto di cronaca: una donna sul punto di suicidarsi su un ponte, non ricordo di quale località, con un bambino a casa, appena strangolato. Ancora una donna disperata vittima della sua impotenza, penso con angoscia, la cronaca ce ne ha offerte molte di vicende simili in questi ultimi tempi…
Successivamente le notizie si accaniscono invece sul problema del bullismo a scuola: un gruppo di alunni malmena un ragazzo disabile facendone persino un filmino trasmesso via Internet. Qui sono avvilita, e lo divento ancor più quando, parlando con alcuni colleghi francesi, mi dicono che anche da loro il disagio giovanile offre più o meno lo stesso scenario. Mi sembra di essere circondata da un orrore incombente: a parte la crudeltà di aggredire un ragazzo indifeso, quale sadismo può celarsi nel gusto di farne un film e mostrare a tutti la bravata…
Sul momento, sconcertata, penso solo che noi psicologi dovremmo essere al passo con i tempi. Intendo dire che le forme di disagio assumono volti nuovi perché la psiche si modifica anche in relazione agli spaventosi e vorticosi cambiamenti della realtà tecnologico-globale.
Il mio pensiero tuttavia, stranamente, va all’invidia.
Da diverso tempo ho in mente questa parola, so che sarà il nuovo tema di “Impronte” e vorrei scriverci qualcosa su, particolarmente intrigata a ricercare le sfaccettate espressioni dell’invidia nella vita di oggi, nella psicopatologia della vita quotidiana, perché a me sembra che essa, nelle sue forme più arcaiche, sia alla base di comportamenti estremi come quelli citati, ed azzardando ancora di più mi sembra che l’invidia sia oggi il sentimento prevalente della nostra società, le cui relazioni sono afflitte dalla ricerca febbrile di gratificazione narcisistica, inficiando persino i legami d’amore, ridotti quasi a beni di consumo o a sostegni affettivi per debellare una angoscia di solitudine sempre più incontenibile. Una società fondata sulla caducità delle identità e sulla fragilità della dimensione intima degli individui, che un grande sociologo polacco, Zygmunt Bauman, in una bella ed illuminante disquisizione sulla identità (Barman, 2006), chiama “modernità liquida” per definire il mondo di oggi dove tutto è sfuggente, veloce, precario; realtà che potenzialmente attenta gli assi portanti della sicurezza interna orientando le identità degli uomini non più verso la conquista di una stabilità bensì verso la ricerca di ruoli più volatili, e specialmente attraverso lo strumento Internet, verso l’espressione delle cosiddette identità prêt à porter.
Antica quanto il genere umano l’invidia penetra da sempre le trame dei rapporti, oggi sempre più slabbrate, che gli esseri umani tessono fra di loro, perché tutti, senza esclusioni di sorta, sperimentiamo prima o poi il doloroso confronto con la superiorità altrui. E’ un sentimento spiacevole e difficile da gestire, il più delle volte mascherato perché la sua natura è spregevole, legata all’odio dell’altro ed è stato, lo sappiamo bene, al centro dell’indagine psicoanalitica nelle diverse posizioni teoriche che storicamente hanno messo a confronto i cardini fondamentali della teoria freudiana sull’invidia del pene con quelle di altri autori, prima tra tutte quella sull’invidia originaria di M. Klein, fondata sull’esplorazione delle fasi precoci dello sviluppo infantile.
E’ considerata da tanti il più distruttivo e freddo dei “vizi” capitali perché è rivolta contro tutte le virtù e tutte le bontà tanto che persino Dante, nel Purgatorio, vestì gli invidiosi di cilicio e cucì loro gli occhi con un fil di ferro… e non casualmente ha attirato la curiosità di tanti filosofi come Kierkegaard, Kant, Nietzsche, Schopenhauer, accomunati dalla volontà di scoprire l’origine delle bassezze più ignobili dell’essere umano. Kierkegaard ad esempio aveva intuito che una società che tende a livellare, oggi oserei dire globalizzare, induce più invidia negli individui. Kant sottolineava che l’invidia è contraria alla persona perché ci distoglie dal vedere il nostro stesso bene, messo in ombra dal bene degli altri. Nietzsche invece riteneva che le guerre fossero fomentate dall’invidia e dalla competizione fra i popoli. E ancora Schopenhauer, più psicoanalitico di tutti, aveva colto la natura “bestiale” dell’uomo che la civiltà dovrebbe domare ed educare, anche se tale impresa è raramente condotta a termine; in altre parole riteneva che l’odio, l’ira, la malignità covano sempre nel petto di ogni uomo per risvegliarsi alla minima opportunità. Intuizioni di grandi pensatori, illuminanti nel ritrarre le diverse sfumature di un sentimento tanto umano quanto ripudiato.
