di Dana Vanni
Mi sembra quasi che la violenza la si possa misurare così, contando i centimetri della pelle che viene ferita, lo spessore, la durezza. Tutte qualità presenti in maniera minore o maggiore nella persona, non osservabili, non comunicabili, ma vive e presenti nell’attualità del corpo. Sarebbe tale differenza di qualità a rendere una carezza uno schiaffo, un bacio un livido, così da poter spiegare il numero di cicatrici in ognuno, per nulla uguali in quantità alle ferite inferte.
“Tutto cambia nell’universo se in qualche luogo, non si sa dove, una pecora che non conosciamo ha, sì o no, mangiato una rosa. Guardate il cielo e domandatevi, la pecora ha mangiato o non ha mangiato il fiore? E vedrete che tutto cambia.” (Antoine de Saint–Exupéry, 1943, p.119)
È su questo che in particolar modo rifletto quando penso alla violenza. È il cambiamento nella persona a dover essere indagato e chiarito, è la potenza della sopraffazione che travolge come un turbine e distrugge come un uragano. Non penso mai alla violenza come puro atto fisico, come aggressione verbale, o in qualunque altra forma essa si presenti. Penso invece alla violenza a cui non si riesce ancora a dare un nome, quella che viene taciuta o balbettata perchè si è già trasformata in qualcos’altro e ha già trasformato chi l’ha subita, così che ora il debole faccia una gran fatica a tornare forte, e nella debolezza sia impossibilitato a spiegare. La violenza la si legge nelle mani che tremano e nei movimenti imbarazzati degli occhi. Credo che diventerò una simile lettrice di violenza. Decisa ad osservare lo spazio tra le parole e il modo in cui il paziente cerca di riempirlo. Ciò che so, per ora, è che se la violenza non ti porta alla distruzione, se dentro non rimangono solo macerie ma ancora qualche debole battito di amor proprio, una cura deve esserci. Intendo per cura la possibilità di tornare a respirare senza estenuanti dolori al petto, quasi che il dolore sia un modo comune e giusto di respirare, quasi che i polmoni non sappiano più cosa vuol dire aprirsi per prendere aria, ma la rigettassero velocemente al di fuori. Intendo per cura la possibilità di dare un nome alla violenza come a qualunque altro atroce sentimento, senza agire ogni sofferenza, togliendo i cerotti consumati dalle ferite e lasciandole respirare senza vergogna. Credo che il primo e temuto nemico della violenza sia l’amore per qualcosa. Forse non importa neppure esattamente per cosa, e questo è meraviglioso. Ci sono persone che amano le parole, i cavalli, le passeggiate in riva al fiume, persone che amano ricamare o persone che amano e basta. Sono persone accese, a me piace chiamarle così, come piccoli fiammiferi che non puoi spegnere anche spingendoti oltre ogni possibile limite, sono persone che lottano senza fare guerre, e che aspettano il momento giusto per splendere. Ecco, la terapia dovrebbe scovare le deboli fiamme dei fiammiferi e farle divampare. La violenza, al contrario, è capace di spegnere quei fiammiferi, e a lungo andare, le pecore mangiano le rose, come leggiamo nel Piccolo Principe.
Oggi la violenza ha milioni di volti, e uno dei volti più spaventosi è quello della violenza assistita, che a pensarci mi viene in mente uno spettacolo macabro in un teatro fatiscente con spettatori inermi che si coprono gli occhi per non guardare. La cosa ancora più spaventosa è che nella realtà di questa violenza gli occhi si tengono ben aperti e sempre pronti a registrare tutto. Per usare una metafora, ricordo che intorno ai miei dieci o undici anni registravo le canzoni alla radio con delle audiocassette, e potevo scegliere io quando iniziare e quando finire, con la possibilità di creare una specie di remix. Nella vita di tutti coloro che assistono alla violenza accade più o meno questo, e cioè che nella registrazione della propria giornata accanto al pane con la marmellata, ai cartoni in tv o alla partita di calcetto, ad un certo punto il motore della mente inizia a registrare anche schiaffi, tagli e lividi, e siccome nella registrazione stonano, tutto viene relegato in una parte più profonda della memoria, che può essere chiamata in tantissimi modi, anche se a me piace inconscio. Qui le immagini troppo forti non possono essere scovate da nessuno, se non da osservatori attenti. Non lo so se ho reso al meglio l’idea. Non credo che la violenza sia solo quella dei talk show, delle prime pagine, dei corpi dimenticati agli angoli delle strade. Credo che ce ne siano di più sottili, che a tutto questo sopravvivono. Hanno imparato a respirare, per così dire, e a volte sembra che non esista eroe in grado di combattere efficacemente un mostro simile fino a quando non si compia quella magia che può avvenire solo e soltanto all’interno di un setting, un posto sicuro, un rifugio dove potersi narrare.
Il sipario si chiude e il mondo viene, per un istante, lasciato fuori, e poi lentamente integrato, in una visione meno sofferta della propria vita, in una strada dove non esiste più soltanto l’uomo nero, ma l’uomo nero si può adesso anche indicare, guardare negli occhi e chissà, anche farlo diventar piccolo come una formica. Non dico che sia semplice o veloce, ma credo piuttosto che sia possibile.