Sulla necessità di attraversare la turbolenza emotiva per la crescita mentale

belisario

La parola, ma anche i silenzi, in analisi diventa contenitore di mondi da esplorare, i termini che utilizza l’analizzando piuttosto che essere presi come qualcosa di già noto, vanno aperti, perché per quel soggetto possono stare ad indicare qualcosa di unico, di specifico e per la terapia di molto prezioso. La persona col procedere dell’analisi, si accorge che nella seduta niente viene dato per scontato e questo invito ad aprire forse porterà, col tempo, a quei piccoli cambiamenti catastrofici che sono così preziosi nell’analisi duale (e di gruppo) perché generano cambiamenti di prospettiva, una crescita sul piano del pensiero e della vita emotiva. Questo aprire, nel corso del tempo, manda in crisi un assetto interno che si può essere “istituzionalizzato”.  

Potenzialmente tutti noi siamo in pericolo da questo punto di vista, nel senso di poter andare incontro ad una sorta di calcificazione in noi stessi che ci potrà impedire di aprirci ad emozioni e pensieri nuovi che sono appunto il cibo della mente. Comunque non è solo l’invito all’aprire, ma si può dire che è il metodo psicoanalitico tout court che va ad insidiare l’intera struttura “epistemologica” del paziente, cioè le conoscenze certe. Il procedere analitico in senso bioniano porta verso il de-strutturare un assetto mentale che non è funzionale al soggetto, porta ad un rovesciamento del sistema e questo può dar luogo anche per un certo periodo a sentimenti di smarrimento, di disorientamento, che se tollerati potranno aprire la persona ad un nuovo assetto interno, con tutte le conseguenze intrapsichiche, interpersonali e di realtà che comporta. A volte il cambiamento catastrofico si presenta attraverso una situazione emotiva molto intensa, si tratta di un momento critico attraversato dall’analizzando, in cui si possono presentare sensazioni ipocondriache, somatizzazioni, disorientamento, inquietudine, indicativa di una turbolenza psicologica in atto che richiede una particolare attenzione da parte dell’analista. L’analista dinnanzi a questa turbolenza emotiva non si pone nel senso di evitarla, piuttosto cercherà di contenerla.

Marina, un’analizzanda al suo settimo anno di analisi a tre sedute settimanali, una donna laureata in economia di una intelligenza straordinaria ma molto disturbata sul piano emotivo, dopo tutta una serie di turbolenze emotive avvenute nel corso dell’analisi che attraversate hanno poi prodotto numerosi cambiamenti nel rapporto che intrattiene con se stessa e poi anche nella vita reale, ad un certo punto dell’analisi manifesta tutta una inquietudine, agitazione, ansietà, tachicardia, preoccupazioni sul suo stato di salute fisica tanto da chiedersi se non fosse il caso di prendere degli psicofarmaci ed inoltre porta in seduta argomenti che ruotano intorno a catastrofi, fine del mondo, licenziamento dal lavoro, ecc.. Cosa che non aveva mai fatto nel corso di questi anni, mi lascia spesso dei messaggi in segreteria dopo che è uscita di casa prima di entrare nel luogo di lavoro nel quale ricopre un ruolo dirigenziale e questi messaggi riguardano il vivere interiormente uno stato di terrore. Questa situazione è durata alcune settimane ed è andata via via in crescendo, e nel corso dell’analisi, nonostante questa realtà che premeva, si continuava con il lavoro di sempre cioè libere associazioni, sogni e a pensare. Io mi sentivo più sollecitato in questo frangente e cercavo di rappresentarmi quello che stava accadendo, anche se inizialmente e per un lungo periodo, con grande difficoltà. Anch’io ero smarrito, disorientato ma poi ad un certo punto iniziai a percepire che quell’uscire della paziente da casa dei suoi genitori con i quali viveva e la difficoltà ad entrare in ufficio senza timori come accadeva prima, alludeva ad una esperienza interna di cambiamento catastrofico. La donna avvertiva di stare per lasciare quell’assetto psichico che aveva caratterizzato il suo funzionamento da sempre e che nella realtà era simbolicamente rappresentato dal vivere ancora a casa dei suoi all’età di quarantacinque anni, e di stare ad aprirsi a qualcosa di nuovo che non conosceva, simbolizzato, nella realtà, dal timore di accedere come ogni giorno all’ufficio nel quale lavorava, da oltre vent’anni. Io nelle sedute mi ritrovavo a contatto con fantasie in cui ero come dentro una sorta di grande pallone che con un temperino andavo a bucare, ad aprire e ad un certo punto ho attinto ad esse per proporre alla paziente cosa stesse accadendo. Le dissi che si accingeva a lasciare qualcosa di vecchio per accedere a qualcos’altro che ancora non conosceva e che le faceva tanta paura. Lo stato psichico di turbolenza emotiva della paziente, ma anche mio, andò col prosieguo delle sedute a scemare piano piano, e lasciò, il posto a pensieri che avevano per oggetto l’acquisto di una casa per andare a vivere da sola.

