L’invidia comincia nei sogni (forse)

 di Laura Grignoli

Il Re: “Ho notato che molti dei miei sudditi mi guardano con odio. E forse che li odio, io?”.

Lei: “Dev’essere solo invidia”. 

Il Re: “E nemmeno li invidio, io”

(il Mago Wiz nelle strisce di Brant Parker e Johnny Hart)

Difficile scrivere su un’emozione. Dovrei essere capace di tradurre in linguaggio della ragione quello che si esprime in un alfabeto corporeo, nonostante e/o malgrado noi. Ci provo e mi imbatto subito nel problema:  affidarsi alle certezze delle risposte già date o all’inquietudine delle domande a cui certamente non saprei rispondere? Gli esploratori dell’anima, così potrei ritenere la sfida di essere  psicoterapeuti, si muovono sempre su un terreno contraddittorio dove ogni dimensione del territorio esplorato è ambigua e ogni certezza è provvisoria.

E quale la domanda da porsi: ‘cos’è’ l’invidia? O, piuttosto, ‘perché’ l’invidia? O magari: ‘dove’ si origina?

Vado per ordine. Propendo per cercarne le origini, mi prometto altresì di non censurare le mie contraddizioni, poi si vedrà.

Se per Delmore Schwartz la responsabilità ‘comincia nei sogni’ (forse anche l’irresponsabilità comincia lì) qualcosa mi induce a pensare che anche l’invidia e le passioni originino in quei sogni ad occhi aperti quando alluciniamo la presenza di ciò che non abbiamo (ma che hanno gli altri) o quando ci inventiamo di essere in altro modo (come qualcun altro è). Ma non è solo l’essere o l’avere in senso stretto che spingono un essere umano a impantanarsi in questo sentimento-boomerang.

‘Non ho mai conosciuto vita senza desiderio’- fa dire Svevo a Zeno, o meglio, alla sua coscienza.  Come a dire che non si può vivere senza desiderare, senza mirare a qualcosa di inarrivabile. Perché un desiderio sia tale è evidente che deve sembrare difficile il suo appagamento. Reversibilmente possiamo vivere solo se, appagato un desiderio, subito ce ne troviamo un altro. Dunque, l’invidia vista da una certa ottica, a mio modesto avviso, è un modo per sopravvivere. Quello che distingue le invidie delle varie persone è la gerarchia dei desideri e il modo in cui ognuno li gestisce. 

Il tempo cambia la natura dei desideri perché essi sono l’espressione di quello che ci serve o che crediamo ci occorra per essere felici. Se non si hanno desideri, se non si prova invidia nemmeno per chi ha desideri, allora il sospetto che si covi una depressione è legittimo. Io a volte provo invidia per chi riesce a fare capriole all’indietro, per chi parla tre lingue fluentemente, per chi va in vacanza con il solo bagaglio a mano…altre volte invidio chi vive la propria vita senza pianificarla, chi vive minuto dopo minuto senza sprecare le energie mentali nelle anticipazioni, potrei invidiare persino chi invidia. Così come un bambino vuole il giocattolo dell’amichetto per il solo fatto che l’altro lo desidera.

Da quello che invidiamo inferiamo quello che, magari con qualche frustrazione di troppo, desideriamo. Capire i desideri è un fatto determinante durante un’analisi. Ecco perché ho pensato che, anziché con le macchie del Rorschach, potrei conoscere meglio i miei interlocutori indagando semplicemente su cosa (o chi) invidiano. Una sorta di ‘dimmi cosa invidi e ti dirò chi sei’…

E qui vengo al rovescio della medaglia. Difficilmente si riconosce in se stessi questo sentimento, se non in quell’accezione che fa capo all’ammirazione. I francesi dichiarano ad ogni intercalare ‘J’ai envie’, inglobando nell’espressione ogni tipo di ‘voglia’, riconoscendo legittimità all’interno di sé a un sentimento i cui confini fra desiderio ardente di qualcosa e desiderio che quel qualcosa almeno non ce l’abbia nessun altro sono molto sfumati. Non c’è niente di male, in fondo, ad ‘aver voglia di’…se non fosse che spesso a questo sentimento frustrato si accompagna anche la voglia di distruggere chi, invece, possiede quello che vorremmo noi. Sprechiamo molte energie a tener lontana l’invidia per scongiurare quel dolore mentale sordo e subdolo che essa procura. L’invidioso soffre di quello specifico dolore mentale, di quella specifica emozione dolorosa che è adeguata alla percezione che noi non siamo o non abbiamo: qualche cosa di buono, ammirato, desiderabile o desiderato che altre persone sono o hanno.

