Di amore e di rivoluzione

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di Dana Vanni

L’amore, indagato in ogni sua manifestazione, visibile o invisibile, rimane un elemento indeterminato, ben nascosto nelle pieghe del corpo, per nulla riconducibile a tutti i processi ormai delineati e biologicamente individuati del nostro vivere quotidiano. Attraverso l’utilizzo di valide metafore, l’amore è riuscito a confrontarsi efficacemente con la fame, la sete, la pulsione, la necessità, e con qualunque tematica che presupponga una ricerca. Ricerca, appunto, che indica il cercare di nuovo, macchiandosi di quella urgenza che è riservata alle inchieste cui sono sottoposti quegli oggetti che sono andati perduti.

L’amore, in questo senso, indica una divisione netta tra un tempo passato ed un tempo presente, tra l’intervallo esistenziale in cui l’oggetto aveva una sua personale appartenenza, e l’intervallo successivo in cui non ha più appartenenza alcuna. Tale requisito rimanda al concetto di trauma e, appunto, in un taglio così netto tra l’aver amato e il non amare più il dolore s’insinua in silenzio. In tale prospettiva anche la ricerca continua d’amore – ricerca tutta umana, per l’appunto – presuppone il ritorno all’origine della vita. Quando, cioè, la definizione della nostra esistenza dipendeva soltanto dall’immaginazione e dalla volontà altrui. Quando eravamo soltanto niente, e tutto doveva ancora essere inventato, alimentato, concepito. Ogni atto umano, intenzionale o non intenzionale, presuppone che alla sua base vi sia un’importante e radicata urgenza d’amore.

Anche in una dimensione senza spazio – prima, cioè, che il nostro corpo originario e concreto cominciasse a lavorare nei sotterranei della vita, dandoci un cuore, mani a forma di pomello in cui scolpire dita sottili, polmoni necessari alla nostra sopravvivenza – il principio è stato l’amore.

Soltanto l’amore, infatti, può essere fatto. In una predisposizione continua e primordiale in cui il corpo ha la forma adatta per accogliere l’altro, nelle infinite posizioni in cui due corpi – di differente peso, forma, o struttura – possono incastrarsi. Senza che, per un tempo indefinito, il corpo costituisca un ostacolo. Quasi che esso incarni lo spazio perfetto per l’incontro, un abile strumento di misura libero da misurazioni, un ponte gettato tra me e l’altro per ricondurmi soltanto là dove il mio corpo dev’essere: nel corpo altrui. Si tratta, d’altronde, dell’unica possibilità umana del concepimento. Il mio corpo risulta fin da subito indissolubilmente legato al corpo altrui, unica fonte di sopravvivenza. È solo l’altro, infatti, a possedere la strumentazione necessaria per mantenermi in vita, nonostante il corpo disponga di una serie infinita di sistemi per supplire mancanze momentanee. Sempre, però, con l’intento di riempirle. È il caso, infatti, della plasticità neuronale a seguito di danni cerebrali, e di quella emotiva a seguito di traumi, quando entra in gioco la capacità tutta umana di rigenerarsi e reinventarsi. L’essere umano contempla la dimensione della mancanza perché il corpo è programmato per riempirla.

È per questo motivo che una dimensione instabile e continuamente mutevole come quella dell’amore può essere tollerata dall’animo umano. Non esiste, infatti, forza motrice che contempli dolore e gioia al pari dell’amore, e che ne permetta la continua alternanza. Anzi, tale condivisione di spazio sembra necessaria al sostentamento dell’amore stesso, come se ne costituisse l’unica ninfa vitale. In virtù di uno scambio continuo, si assiste ad un passaggio perpetuo anche tra l’io e il tu. Quando soggetto ed oggetto si confondono, i confini creano infinite dissolvenze.

L’altro, con il suo ingresso nel campo condiviso, ha una funzione sovversiva. Il mio corpo, creato e pronto per accoglierlo, subisce modifiche irreversibili, e si spezza per ospitarlo. Dapprima, infatti, si dischiude per lasciarlo entrare poi, come un cerchio che finisca per chiudersi su se stesso, soccombe passivamente di fronte all’amore. Il soggetto viene attraversato dalla sua alterità, ed è costretto a riedificare se stesso. L’altro è una rivoluzione, e come ogni rivoluzione va, necessariamente, represso o sentito.

Abbandonarsi all’amore costituisce un immenso atto di fiducia nell’altro. E non soltanto nell’altro conosciuto, studiato e manipolato, ma soprattutto nell’altro diverso, nell’altro che non conosciamo, nell’altro trasformato dal desiderio. L’amore e la mancanza d’amore somigliano strutturalmente al das Gesetz des Tages e al die Leidenschaft zur Nacht di Jaspers (1932-1955), o ancor meglio, somigliano al limite tra i due concetti. La legge del giorno non allontana per sempre la passione per la notte, la chiarezza e l’ordine non costituiscono affatto una vittoria sul caos. Al cospetto della passione per la notte, infatti:

“La chiarezza non può penetrare nulla di essenziale, ma dimentica di sé abbraccia ciò che non ha chiarezza, in quanto è l’oscurità intemporale dell’autentico. Per una necessità che non si lascia comprendere, che non cerca neppure la possibilità di una giustificazione, diventa incredula e infedele di fronte al giorno.” (Karl Jaspers, Metafisica, 1932-1955)
 
Le vie conosciute dalla ragione, quindi, non riescono a spiegarsi le necessità dell’amore. Nonostante numerose strade permettano di avvicinarsi alla verità, la possibilità di possederla spetta solo all’abbandono proprio dell’innamoramento, forse perché, come unica roccaforte di tutte le cose che sono, soltanto l’amore è in grado di spiegare le creazioni originarie. Esso, infatti, riesce a compiere quel salto impossibile tra l’avere un corpo e l’essere un corpo, tra il possesso e la liberazione.

Variando l’esperienza del mondo, l’amore è in grado di investirla e trasformarla, annientando ogni scudo difensivo, e vincendo la vergogna come concetto limite tra il tenersi e il lasciarsi andare. 

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