Tuttavia l’invidia alla quale mi riferisco e che penso sostenga meglio il mio discorso iniziale è qualcosa di più endemico, di più primitivo ed inelaborato. Per caso (o forse non a caso) risfoglio dopo tanti anni uno dei testi chiave di M. Klein, Invidia e gratitudine (Klein, 1957), e trovo i suoi concetti di straordinaria attualità. Perché le intuizioni di questa autrice, a tratti ostica e per molti ancora oggi incomprensibile, tentano di cogliere le radici arcaiche della distruttività, a partire dall’esplorazione dell’intricato rapporto di odio-amore che il bambino sperimenta precocemente nei confronti della madre.
Nello sviscerare le vicissitudini dell’invidia primaria, un sentimento sperimentato dal bambino nelle prime esperienze in ragione dell’onnipotenza attribuita alla prima fonte di nutrimento e di gratificazione, la Klein si focalizza sui sentimenti ambivalenti di invidia e di aggressività verso il seno materno che, se troppo forti, possono minare la capacità di godere del bambino e la possibilità di stabilire un rapporto solido e gratificante con la madre. L’armonia del rapporto materno, seppur intrisa di ambivalenza tra amore e odio, è condizione fondamentale per l’introiezione di un buon oggetto interno e per la creazione di solide basi dell’Io. La Klein riteneva che la forza estrema degli impulsi sadici danneggiasse il rapporto con la madre e non permettesse al bambino né un sano distacco da lei, né la possibilità di accogliere, nel proprio mondo affettivo, altre figure importanti (triangolazione edipica col padre, i fratelli, ecc.), altrettanto ambivalenti suscettibili però di diluire questa distruttività.
Da ciò ne deriva che l’essere in crescita intriso di odio, privo dell’esperienza di appagamento, non riesce a sviluppare né la capacità di amare, di provare gratitudine, né di esprimere e realizzare le proprie potenzialità creative e con tutta probabilità tende a sviluppare un rapporto disturbato se non morboso con gli altri. Ciò perché le qualità altrui, in virtù del narcisismo traballante dell’invidioso, risultano estremamente idealizzate. Egli non riesce a valorizzare se stesso poiché ciò che è posseduto dall’altro, sia una qualità o un bene concreto, risulta sempre più attraente e fonte di afflizione. Di qui, lo sviluppo di una diffidenza che porta tanti di essi a proiettare la propria invidia sugli altri e a ritenersene addirittura vittime e, nei casi peggiori, il propagarsi di un subdolo rancore persecutorio può esplodere in modo distruttivo in momenti particolarmente sfavorevoli della vita.
Così atti efferati simili a quelli raccontati testimoniano di una distruttività dilagante ai giorni nostri, espressione di un malessere spesso tragicamente silenzioso che al momento dell’esplosione lascia sgomenti familiari e conoscenti, sovente trincerati dietro frasi tanto anodine quanto ripetitive: “era una persona normalissima, tranquilla, educata”. Quasi a ricordarci che la follia si cela sempre più insidiosamente dietro i volti della supposta normalità.
La “deflagrazione” dell’aggressività può scatenarsi anche quando il mondo circostante, sempre più fluttuante nei modelli proposti, ed incline a valorizzare stili di vita estremamente competitivi e consumistici, alimenta il senso di inadeguatezza e di spaesamento in quelle identità più fragili, dunque più soggette al rischio di soccombere nelle occasioni di confronto con l’altro. E’ così che un marito fallito, sconfitto nelle proprie aspirazioni e deluso dalla vita, può scagliare tragicamente la sua rabbia sulla moglie, vittima in tal caso del risorgere di antichi fantasmi d’amore-odio materni mai del tutto placati, la cui violenza può essere tanto più forte quanto più grande è stata forse l’idealizzazione e la delusione di quell’amore. O una donna infelice e depressa, atterrita dalle pressioni di un ruolo materno forse mai veramente accettato, si accanisce contro la sua stessa creatura, ignara dei propri autentici desideri ed impotente nell’elargire l’inesauribile apporto d’amore di cui necessita ogni bambino.