Barthes a proposito della gelosia (che non neghiamo o mascheriamo tanto quanto l’invidia) ebbe a dire che il geloso soffre quattro volte: primo perché è geloso, secondo perché si rimprovera di essere aggressivo, terzo di essere pazzo e quarto di essere proprio come tutti gli altri. Vale anche per l’invidioso il quarto motivo. È così socialmente denigrato il soggetto invidioso che nessuno ama riconoscere in sé neanche la disposizione ad invidiare. Eppure non ci mettiamo molto a stanarlo, ne riconosciamo l’odore, il tono della voce, lo sguardo. Ne abbiamo piena familiarità. Tutti ne abbiamo competenza: abbiamo invidiato e siamo stati invidiati qualche volta. La letteratura sull’invidia non è molto nutrita, per mancanza di cavie, ma i soggetti invidiosi popolano la palude Stigia di molti immaginari… Lo stato dell’invidioso è quello dominato dalla sofferenza e la sua sofferenza è permanente. E come ben comprese Dante che pone gli invidiosi nel Purgatorio (l’inferno, poveretti, se lo vivono già quaggiù), essi vivono metaforicamente con le palpebre cucite, consumando il proprio tempo nell’incapacità di godere di ciò che hanno ed esultando della sofferenza altrui.

Nella teoria psicoanalitica ‘invidia’ e ‘distruttività’ sono pressoché sinonimi, dato che l’invidia è ritenuta espressione della pulsione di morte. Forse è per questo motivo che associo questo concetto all’invidia rassegnata che Edgar Lee Masters incide sulla lapide di uno degli abitanti di Spoon River: “Io non potevo giocare né correre/ quand’ero ragazzo/Quando fui uomo/potei solo sorseggiare alla coppa/ non bere/ perché la scarlattina mi aveva lasciato il cuore malato/ Eppure giaccio qui/ blandito da un segreto che solo Mary conosce.” Parole divenute popolari grazie alla musica di De Andrè, ma dove sento l’eco del catechismo Schopenaueriano: visto che l’uomo è infelice, non può sopportare la felicità altrui. Non so se elaboro correttamente ma mi viene da pensare che nasciamo in una situazione di parassitismo: il nostro bene, il nostro piacere ci vengono da qualcun altro. Organizziamo la nostra mente su aspettative di benessere e felicità che vengono dall’esterno, da qualcuno che non siamo noi. Sentiamo come ingiusto il piacere che altri provano e che noi non pensiamo di avere. Annullare le prove della felicità altrui è come annullare il senso di frustrazione che noi stessi proviamo. Ma fin qui è comprensibile. Perché cerchiamo di dissimulare l’invidia come qualcosa di cui vergognarci? Evidentemente le radici nascoste affondano in quel nucleo profondo dove si raccoglie la nostra identità che, per alimentarsi, ha bisogno del riconoscimento. Se questo vien meno, l’identità vacilla, sbiadisce, si atrofizza. È qui che sgorga l’invidia: l’incapacità di valorizzare se stesso porta a ridimensionare e/o a demolire l’altro. Anzichè tra i vizi capitali io metterei l’invidia tra i meccanismi di difesa ‘annafreudiani’; è il tentativo disperato e infantile di salvaguardare la propria identità minacciata dal confronto con gli altri. Certo se questi confronti li potessimo evitare, sarebbe meglio. Ma come si fa ad esimersi dalla competizione in una società che sul confronto ha eretto la propria impalcatura? Dalla comparazione a volte ci si può sentire sminuiti, ecco perché ci si protegge con la svalutazione dell’altro. In pratica l’invidioso cerca di comprimere l’espansione dell’altro quando non può espandere se stesso, ma è una strategia inefficace dal momento che questo non impedisce di vedere i propri limiti.  Era certamente meglio quando tutto ciò che oltrepassa i limiti veniva ritenuto un dono divino. I Greci non attribuivano successi e virtù alle persone, ma li interpretavano come dono diretto della divinità. Invidiare il beneficiato sarebbe stato offensivo per il dio erogatore, dunque veniva venerato il successo non chi lo perseguiva. Beato paganesimo! Ma come avranno fatto a raggiungere i livelli culturali dell’età periclea senza un minimo di competizione ed invidia? Magari sotto sotto… L’ostracismo non era forse una istituzionalizzazione di un sistema per affrontare l’invidia?

Tutta la storia letteraria – cominciando dalla più imponente delle opere storico-romanzesche, la Bibbia – ci parla di invidie funeste. Da quella di Adamo nei confronti del suo Creatore, a quelle fraterne di Caino ed Esau’, a quella degli amici di Giobbe ferocemente invidiosi della sua precaria fortuna. Fino a giungere al Nuovo Testamento, che, dopo averci narrato, attraverso la parabola del Figliol prodigo, un’istruttiva vicenda di invidia di un fratello nei confronti dell’altro (chi non si è sentito almeno una volta solidale con il maggiore?), si conclude, nella sua parte più nota, con lo scellerato tradimento di Giuda; ‘agito’ il suo che, manifestamente, non fu dettato da cupidigia o interesse, bensì da un furibondo risentimento nei confronti di un uomo di virtù infinitamente , direi divinamente, superiori.