Per farvela breve questa donna dopo aver assistito e partorito altro di se stessa, un po’ pure con il mio aiuto, ha avvertito in se l’esistere di uno spazio psichico caratterizzato da pensieri nuovi ed emozioni nuove e, dopo un’iniziale esperienza di contatto molto penosa con questi elementi, ha sentito che ce la poteva fare ad assumere quello che si presentava in lei. Poi, ha potuto anche concepire il bisogno di andare ad abitare in uno spazio fisico diverso da quello della casa natale e di realizzarlo, infatti mesi dopo la donna ha acquistato casa.

L’esperienza psicotica è invece qualcosa di diverso dal cambiamento catastrofico: nell’esperienza psicotica si “rompe” un assetto, si frantuma e si precipita. Il cambiamento catastrofico al contrario apre un assetto e può portare a delle trasformazioni che si traducono in una crescita dello psichico. Quando si rompe l’assetto psichico della persona che scivola in una esperienza psicotica, questa non trova il suo Sé, le braccia della mamma incarnate nella sua persona, un Se gruppale per dirla con J. Grotstein a sorreggerla e a fermare la caduta, cioè non si attiva nel soggetto l’equivalente psichico di una imbracatura che sorregge e ferma la caduta analoga a quella che utilizza l’alpinista nell’arrampicata. La personalità non psicotica è poco sviluppata rispetto alla personalità psicotica. In questi casi può accadere che la caduta rallenti, attraverso l’emergere di una costruzione delirante. Quando l’assetto si apre, se il soggetto non c’è, si precipita. Essere un soggetto implica la possibilità di essere in sé soli però questo può avvenire solo dopo che ci si è “alienati” nello sguardo dell’altro (la madre) per un certo periodo di tempo. Inoltre, in aggiunta, implica anche il lavoro necessario all’individuo per istituire il funzionamento simbolico (dell’ordine paterno) per potersi appropriare dei propri pensieri, del proprio corpo e della propria identità: un percorso di differenziazione senza fine, sempre in corso. S. una laureanda in lettere che seguivo alcuni anni fa con una terapia psicoanalitica a tre sedute la settimana, riferì una serie di sogni in cui si denudava, si toglieva i vestiti, ed inoltre nel sogno avveniva che nel percorrere una strada in discesa diceva che non riusciva a fermarsi, le sue gambe andavano come da se. In quel periodo mi regalò un romanzo di Calvino dal titolo “Il cavaliere inesistente” ed anche un segnalibro che raffigurava il noto dipinto di Klimt dal titolo “Le tre età della vita”, con in evidenza l’immagine che ritrae una mamma con un bambino tenuto tra le sue braccia. Dunque con i sogni e con quei doni mi stava parlando di se e “dicendo” che cosa avremo incontrato nell’analisi. Di li a poco iniziò a riferire che nell’azienda del padre dove lei dava una mano, aveva bevuto un caffè dalla macchinetta dell’azienda e si era sentita come drogata. Questi pensieri continuarono a montare su sino alla convinzione assoluta che nell’azienda ci fosse un traffico di droga contenuta nelle cialde del caffè. Insomma iniziò a prendere forma un delirio che portò poi i familiari a preoccuparsi notevolmente e con l’aiuto del medico di famiglia, la ricoverarono in una clinica psichiatrica. Io rimasi colpito dalla decisione della famiglia ed anche dalla decisione di non mandarla