L’ESAME DI REALTÀ E LA COSTRUZIONE DEL SÉ: VADEMECUM PER ESPLORATORI

Di Maria Cristina Cameli

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L’esame di realtà è un processo complesso che supera la semplice distinzione tra mondo interno ed esterno. Si configura come una funzione integrativa, un punto di raccordo tra dimensioni corporee, emotive, trasformative e relazionali, attraverso cui il Sé si forma e si afferma nel mondo.
Questo articolo approfondisce il ruolo dell’esame di realtà nella capacità di abitare il mondo, interno ed esterno, in modo creativo ed autentico. Questa dialettica tra le dimensioni dell’esistere è un processo evolutivo, dinamico e relazionale, che si sviluppa lungo tutto l’arco della vita, intrecciandosi con i cicli vitali e le esperienze quotidiane.
Un aspetto cruciale dell’esame di realtà riguarda appunto la relazione con la dimensione corporea. Secondo Winnicot la “personalizzazione” (Winnicot,1950) è il primo passo verso il riconoscimento del corpo come Me: il corpo è il nostro primo strumento di interazione con il mondo esterno, attraverso il quale possiamo cominciare a sperimentare i nostri confini fisici, emotivi e psichici.
La “personificazione” (ibidem), invece, va oltre l’abitare il corpo, ossia lo rende un mezzo attraverso cui il Sé si esprime. È la capacità di so-stare nell’attimo presente per raccontare chi siamo, per comunicare i nostri stati interni agli altri, per manifestare la nostra identità. Questo processo, che può emergere fin dalla prima infanzia, gioca un ruolo cruciale durante tutta la vita.
Il Corpo è dunque il terreno originario della soggettività. Armando Ferrari evidenzia che il corpo rappresenta il terreno primordiale da cui prende origine la mente; pertanto l’esperienza sensoriale corporea svolge un ruolo fondamentale nello stimolare continuamente la capacità simbolica. Il corpo non è un contenitore passivo, ma un interlocutore attivo in costante dialogo con la mente. È l’“Oggetto Originario Concreto” (Ferrari,1992) da cui la mente inizia a strutturarsi.
Nella dialettica tra corpo e mente emerge il Sé, che si radica nella corporeità e si esprime simbolicamente mediante la personificazione, in un continuo oscillare e trasformarsi lungo l’intero arco della vita. Tutto questo prevede una crescita, uno sviluppo dal piccolo al grande, dal semplice al complesso, dall’Uno al Bino (ibidem).
Il passaggio dall’essere corpo all’essere persona prevede la presenza dell’Altro. L’essere con l’Altro coinvolge la Relazionalità, lo “stare con”, in un equilibrio tra connessione e riconoscimento dei propri limiti.