Pare che col cristianesimo e la conseguente idea-valore dell’uguaglianza l’invidia abbia messo radici sociali. Certo un principio simile riconosce la dignità umana al di là del colore, del censo, ma scatena invidie tra gli uomini come ci descrive Nietszche in ‘Umano, troppo umano’: “Dove realmente l’uguaglianza è penetrata ed è durevolmente fondata, nasce quell’inclinazione, considerata in complesso immorale, che nello stato di natura sarebbe difficilmente comprensibile: l’invidia. L’invidioso, quando avverte ogni innalzamento sociale di un altro al di sopra della misura comune, lo vuole riabbassare fino ad essa. Esso pretende che quell’uguaglianza che l’uomo riconosce, venga poi riconosciuta dalla natura e dal caso. E perciò si adira che agli eguali le cose non vadano allo stesso modo” (II, §29). Come dice Woody Allen “Ho un solo rimpianto nella vita: di non essere qualcun altro”.

Insomma dal più nobile dei sentimenti, l’uguaglianza, paradossalmente germoglia il seme dell’invidia. Penso che se l’uomo riconoscesse i propri limiti e la società non lo relegasse all’anonimato, non ci sarebbe invidia devastante. L’invidia è anche un indotto sociale e, fatta salva l’istanza di giustizia che può promuovere, è, in perfetta contraddizione con i miei assunti iniziali, un sentimento inutile, perché porta a valorizzare di più se stessi; è doloroso perché genera sensi di colpa e si deve tener nascosto e spesso induce gli uomini a produrre un antidoto che a volte è peggio dell’invidia stessa: la superbia.

Era invidia o superbia quella che mosse Lucifero a ribellarsi a Dio? Gli angeli non sono umani. Essi non potrebbero nutrire invidia. A ben vedere è invidioso colui che non può insuperbirsi a causa dell’eccellenza delle qualità altrui, o per i beni che vorrebbe invano possedere. Chi è convinto della propria eccellenza, a torto o a ragione, non si macchia, di solito, del peccato di invidia. Ma poiché la superbia presuppone implicitamente un concetto di relatività (io sono più ricco di te, ho più potere, appartengo a una razza o a una classe migliore della tua…), è quasi inevitabile che la superbia e l’invidia convivano prima o poi nello stesso individuo. Infatti, la convinzione di essere migliore di qualcuno o superiore a qualcosa — identificativa del superbo — spesso conduce al confronto-scontro con ciò che ci appare ancora superiore, e, di conseguenza, l’autoconvincimento dell’eccellenza dei propri attributi è destinato a sfaldarsi in un sentimento di invidia bruciante e impotente. Detto questo, in letteratura il superbo ha spesso connotati luciferini proprio perché l’ultimo ostacolo al perfetto innalzamento di sé è la divinità. L’invidia ha ben di che vivere…

Bibliografia

Non ho trovato (dovevo immaginarlo!) una nutrita e recente bibliografia sull’argomento.   In compenso ho trovato opere classiche, dalla Bibbia alla Divina Commedia, e filosofi illustri da Aristotile a Kant, da Schopenauer a Nietzsche e a Rawls, che hanno ampiamente trattato il problema. Ne elenco qualcuno per coloro che volessero consultarli:

Aristotile, Retorica. Etica Nicomachea, trad. it. Milano: Rusconi, 1979.

Barthes R. (1979), Frammenti di un discorso amoroso, trad. it. Torino: Einaudi, 1989.

Kant I., Fondazione della metafisica dei costumi, trad. it. Roma-Bari: Laterza, 1988.

Kierkegaard S., Timore e tremore; la malattia mortale, trad. it. Casale M.: Piemme, 1985.

Klein M. (1957), Invidia e gratitudine, trad. it. (1969), Firenze: Martinelli, 1969.

Lee Masters E. (1915), Antologia di Spoon River, trad. it.  Milano: Einaudi, 2005.

Nietszche F., Umano, troppo umano, trad. it. Milano: Adelphi, 1985.

Schwartz D. (1990), Nei sogni cominciano le responsabilità, Milano: Serra e Riva.

Svevo I.(1922), La coscienza di Zeno, Bologna: Zanichelli, 1990.

Brant Parker e Johnny Hart  Fumetti, Libro segreto del mago Wiz’.

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