Correvo come un pazzo per lo stradone affollato. Macchine, persone, mi sembravano tutte immobili mentre sentivo sfiorare i talloni vicino al culo. Vedevo tutto sfocato, le lacrime sgorgavano fuori come torrenti gonfi tra le ripe di un canyon e mi solcavano il viso lasciando tracce profonde non solo epidermiche. Le mani mi si paravano innanzi come fruste nervose e il respiro era talmente corto che mi sembrava assente. Correvo lontano, lontano da lì. La rabbia aveva lasciato il posto alla paura, allo sgomento, repentinamente. Me la stavo facendo sotto, letteralmente. O meglio, me l’ero fatta sotto. Sentivo calore provenire dalle mutande ma non distinguevo se fosse piscio o merda; o entrambi. Non mi voltai nemmeno una volta fino a quando non vidi un paio di anfibi vicino al mio viso sporco, lacrimante, lacerato dalla caduta rovinosa sull’asfalto bollente. Probabilmente avrei corso all’infinito se non fossi “inciampato”. L’uomo mi sollevò prendendomi dalla cintura che si strinse forte al ventre e mi provocò dei conati di vomito che riuscii a stento a trattenere. Mi mise supino, spalle a terra, gambe larghe e braccia incrociate dietro la testa; il fiato corto, il sudore e il brutto schianto al suolo mi avevano talmente rintronato che sentivo un fischio costante nelle orecchie. Avevo dolori dappertutto e non riuscivo a vedere la grande figura che mi sovrastava perché accecato dalla forte luce di quel tardo mattino. Ne sentivo la voce, senza distinguere il significato delle parole che mi stava urlando contro. Un dolore più forte mi fece chinare il capo sulla destra, in basso, verso la gamba: vidi un fiotto di sangue uscire altezza del ginocchio. Mi spaventai. Poi sentii il freddo delle manette chiudersi intorno ai miei polsi. Svenni.
Mi ritrovai in una cella buia e fredda. Era piacevole starci, non si sentiva alcun rumore. Il muro freddo al quale ero appoggiato mi regalava un dolce ristoro e ad occhi chiusi cercavo di recuperare un po’ di pace. Sentivo il respiro salire e scendere, senza affanno; mi concentravo su di esso e mi chiedevo chissà quante altre volte avrei ripetuto ancora quel movimento involontario. Man mano che l’ossigeno fresco mi rigenerava i pensieri, sentivo un’angoscia salire dal petto. Un’oppressione dura che mi fece sputare a terra un misto di sangue, catarro e saliva. Voltandomi verso il pavimento vidi la gamba fasciata con una benda sporca di sangue. “Cazzo” pensai, “deve esser stato quel maledetto gigante con gli anfibi”. Solo quando mi rimisi sdraiato il ricordo di ciò che avevo combinato tornò prepotente nella mia mente. “Cazzo” ripetei, e il peso sul petto si fece macigno. Risputai.
L’apparente quiete fu interrotta dall’ingresso in cella di un uomo. Indossava un elegante vestito grigio e portava con sé una borsa marrone di pelle, come quelle degli avvocati. Si presentò come tale infatti. Con aria estremamente seria mi disse che era al mio servizio. “Non si preoccupi, mi dica esattamente come sono andate le cose e troveremo insieme la soluzione migliore, la strategia che le permetterà di difendersi al meglio”. Non capii esattamente cosa intendesse ma compresi che avrei dovuto rivivere quel frangente spaventoso. Gli raccontai tutto quello che ricordavo, tra i singhiozzi profondi che mi toglievano il fiato e mi soffocavano. Le mani mi tremavano, non ero nemmeno sicuro che fossero proprio le mie. Le sentivo estranee da me, come sentivo estraneo tutto ciò che stavo narrando. Quello che sentivo mio era invece il dolore: “Sarei morto?”. Era il senso di colpa che mi poneva quella domanda? Era il pentimento? Il ricordo di quell’atto crudele del quale mi ero macchiato? Mi ero macchiato di sangue, vivo, del sangue che avevo accolto come mio, nel quale ero entrato migliaia di volte, che avevo assaggiato, odorato, gustato ed amato. Quel sangue che mi aveva ferito, in modo violento, inaspettato, crudele. Che mi aveva trasformato in un delinquente, in un assassino. Rividi in un lampo quel laccio alla gola che sforzava l’arteria gonfia. Sentii l’urlo strozzato di lei che mi guardava implorante, pietosa, sottomessa e agonizzante. Mi assalì un peso alle spalle che mi piegò triste e sommesso, colpevole di vergogna. Sentivo la mia voce diversa, fioca, come se stesse parlando un vecchio in lontananza. Mi sentivo lacerato nelle viscere, annientato nell’anima. Lui se ne accorse e mi mise una mano sulla spalla; esclamò: “Deve essere molto difficile per lei raccontare tutto questo, tuttavia è utile”. Queste parole mi attraversarono indifferenti, lo guardai supplicandolo di non so cosa, forse di lasciarmi dormire… o morire. “Ha agito così perché spinto dalla rabbia, chiunque avrebbe fatto lo stesso al posto suo”. Anche questa frase mi parve solo una sequenza di parole. Mi accovacciai sulla piccola branda e inizia a fissare il vuoto. “Non era in lei”. Queste parole mi fecero muovere la testa verso di lui per guardarlo brevemente negli occhi. “Non era lei, la rabbia e lo sconcerto per averla scoperta l’hanno fatta uscire di senno, ha avuto un raptus ed ha agito d’impulso. Era fuori di sé”. Già, ero fuori di me. Mi girai verso il muro; mi addormentai.
