Inizio a scrivere la mia tesi di specializzazione con uno stato d’animo ambiguo, quasi conflittuale. Sarà perché essa rappresenta la chiusura di un percorso, sarà perché era da tanto che aspettavo di iniziare a scriverla, sono allo stesso tempo dispiaciuto e contento. Penso: “Mi toccherà integrare queste emozioni e decidere il piano d’azione”. Già! L’integrazione è stata l’idea che mi ha accompagnato in tutti questi anni di scuola. Integrazione a più livelli: emozionale, comportamentale, concettuale-teorico. Non per niente mi accingo a specializzarmi in psicoterapia umanistica-integrata e mi rendo conto di quanto sia stato fortunato, lungimirante e oculato, quando nel lontano 2006 decisi di presentarmi alla selezione per la scuola quadriennale. Non ero sicuro della mia scelta e avevo paura di non riuscire a superare “l’esame” al quale avrei dovuto sottopormi.
Scelsi questo tipo di formazione perché prevedeva nel percorso di specializzazione un corposo modulo riguardante la psicologia di comunità, materia che aveva attirato il mio interesse durante gli studi universitari e che avevo approfondito con il mio lavoro di tesi di laurea. Affrontavo la dimensione clinica invece con un atteggiamento più scettico: non avevo una “fede”. Non preferivo cioè nessuna delle varie e numerose teorie sul funzionamento psichico, sia “normale” che patologico, rispetto ad un’altra ed anzi ero dubbioso rispetto a tutte, soprattutto quelle che pretendevano di essere omni-esplicative del comportamento dell’uomo e di ogni sua manifestazione. La psicologia di comunità invece mi aveva affascinato: per la sua vocazione preventiva, per la concezione sistemica ed ecologica e per i suoi metodi d’intervento votati alla partecipazione, alla concertazione e all’empowerment, individuale e collettivo. Mi presentai alla selezione dopo aver partecipato alla prima lezione di un master proprio in psicologia di comunità durante la quale avevo maturato l’idea e la motivazione che poi mi spinsero a fare il grande passo verso la scuola di specializzazione.
Fui accolto da due insegnanti che mi misero subito a mio agio e mi fecero un discorso franco e pragmatico che mi colpì positivamente. Ero abituato alla “fumosità” degli psicologi, soprattutto di quelli che si definivano “clinici”, al loro carattere misterioso e per molti versi persuasivo, e per questo avevo un atteggiamento di forte diffidenza nei loro confronti. Questo mio insegnante, in un quarto d’ora di colloquio, riuscì a farmi cambiare idea: a farmi vedere e capire che, se avessi scelto di frequentare la scuola di specializzazione, avrei dovuto cambiare prospettiva ed assumerne una nuova, ben lontana dall’idea di psicologo clinico che mi ero fatto fino a quel momento. Infatti, nel corso degli anni è radicalmente cambiato il mio pregiudizio nei confronti del clinico, almeno di un certo tipo di clinico.
Questa scuola, grazie a tutti i suoi insegnanti ed i suoi allievi, mi ha fatto conoscere nuove teorie, nuovi modelli d’interpretazione del disagio psichico, mi ha fatto vedere la multidimensionalità di ogni intervento che possa ritenersi efficace, mi ha fatto sperimentare in prima persona tutte le tecniche, le procedure, i metodi, i “setting”, nei quali e per mezzo dei quali si può perseguire il fine ultimo di ogni psicoterapia: il raggiungimento del ben-essere.
Mentre scrivo quest’ultima parola mi viene da sorridere ripensando a quante “parole con trattino in mezzo” ho visto durante questo percorso. Erano l’esempio di come le cose composte fossero formate da parti distinte che se unite insieme andavano a formare il famoso “tutto che è più della somma delle sue singole componenti”. Ecco, in questi 8 anni di scuola io ho imparato ad analizzare le parti e a sintetizzare il tutto, ho imparato ad arrabbiarmi e a rasserenarmi, ho imparato ad esprimere la mia tristezza e la mia gioia, ho imparato a stare da solo e con gli altri, ho imparato che posso essere uno e molteplice senza per questo sentirmi disintegrato o eccessivamente rigido, tutto d’un pezzo. L’arteterapia, la video didattica, la terapia di gruppo, la bioenergetica, la Gestalt e la psicologia umanistica, Freud, Rogers, Perls, Bateson, il cognitivismo, la psicologia di comunità e i numerosi workshop, gli insegnanti ed i miei affezionatissimi compagni di corso, mi hanno fatto scoprire quanto bello, vario, affascinante, faticoso e gratificante fosse il lavoro dello psicoterapeuta. Hanno stimolato in me, inoltre, la sempre presente voglia di non fermarmi, né di fronte agli ostacoli che la vita può presentare, né al cospetto “dell’obiettivo raggiunto”, dell’accontentarsi, che spesso cela un arrogante atteggiamento di “essere arrivati”. Il miglior insegnamento che tutte queste persone mi hanno donato è stato proprio questo: la motivazione e la forza interiore per stare sempre nel processo, nell’infinito ed inesauribile fiume della vita e della conoscenza, con la convinzione che qualunque traguardo raggiunga, qualunque gratificazione riceva, sono e sarò sempre un perpetuo principiante.
Articolo estratto dalla mia tesi di specializzazione in psicoterapia.
*Titolo “rubato” ad uno scritto di Manu Bazzano, (2011), “Il perpetuo principiante. Scritti sullo zen e l’arte della psicoterapia esistenziale”, Sensibili alle foglie, Roma.