Disumano, troppo disumano.

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Uno scambio di opinioni tra i redattori di “Impronte”

Massimo Belisario. Cosa sta accadendo “all’umano”, in noi? Dove stiamo andando? Uno spunto da un recente intervento di Cacciari. “Ci siamo riempiti la bocca di diritti umani per generazioni, noi con i nostri valori occidentali, e qui per la prima volta forse nella storia assistiamo a un esercito che combatte direttamente i civili… dei civili in fuga che vengono massacrati. È il crollo di ogni principio minimo di diritto, neanche di diritti umani, ma di diritto internazionale. Assitiamo a una catastrofe culturale del nostro mondo.”

Sandra Granchelli. È devastante per ogni essere che ancora voglia e possa definirsi “umano” assistere in diretta all’annientamento di donne, bambini, vecchi, uomini di qualsiasi condizione ed età che hanno avuto in sorte di vivere, da millenni, su un territorio che pare essere stato promesso, da un qualche Dio, a un popolo che si definisce e crede eletto. Un popolo, l’eletto, che ha subito una sorte simile, negli anni trenta e quaranta del XX secolo; un popolo che è stato cacciato dalle proprie case, trasferito, deportato, annientato prima che nel corpo, nella propria dignità umana. Ero in fila davanti alla fabbrica di Oskar Schindler a Cracovia, qualche settimana fa. Osservavo le foto in bianco e nero dei “salvati” e mi chiedevo dove vivessero e cosa facessero i loro figli, nipoti, pronipoti: cosa pensano di ciò che accade a Gaza e in Cisgiordania? Sono tra coloro che sparano e si rendono responsabili dell’uccisione dei civili? Sono sulle colline prospicienti Gaza a festeggiare per ogni palestinese ucciso? O a impedire che gli aiuti umanitari arrivino nella Striscia? Com’è accaduto che il popolo che è sopravvissuto alla Shoah si stia rendendo colpevole dello sterminio sistematico di un altro popolo?

La psicologia ha indagato i meccanismi che inducono gli individui vittime di violenza a trsformarsi a loro volta in carnefici, identificandosi nell’aggressore e assumendo così un ruolo attivo rispetto ad eventi ed esperienze subite passivamente. Si tratta di un fenomeno noto e frequentemente osservato ma, credo, che mai lo si fosse osservato manifestarsi in un intero popolo tanto da assumere forma istituzionale. Fra i commenti sui social ho letto: “Vi andiamo bene solo quando siamo le vittime e non se reagiamo” e mi sembra dia una misura del ribaltamento di un ruolo. Certo è che sono disorientata: il popolo che ci ha insegnato il valore della memoria utilizza questa memoria per umiliare, affamare, assetare, deportare, annientare un altro popolo. Pensavo che tutti stessimo dicendo “Mai più”, invece qualcuno affermava “Mai più a noi”.

Claudio Merini. Quello a cui stiamo assistendo è, secondo me, una conseguenza della deriva nazionalista, narcisista ed egoista in atto nella cultura occidentale. In questo senso la nostra umanità si sta deteriorando. Il valore dell’interesse personale sovrasta quello della solidarietà, la capacità di empatizzare è in declino. Molte persone convivono con il quotidiano orrore di quanto accade a Gaza senza esserne sconvolte, senza ribellarsi alla politica dei governi che sostengono finanziariamente Israele e la armano.

Alessandra Mosca. Hai toccato un punto molto profondo e doloroso. Ciò che osserviamo oggi è il risultato di un progressivo spostamento dal riconoscimento dell’altro come soggetto, come essere umano dotato di dignità e interiorità, alla sua riduzione a oggetto, strumentalizzato, escluso o semplicemente ignorato. Quando prevalgono narcisismo ed egoismo collettivi, l’altro smette di essere percepito come “altro da sé” con cui entrare in relazione, e diventa un’entità anonima, sacrificabile, che non merita lo stesso livello di considerazione e cura. In questo senso ciò che chiamiamo disumanizzazione non è altro che una difesa psichica: serve a non sentire troppo dolore, a non essere toccati dall’angoscia che la sofferenza altrui inevitabilmente susciterebbe. Il problema, però, è che questo meccanismo anestetizza anche la nostra stessa umanità. Perdiamo la capacità di empatia, di indignazione autentica, di “metterci nei panni” dell’altro. È come se l’Io collettivo preferisse preservare il proprio senso di onnipotenza e sicurezza, anche a costo di amputare quella parte più fragile e vulnerabile che ci rende umani. Ritrovare la centralità dell’altro significa, in fondo, ritrovare noi stessi. Significa avere il coraggio di lasciarsi toccare dal dolore che vediamo, di riconoscere che la violenza e l’ingiustizia non sono mai soltanto “esterne”, ma ci riguardano intimamente perché parlano di ciò che siamo disposti ad accettare o a negare della nostra stessa umanità.