più in analisi. In questi casi quando il paziente va incontro ad una crisi psicotica può accadere che la persona venga allontanata dall’analisi. Dopo alcuni anni la paziente mi ha cercato di nuovo e ha chiesto di riprendere la terapia, nel frattempo si è laureata in lettere però dice che si sente come appiattita, bidimensionale (sue parole), addormentata e vorrebbe sempre dormire. Presenta delle preoccupazioni sul suo stato di salute fisica che mi fanno pensare ad una sorta di ipocondria o delirio somatico. Da cinque anni ha sospeso, di sua iniziativa, i farmaci antipsicotici che le erano stati prescritti perché dice che la stavano uccidendo. Ricorda invece che quando veniva in terapia avvertiva una tridimensionalità in lei (queste sono sempre sue parole), si sentiva viva, sveglia. Ora non mi dilungo oltre, quello che vorrei aggiungere è che distinguere l’esperienza psicotica dal cambiamento catastrofico non è facile quando si presenta in analisi, non contiene caratteri così distintivi, tanto da portare lo stesso Bion ad affermare:” non è facile dire se lo stato mentale che stiamo guardando o che stiamo studiando, stia cadendo in rovina o stia giungendo alla maturità”. Fermo restando il fatto che solo dopo possiamo accorgerci bene se la mente di quel dato paziente sta andando verso qualcosa di nuovo che attiene alla crescita mentale, “verso un’altra storia” come il caso di Marina o verso una esperienza catastrofica come conseguenza di una identità posticcia come nel caso di S., un presupposto del nostro modo di lavorare con i pazienti in generale dovrebbe essere sempre quello di focalizzare la nostra sensibilità sulle capacità assuntive dell’apparato per pensare di quel dato soggetto in quel momento dell’analisi così da farle diventare la nostra bussola fondamentale nel corso del lavoro analitico.

Lo scopo del lavoro della psicoanalisi non è quello di traumatizzare il paziente, se l’analista è presente nella relazione e riesce a osservare e ad ascoltare con tutti i sensi, potrà accorgersi che l’analizzando continuamente gli rimanda feedback relativi agli effetti che si sono generati in lui a seguito dei suoi interventi. E se l’analista li recepisce potrà tener conto di questi dati in modo da aggiustare il suo prossimo intervento sintonizzandolo sulla possibilità di poterlo sostenere da parte del paziente. Com’è noto oggi essendosi moltiplicati i fattori terapeutici, i fattori di cambiamento che agiscono nei trattamenti analitici a cui l’analista può ricorrere ( e qui il riferimento è ai fattori terapeutici messi in evidenza dai post-bioniani) – quindi non più la sola “interpretazione-insight”, figlia della concezione dell’inconscio evidenziata da Freud – ci troviamo nella condizione di poter favorire processi di crescita psichica anche in quelle persone i cui stati della mente prima erano inaccessibili con gli strumenti della psicoanalisi classica. Comunque al di là di queste disquisizioni, quello che ho voluto dire nello scritto è che per noi che lavoriamo nel senso della crescita mentale, emotiva-affettiva, libidica e per l’emancipazione della persona, l’attraversamento della turbolenza emotiva è ineludibile, essa è da ritenersi sempre qualcosa di intrinseco al processo psicoanalitico.

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