Personalmente oso considerare queste tragiche vicende quasi una morbosa provocazione rivolta al genere umano pensante per indurlo a porsi il problema delle radici di tanto odio verso sé stessi e verso la vita. Non è casuale, a mio avviso, che il pensiero di grandi psicoanalisti come A. Green, ad esempio, si orienti al momento verso una riattualizzazione del concetto di pulsione di morte, tentando di comprendere, sulla scia dei drammatici eventi che caratterizzano la nostra epoca, quali forze spingano gli esseri umani a distruggere, a massacrare i propri simili o ad annientare sé stessi. Il suo ultimo lavoro, fresco di stampa, Pourquoi les pulsions de destruction ou de mort? (Green, 2007), è una chiara riflessione su quanto la psicoanalisi possa rispondere ad una tale complessa interrogazione. Nell’esigenza di ripensare la visione freudiana dell’istinto di morte e del suo intricato rapporto con l’istinto di vita, Green riavvicina le due pulsioni come facce di una stessa medaglia, esortandoci all’idea che l’uomo è fatto di entrambe e che la sua vita in fondo è il risultato dell’intricarsi e del districarsi di queste due polarità. E soffermandosi sull’effetto di supporto che Freud fa giocare al narcisismo, impalcatura di sostegno contro gli assalti della pulsione di morte, egli restituisce priorità e pregnanza all’amore oggettuale: è l’amore dell’altro o per l’altro, malgrado l’ambivalenza, a garantire la salvaguardia della pulsione di vita e a far sì che questa abbia la meglio su quella di morte. Un aspetto non trascurabile che, in modo sia pur rocambolesco, mi viene da associare al pensiero datato ma di indubbia modernità di un altro psicoanalista, eretico pioniere degli studi sulle relazioni oggettuali, Ian D. Suttie di cui, altrettanto non casualmente, è appena uscita la traduzione italiana della sua opera chiave (pubblicata per la prima volta nel 1935), Le origini dell’amore e dell’odio, Prefazione di J. Bolwlby (Suttie, 1988). Scozzese, ingiustamente isolato dall’estabilishement psicoanalitico inglese degli anni venti-trenta per le sue aspre avversità riguardo alle posizioni teoriche di Freud, Suttie, sulla scia delle idee altrettanto rivoluzionarie di Ferenczi, fonda la sua concezione dello sviluppo dell’uomo sul “bisogno di compagnia” ovvero sull’amore. Un amore a connotazione protettiva oltre che sessuale, linfa vitale che anima il rapporto privilegiato del bambino con la madre, da cui lo stesso trae il conforto necessario per sviluppare il senso di sicurezza.
Sono certo idee presenti nel nostro DNA di clinici, avendo fatto proprio il contributo di grandi autori come Bowlby, Winnicott, Balint, tutti quelli cioè che all’epoca si discostarono dalle posizioni classicamente freudiane attingendo in buona parte proprio dalle idee di Suttie, anche se non tutti lo riconobbero apertamente. Tuttavia l’aspetto più interessante per il nostro tema è che per questo autore l’odio e l’aggressività sono concepite esclusivamente come il risultato di un amore frustrato, per cui atteggiamenti di rabbia estrema assumono il senso di una disperata richiesta di aiuto o di attenzione. Suttie, a differenza della Klein che attribuisce una natura pressochè innata agli impulsi sadici del bambino verso la madre, rifiuta l’idea che l’uomo sia animato da impulsi distruttivi fine a sé stessi ed assegna una ragione esclusivamente affettiva all’odio, come forma estrema di protesta o di rimprovero riguardo ad una carenza di attenzioni e di amore. Così odio e amore risultano anch’essi lati di una stessa medaglia o come dice l’autore stesso “forme intercambiabili di un unico sentimento sociale” (op. cit., p. 51), sottolineando per giunta l’importanza della condivisione dell’esperienza e il valore rassicurante del senso di integrazione sociale.
Ed è proprio quando il senso di appartenenza scema perché le proprie forze non reggono ad una società che infligge colpi implacabili e la minaccia di restarne ai margini è sempre più incombente, l’odio e l’aggressività degli esseri più fragili e senza risorse interiori esplode senza limiti trascinandosi dietro quella che a mio avviso è la colpa o la condanna maggiore: l’impossibilità di riuscire ad essere. Le conseguenze più gravi dell’invidia non elaborata risiedono appunto nella impossibilità di ricercare la propria strada, il proprio orizzonte, e nella nostra epoca la ricerca della propria identità è fortemente condizionata dalle possibilità che offre, o che più sovente non offre, il contesto sociale di cui si fa parte.
