di Maria Orlandi Scati
Come tutti i segni linguistici, il termine relazione è polisemico e assume quindi significanza diversa a seconda del testo in cui è inserito. Ritengo pertanto utile sottolineare uno specifico significato restringendone il campo con l’aggiunta dell’aggettivo analitico alla parola relazione. Ciò consente per altro una più precisa definizione dell’ambito di mia competenza. Nella clinica psicoanalitica l’espressione definisce il processo che si attiva nell’incontro dello psicoanalista con l’analizzando: processo che si sostanzia dei contributi di entrambi i partners e che è connotato dai rispettivi vissuti transferali e controtransferali. Questa relazione – processo si sviluppa in uno spazio condiviso “il setting” che favorisce “le premesse indispensabili per una intesa che si proietta nel futuro” ( Ferrari 1983 ). Questi aspetti caratterizzano la relazione analitica e la differenziano da ogni altro tipo di relazione comunemente intesa. Il setting ovviamente non include solo lo spazio fisico dell’incontro ma anche e soprattutto l’assetto mentale dell’analista ( laboratorio interno ) che consente tra l’altro l’ascolto contemporaneo dell’analizzando e di se stessi. La relazione analitica dunque può essere intesa come un campo bipersonale, all’interno del quale – come insegna A. Ferrari – “l’analista è sollecitato a tornare su se stesso e l’analizzando ad andare verso se stesso” ( Ferrari 1983). Questo duplice movimento di “tornare e andare” costituisce, nell’ipotesi di Ferrari, “una costante dinamica” nell’evoluzione funzionale della relazione analitica, e la trasforma in un “momento processuale”. E’ questa dimensione processuale che sollecita la funzione creativa nell’hic et nunc dell’incontro consentendo l’emergere di capacità e di risorse in entrambi i coautori. Tornare su se stesso nel senso della capacità di recuperare ed elaborare nella propria dimensione intrapsichica emozioni ed affetti suscitati dalla comunicazione dell’analizzando. In altre parole la capacità di contattare e rivisitare la propria dimensione verticale. L’analizzando è sollecitato ad andare verso la conoscenza e l’accettazione di se stesso e l’assunzione responsabile del suo specifico e irripetibile modo di essere e di sentire. La relazione analitica nella sua veridicità si caratterizza non tanto per la sua dimensione bipersonale, quanto per gli affetti e le emozioni vissute dai partners e per l’uso che rispettivamente ne fanno. (Heĭneman 1956 ).
Va altresì specificato l’altro aspetto della relazione cioè il suo essere asimmetrico proprio per la diversità dei ruoli. L’anallizzando è infatti spinto dal bisogno e dal desiderio, l’analista ha superato – dovrebbe avere superato – il proprio desiderio di curare e di ottenere buoni risultati. Deve cioè essere capace di disporsi all’incontro in assenza di memoria e desiderio”. Scrive a questo proposito Luciana Nissim Momigliano: “Il trattamento è del paziente: se il suo corso associativo si riferisce sempre a se stesso e a noi, l’interpretazione è sempre centrata su di lui; il contratto analitico sigla e garantisce che i ruoli di entrambi i partecipanti siano costantemente mantenuti (L. Nissim Momigliano 2001). L’analista cioè deve parlare all’analizzando solo di lui stesso. Vale la pena di ricordare la raccomandazione di Nicola Perrotti ai suoi allievi: “Attenzione, correte il rischio di non capire più quale differenza corre tra un analista e un nevrotico. Attenzione, a volte non si sa più chi è il paziente e chi l’analista.” ( Perrotti 1983 ).