In questa costante interazione la relazionalità non si esaurisce nella mera connessione io-ambiente, ma richiede anche la capacità di riconoscersi e riconoscere. La reciprocità, il dare e l’avere, è al cuore di questa dinamica. I continui scambi con l’ambiente includono il riconoscimento, il prendersi cura e la capacità di accogliere e tollerare il bisogno, sia proprio che altrui. Ciò, tuttavia, è anche fonte di angoscia legata immancabilmente alla dialettica continua tra desiderio e bisogno, tra conflitto e difesa.
Questa danza tra il me e l’Altro è in continua evoluzione verso il Sé e prevede la comprensione e la capacità di farsi carico delle proprie istanze interne. La capacità autoriflessiva, ovvero l’abilità di osservare sé stessi nel corpo e nella mente, è ciò che permette al soggetto di negoziare questi limiti e di integrare la propria esperienza relazionale più profondamente, di includere la capacità di pensarsi, di contenersi e contenere. Ferrari introduce il concetto di “verticale” e “orizzontale” (Ferrari, 1992), come dispositivi interni in cui si riverberano il rapporto con sé stessi ed il rapporto con l’altro, attraverso la direttrice corpo-emozione-pensiero, verticale, e la capacità di sintonizzarsi nel tempo e nello spazio con l’Altro da Sè, orizzontale. Esse sono come gli aghi di una bussola.
L’esplorazione ha però bisogno di coordinate che prevedano una profondità, una tridimensionalità. Prendersi il proprio spazio significa acquisire una presenza concreta e stabile nel mondo, una dimensione che combina radicamento corporeo ed emotivo con la capacità di interagire in modo dinamico con l’ambiente in un esserci pienamente incarnato.
Il Prendere Forma dunque necessita di pratica costante e metodica, come il gioco e il giocare. Winnicott attribuisce al “gioco” (Winnicot,1971) un ruolo centrale nella sua teoria sullo sviluppo del Sé, un vero e proprio link tra mondo interno e realtà esterna. Il concetto di gioco come quello di creatività si intrecciano profondamente con quello di fare e non-fare, e con il concetto di Pazienza, di attesa, costituendo uno spazio intermedio essenziale per l’espressione e l’esplorazione, dove poter interagire e dove potersi fermare. L’individuo trova nel gioco un terreno di incontro dove può esercitare il proprio “fare” in un’area protetta, un’area di transizione allo stesso tempo reale e simbolica. Il gioco diventa così il luogo in cui i vissuti interni, istanze psichiche, conflitti, e aspetti identitari, possano emergere, prendere forma e trasformarsi, esistere. La Creatività rappresenta la possibilità di attribuire significato all’espressione delle proprie istanze interne e di lasciare un’impronta personale nella realtà. È un atto di
mediazione tra il bisogno e il confronto con i limiti interni ed esterni. In questa prospettiva il gioco non è solo un’attività infantile, ma una funzione psichica fondamentale per tutta la vita, capace di rinnovare l’identità e generare appartenenza al momento presente. Allo tempo stesso il gioco e la creatività offrono uno spazio di non-azione: un luogo in cui saper attendere, sostare nel potenziale. Un aspetto altrettanto vitale, poiché consente all’individuo di integrare l’esperienza e di tollerare l’incertezza senza la necessità di agire immediatamente. Nel gioco, come nella Creatività, si trova quindi un equilibrio dinamico tra il fare e la possibilità di sostare nel “non ancora”, per permettere al nuovo di emergere. Questa danza tra movimenti e stasi permette di aprire una breccia verso il simbolico, offrendo un’alternativa alla rigidità del concreto. Il giocare, allo stesso tempo, sancisce ritualità, ripetizione e regole che prevedono adattamento, responsabilità e reciprocità.
La capacità di adattarsi alla realtà è strettamente connessa al senso di responsabilità verso sé stessi e verso l’altro. L’adattamento in questo caso non è mera conformità, ma un processo integrativo, che implica un dialogo costante tra desiderio e limite, bisogno e realtà. Tale integrazione trova il suo equilibrio nella partecipazione al mondo condiviso. Il dialogo tra interno ed esterno, Me e l’Altro, prevede inevitabilmente la perdita: il riconoscimento dell’altro nella sua autonomia e la trasformazione dell’oggetto soggettivo in oggettivo come descritto da Winnicot.
La perdita rappresenta un momento cruciale in cui il soggetto accetta il limite della propria onnipotenza e riconosce l’altro nella sua autonomia.
Questo passaggio comporta una frustrazione inevitabile, ma necessaria per lo sviluppo psichico. La perdita dell’oggetto soggettivo apre la strada alla simbolizzazione, permettendo all’individuo di dare un significato più ampio alla propria esperienza e di costruire un Sé integrato e autentico. Winnicott ha ampliato la nostra comprensione del concetto di perdita in correlazione al concetto di realtà attraverso la sua teoria del processo di separazione e individuazione. Per Winnicott, il bambino deve sperimentare una fase in cui la madre è sufficientemente buona da permettergli di crescere in un ambiente protetto ma non perfetto. In questo spazio sicuro e contenitivo, esso inizia a separarsi e a sviluppare un senso di autonomia. Il passaggio dalla fase della fusione alla separazione, è una tappa fondamentale nel percorso di sviluppo affettivo, durante il quale, il bambino sperimenta una tensione tra l’“essere” un unicum e il “fare”, tra il bisogno di protezione e di autonomia. Esso diventa in poche parole un esploratore della realtà tra esperienza emotiva e ambiente.
ESPLORARE IL REALE, APRIRSI AL SIMBOLICO. Il mondo interno e il mondo esterno non sono realtà separate, ma dialogano costantemente rispecchiandosi a vicenda. Questa interazione dinamica offre un terreno fertile per il lavoro Analitico, che si configura come un’esplorazione della realtà in tutte le sue dimensioni: corporee, emotive, simboliche e relazionali. Il Playing Analitico si fonda sulla possibilità di creare uno spazio intermedio, in cui si possa sperimentare liberamente i propri vissuti. Il Terapeuta e il paziente, attraverso un approccio creativo e giocoso, possono così pensare oltre la rigidità del concreto, aprendo uno spazio per il simbolico e per la trasformazione. Il gioco e il giocare, diventano pertanto uno strumento prezioso, capace di trasformare la frustrazione e la perdita in opportunità di crescita, di significato e di appartenenza autentica al mondo. Il processo analitico stesso diventa un luogo di condivisione, dove terapeuta e paziente attraverso un setting costruiscono insieme un campo di significato e trasformazione.
Dal corpo, alla rappresentazione di Sè, dal confronto con la frustrazione, alla simbolizzazione, ogni passo del cammino psicoanalitico è una scoperta della realtà, interna ed esterna. In questa continua dialettica l’individuo cresce, si trasforma e trova il suo posto nel mondo. Il lavoro psicoanalitico, dunque, non è solo un processo di interpretazione, ma una profonda riflessione su come il soggetto viva la propria realtà, sia quella corporea che quella relazionale insieme a un altro soggetto, l’Analista. L’essere soggetti sta nella capacità di integrarsi, di venire a patti con il proprio spazio potenziale, di abitare in modo creativo i propri confini e di affrontare la perdita.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
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