Di Sandra Granchelli

Per anni ho portato con me un taccuino.
Nei momenti di attesa annotavo pensieri o disegnavo. Erano sciocchezze, per lo più, descrizioni di ambienti o persone, note che collegavo a vissuti, esperienze, paure…
Stamattina, in una sala d’attesa, ho sentito la mancanza di qualcosa su cui scrivere liberamente. Avevo lo smartphone e la possibilità di scrivere un post su facebook o su qualunque altro social, ma sono spazi pubblici, i social, non vi si può scrivere tutto ciò che ci passa per la mente, ci sono cose che, semplicemente, non si possono dire.
Una volta, per uno spettacolo teatrale, scrissi un breve monologo in cui si sosteneva che le attese non sono tempo perso, ma un tempo regalato. In vite in cui è sempre necessario occupare le ore, i minuti, i momenti con qualcosa, l’attesa diventava un tempo recuperato per sé. Al personaggio che sosteneva questa tesi (un anziano signore rimasto vedovo) facevo dire che quella mattina, ad esempio, mentre aspettava che dalla moka uscisse il caffè, aveva goduto delle sfumature di cui il cielo si stava colorando, all’alba; avesse avuto la macchinetta con le cialde, per dire, non avrebbe avuto quel momento di serenità; avesse avuto uno smartphone, forse avrebbe passato quel tempo a testa bassa, concentrato su uno schermo (ma all’epoca non esistevano gli schermi).
continua a leggere
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.