Massimo Belisario. Credo che la evidente deumanizzazione esistente oggi nel mondo occidentale rimandi ad un modello di crescita dell’infante che viene privato da subito di quello spazio madre-bambino così importante per il suo sviluppo umano. La lunga dipendenza “necessaria” del bambino dalle figure di accudimento garantita sino ad alcuni decenni addietro è stata rapidamente sostituita da spinte verso una precoce autonomia da parte di tutti gli enti coinvolti (madri, famiglie, scuole, insegnanti, etc) come se avviarsi verso l’autonomia prima possibile fosse di per sé buono e garante di crescita e maturità. Oggi chiediamo ai bambini di maturare presto rispetto alla dipendenza, molto precocemente, affinché possano andare da sé. Questo attacco proveniente da più fronti al sistema relazionale “dipendenza” in cui si forma buona parte del funzionamento psichico di base del bambino lo confronta troppo precocemente e brutalmente con la necessità di diventare subito “grande” ed in grado di essere. Ma diventare subito autonomi, uscire presto dalla dipendenza può portare il bambino a non avere il tempo di maturare quelle competenze affettive, emozionali, relazionali necessarie che si costituiscono all’interno del rapporto di dipendenza e a collassare verso un funzionamento di autosufficienza. La fretta diventa il motore di un processo che invece richiede un andamento slow, lento. Allora può capitare sempre più che l’infante anziché accedere alla tanto ambita meta dell’autonomia che contempli pure l’esistenza” dell’altro da sé”, non avendo potuto maturare aspetti, funzioni, strumenti, affetti, all’interno di una relazione protetta, stabile e continuativa, collassi verso l’autosufficienza e l’essere preso prevalentemente da sé stesso. L’autonomia, per me sinonimo anche di interdipendenza, non si realizza (siamo tutti dipendenti da tutti, cioè il mondo si regge sull’interdipendenza). Una sufficiente relazione primaria prolungata nel tempo, senza fretta, tra le tante cose porta il bambino a radicare l’altro in sé stesso; invece una relazione primaria breve, segmentata, discontinua negli investimenti lo può portare a ripiegarsi su sé stesso e a mettere sullo sfondo l’oggetto, l’altro. Il risultato è quello di trovarci davanti sempre più persone prese da loro stesse, non in grado di “sentire” l’altro, di stare con l’altro, di immedesimarsi con l’altro. Quando viene meno dal proprio orizzonte l’altro e la com-passione per l’altro, si può diventare capaci di qualsiasi cosa. Sono dell’idea che il materiale umano che osserviamo oggi sia il prodotto di fallimenti avvenuti nell’ambito delle relazioni primarie precoci, sempre più orientate ad allontanare il prima possibile il piccolo dalla madre e dalla famiglia in nome della tanto agognata autonomia.

Donatello Giannino. Sono d’accordo con Massimo e aggiungerei che ciò che produce questo fallimento di una necessaria e soggettivante fusionalità/dipendenza è un senso di vuoto tale da essere riempito e camuffato da odio, rabbia, violenza, attacchi. Attacchi all’altro, attacchi al sé. In comportamenti e agiti privi di uno spazio, di pensabilità, di vuoto – spazi necessari.

Claudio Merini. Quello che vedo da parecchi anni, sia dentro che fuori la pratica clinica, è la tendenza a fare del figlio una sorta di oggetto narcisistico, che ha il compito di validare l’autostima dei genitori, in particolare della madre. In questa modalità relazionale il bambino non è percepito come veramente altro da sé, non viene visto per quello che è, non viene rispecchiato. Così il narcisismo si tramanda da una generazione all’altra e l’umanità si disumanizza, diviene incapace di sentire il dolore dell’altro.

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