Già Freud del resto aveva insegnato di “non rivelare al paziente altro che la sua immagine”( Freud 1912 ). Paradossalmente sembra che proprio la dimensione relazionale possa favorire la confusione dei ruoli e della realtà interna ed esterna, esitando in una falsificazione dell’esperienza analitica. Nella situazioni cliniche è frequente occuparsi di personaggi che tendono a disattendere la regola fondamentale del trattamento analitico. Quella cioè di “ dire tutto ciò affiora nella mente”. Sono individui la cui identità sembra caratterizzata da una “molteplicità” di funzionamenti pur non essendo seriamente compromessa. Personaggi che pur nella consapevolezza di albergare dentro di se affetti ostili e contradditori li dissimulano, evitando di manifestarli senza che questo provochi loro disagio o conflitti. Sono persone molto rigide e critiche nei confronti di atteggiamenti poco corretti, che loro stessi mettono in atto. Questa situazione provoca reazioni controsferali di fastidio e di rifiuto. Ricordo ad esempio una giovane donna , mia analizzanda, che si indignava per il totale disimpegno e assenza di responsabilità dei suoi colleghi di lavoro, per poi raccontare di essersi presa una pausa di riposo dal lavoro, adducendo , con certificati non veritieri, motivi di salute non esistenti. Ho ancora in mente la mia reazione di disagio nel sentirmi in qualche modo imbrogliata e la mia difficoltà nel cercare un modo di intervenire dal punto di vista della tecnica. Ritengo che la strategia difensiva in atto in questo tipo di analizzandi non sia la rimozione ma piuttosto una scissione di componenti del sé. Esiste al riguardo una ricca letteratura che spazia, per citare solo alcuni autori, da H. Deutsch a Winnicot, a Momey-Kγrle, a Gaddini, alla Baranger a Bleger, i quali hanno studiato e ricercato nell’ordine “la personalità come se “( Deutsch 1942 ), “ il falso sé “ (Winnicot 1926 ), “Fraintendimenti” ( Money Kγrle 1979 ) “I processi imitativi” ( Gaddini 1989 ). “Il nucleo ambiguo”(Barangez 1990 ), “Simbiosi e ambiguità” ( Bleger 1992 ).
Quale è dunque il compito dello psicoanalista in situazioni di questo tipo? Poiché dall’insegnamento di Freud abbiamo appreso che: “la verità è il nostro mestiere” ritengo indispensabile per uno psicoanalista la capacità di accogliere dentro se stesso l’analizzando così come è, con le sue angosce , le sue contraddizioni, che è suo compito metabolizzare, nella piena consapevolezza del processo che è in atto anche dentro se stesso. Nel nostro “mestiere impossibile” penso sia ancora più indispensabile sapere ascoltare chi ci si affida e contemporaneamente noi stessi, i nostri sentimenti, le emozioni che viviamo, le fantasie che occupano la nostra mente , nella consapevolezza che esse sono in relazione all’analizzando, per elaborarle e restituirgliele con “la proposizione analitica” ( interpretazione ). Per intervenire nel modo appropriato l’analista deve poter disporre di una capacità di contenimento all’altezza del suo compito. Deve cioè essere in grado di accogliere dentro di sé tutte le emozioni, da quelle sottili quasi impercettibili fino a quelle violente. Ogni emozione che l’analizzando suscita nell’analista deve da questi essere fatta decantare fino a trovare corrispondenze significative nella propria mente. Può essere d’aiuto il recuperare all’occorrenza la propria componente “analizzando” , che permette il farsi presente del lungo e faticoso cammino personale che ci ha condotto alla maturità emotiva, che non prescinde tra l’altro dalla rinuncia ai propri fantasmi onnipotenti.
BIBLIOGRAFIA
Baranger M. (1990), Mala fede, Identità e Onnipotenza, in W. Baranger, La situazione come campo bipersonale. Milano: Cortina.
Bleger J. (1992), Simbiosi e ambiguità. Loreto: Libreria Editrice Lauretano.
Ferrari A., Garroni E. (1979), Schema di progetto per uno studio della relazione analitica. Rivisita di Psicoanalisi, n. 3.
Ferrari A. (1983), Relazione analitica: sistema o processo. Rivista Italiana di psicoanalisi, n° 2.
Freud S. (1916), Introduzione alla psicoanalisi. Nuova serie di lezioni U. S. F. XI
Gaddini E. (1989), Sulla imitazione, in Scritti. Milano: Cortina.
Deutsch H. (1942), Alcune forme di disturbo emozionale, Psicoterapia e scienze umane, XXIII, 4: 91-108, 1989.
Money Kγrle R. (1998), Scritti. Torino: Loescher.
Winnicot D. W. (1965), Sviluppo affettivo e ambiente. Roma: Armando.