L’altro signore aveva l’aspetto pacioso, una folta barba e gli occhi piccoli contornati da rughe che lo facevano assomigliare ad un orsacchiotto. La prima volta che lo vidi mi venne da ridere ma sorrisi solamente. Egli lo ricambiò e mi chiese come stessi. Se mi sentissi a mio agio, comodo. Bah! Ero seduto su una sedia di ferro fredda e dura, di un grigio ospedaliero che allontanava già all’apparenza qualsiasi velleità di comfort. Gli risposi di si, per educazione. Mi chiese informazioni sulla gamba e su come mi trovassi in carcere, se il cibo era buono e se riuscissi a dormire. “Circostanza” pensai. Non gli interessavano le risposte, erano solo frasi di circostanza che precedevano quella che sarebbe stata la vera domanda. Quando la sentii chinai il capo quasi a toccare il petto col mento. Lasciai cadere le spalle e mi misi a piangere. Mi porse un kleenex di quelli sottili che si squarciò al primo soffio di naso sporcandomi la mano di muco. Me la infilai in tasca con tutto il fazzoletto. “Io l’amavo”, gli dissi. Lui stette in silenzio. A differenza degli altri non me ne fece subito un’altra. Questo mi sorprese tant’è che alzai lo sguardo stupito quasi ad invogliarlo ma venni bloccato dalla sua espressione benevola e serena che mi stupì ancor di più. “Non doveva farmelo, no”. “Non me l’aspettavo da lei”. “Cosa?” chiese lui. Nonostante il tempo trascorso, l’angoscia nel petto era sempre la stessa. Ricordare quel giorno mi rendeva ancora estremamente nervoso. “Non doveva tradirmi” dissi strozzato dal pianto. L’uomo si alzò dalla sedia e si accovacciò di fianco a me poggiandomi una mano sulla spalla. Non disse nulla. Prese un’altra velina e me la porse guardandomi negli occhi. Ricambiai e ringraziai. Sorrise benevolo.
La sensazione di essere fuori luogo era enorme. Come enorme era la navata che stavo velocemente attraversando per raggiungere il confessionale. Non so perché ci andai; erano anni che non ci andavo. Forse l’ultima volta era stata da ragazzino, un Natale, quando in paese ci si riuniva per la funzione serale e poi ci si concedeva un’uscita notturna che in altre circostanze sarebbe stata impossibile. Questo ricordo mi allietò, feci un leggero sorriso e involontariamente mi diedi una carezza speranzosa, come per ricordare a me stesso che ero stato un bravo bambino. Tornai subito cupo però, non appena incrociai il suo sguardo. Lo riconobbi immediatamente, austero e severo come qualche decennio prima. Anch’egli mi riconobbe tant’è che di fretta si mosse verso il confessionale tradendo l’ansia di precedermi per non farsi aspettare. Non mi inginocchiai, mi sedetti su una sedia di legno messa lì apposta per le vecchiette claudicanti. Egli aprì lo sportellino ed esclamò: “Ti aspettavo prima”. Rimasi qualche secondo in silenzio per ordinare i pensieri e dargli una risposta di senso compiuto. “Già” dissi laconicamente. Non riuscivo a vederlo ma il ritmo del respiro e la sagoma appena scorta mi rendevano estremamente ansioso, come di fronte ad un giudice implacabile che tutto avrebbe fatto fuorché assolvermi dai miei peccati. Non era mai stato indulgente, nemmeno quando da piccolo mi sgamò un coltellino a serramanico acquistato durante una gita scolastica. Me lo prese e mi diede uno schiaffone, unico e secco, che mi fece volare sui sedili dell’autobus. Un indistinto rumore proveniente dal pavimento mi fece tornare in presenza. “Prendi” disse lanciando a terra un rosario contenuto in una scatoletta con la scritta “Medjugorje”. Mi chinai, aprii la scatola e lo tirai fuori portandomelo al volto: profumava. “Va bene così?” chiesi timoroso. “Si”. Tirai repentinamente su la cerniera del giaccone che mi scorticò il collo facendomi bestemmiare col pensiero. Mi alzai e pronunciai un grazie ironico che esprimeva frustrazione e delusione. Mentre andavo verso casa con passo svelto, il vento gelido mi sbatteva in faccia facendomi tossire e gocciolare il naso. Camminando toccavo i grani del rosario e tra me e me cercavo di ricordare le preghiere classiche, quelle che avevo imparato anni prima ma che ormai non ricordavo più. Tornai a casa e mi sentii meglio. Il senso di frustrazione era passato e il tepore del calorifero mi riscaldava le mani intirizzite e rosse di gonfiore. Ripresi il rosario e mi misi a recitare una litania senza senso che durò parecchi minuti. Scandii i grani uno ad uno, con gli occhi chiusi, concentrandomi sulle sensazioni che quella plastica dura e porosa trasmetteva ai miei polpastrelli. Poi, sollevato e serafico, andai a rovistare nell’armadio a muro che conteneva detersivi, saponi e tutte le cianfrusaglie di casa. Presi lo spago da pacchi che avevo utilizzato anni prima, quando avevo venduto su internet una vecchia stampante a getto d’inchiostro. Mi son sempre chiesto che uso ne avesse fatto il temerario acquirente. Il cappio lo feci doppio, con meticolosa cura, legato alla scala a chiocciola che portava al piano di sopra, in camera da letto. Non provavo nulla, ero nello stesso stato in cui mi ero trovato poco prima mentre cantilenavo poggiato al radiatore. Assorto e pacifico, salii tre gradini, all’indietro, come quando si vuol uscire dalle sabbie mobili. Infilai la testa e saltai. Un grande calore mi pervase dal collo in giù. Con la punta dei piedi riuscivo a sfiorare il pavimento e la cosa quasi mi divertiva tant’è che cercavo di calcolare a che distanza si trovasse l’alluce dalla fredda mattonella. Poi non ricordo più nulla.