L’identità diviene una spina nel fianco per i giovani in particolare, educati a fior di televisione, computer e play station; strumenti la cui forza abbagliante porta i ragazzi a ricercarvi protesi precarie, quando non nocive, dei bisogni più essenziali –il bisogno di amore, di incoraggiamento, di valorizzazione delle proprie capacità- lasciati “inevasi” da genitori sempre più distratti e privi di autorevolezza, e da una scuola sempre più lontana dall’universo giovanile. Anche nel piacere perverso di riprodurre i propri atti aggressivi su rete si cela, secondo me, una rabbia arcaica e vendicatrice che, in virtù del senso di impotenza che produce, mira alla ricerca di un potere tanto più aberrante quanto più estesa è la forza di propagazione quale può offrire uno strumento come Internet. In altre parole mi sembra che Internet rivesta quasi una funzione di “specchio identificatorio” di lacaniana memoria, le cui immagini, possono risultare tanto espressive ed efficaci da rimandare nella mente del giovane privo di riferimenti solidi, una sorta di conferma di sé, non importa quanto deteriore o illusoria.
Così nella ricerca di identità sempre più di “cornice” e meno di sostanza, non c’è posto per l’interiorità né per lo spazio di pensiero. I sentimenti arcaici come l’invidia tendono a rimanere tali, privi della possibilità di elaborarli in qualcosa di più costruttivo come l’ammirazione, la stima o, come suggerisce T. Bernhard, lo stupore…
E’ proprio con stupefatta emozione che ricordo di aver letto un suo romanzo, Il soccombente, superbo ritratto di un amico, Wertheimer giovane pianista virtuoso, afflitto da una invidia folle per lo straordinario talento di un altro amico, niente meno che Glenn Gould. L’impossibilità di confrontarsi con colui che non ha bisogno di brillare o promettere, perché è, porta Wertheimer ad ignorare il proprio talento, a smettere di suonare e a distruggersi in una escalation di delirio e disperazione fino al suicidio.
Vorrei concludere questo articolo lasciando il lettore proprio alle sonorità quasi ossessive delle parole di Bernhard, esemplari nel decifrare il carattere serpeggiante e proteiforme di un sentimento come l’invidia. Ma ancor di più, con la dimestichezza di chi è avvezzo a districarsi nei labirinti dell’animo umano, quasi da veggente Bernhard ci persuade di quanto sia illusorio il desiderio di essere altri piuttosto che noi stessi: “Wertheimer (invece) è sempre stato uno di quelli che continuamente e per tutta la vita e riducendosi in uno stato di perenne disperazione vogliono essere qualcun altro, qualcuno che devono credere per forza più favorito dalla sorte di loro (…) non era capace di vedere se stesso come essere unico al mondo, mentre in effetti è così che ciascuno di noi può e deve concedersi di vedere se stesso se non vuole cadere in balìa della disperazione, ogni essere umano, comunque sia fatto, è un essere unico al mondo, io stesso me lo dico di continuo e con questo son salvo” (Bernhard, 1983, p. 104-105).
BIBLIOGRAFIA
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- Bauman Z. (2003), Liquid Love. On the Frailty of Human Bonds, London: Polity Press, Cambridge, e Blackwell Publishing Ltd, (Trad. it., Amore liquido, Roma-Bari: Editori Laterza, 2006).
- Bernhard T. (1983), Der Untergeher. Suhurkamp Verlag Frankfurt Am Main (Trad. it.: Il soccombente. Milano: Adelphi Edizioni, 1985).
- Epstein J. (2003), Envy. Oxford: Univesity Press, Inc. (Trad. it.: Invidia. Milano: R. Cortina Editore, 2006).Green A. (2007), Pourquoi les pulsions de destruction ou de mort?, Paris: Editions du Panama.
- Klein M. (1957), Envy and gratitude. London: Tavistock Publications Ltd. (Trad. it.: Invidia e gratitudine. Firenze: Martinelli G. & C., 1969).
- Suttie I. D. (1988), The Origins of Love and Hate, Free Association Books (Trad. it. Le origini dell’amore e dell’odio, Torino: Centro Scientifico Editore, 2007).