LA CONSULTAZIONE PSICOANALITICA, UN INCONTRO TRA SOGGETTIVITA’

Di Alessandra Mosca

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La consultazione psicoanalitica rappresenta un momento cruciale, non solo per la diagnosi, ma per l’attivazione di un campo relazionale e trasformativo. A differenza della consultazione medica tradizionale, questo spazio si configura come un incontro emotivo, fenomenologico, in cui la modalità del racconto e dell’ascolto hanno un valore osservativo e terapeutico. La prima consultazione è un evento unico, denso di significati non sempre immediatamente accessibili alla coscienza, e può offrire un accesso privilegiato alle dinamiche inconsce del paziente.

La consultazione psicoanalitica, intesa come primo incontro tra paziente e analista, non è un semplice colloquio informativo, ma un vero e proprio spazio dinamico in cui si intrecciano le storie, le emozioni e le aspettative di entrambi. Secondo il modello di campo, sviluppato da autori come i coniugi Baranger e successivamente approfondito da Antonino Ferro e poi ancora da Giuseppe Civitarese, la situazione analitica è concepita come un campo bipersonale in cui paziente e analista co-creano un ambiente emotivo condiviso. Questo campo non è la somma delle esperienze individuali, ma una realtà nuova che emerge dall’interazione tra i due soggetti.

Il campo analitico si struttura su tre livelli: Il setting inteso come gli aspetti formali e contrattuali della situazione analitica. La relazione manifesta, cioè le interazioni verbali e non verbali tra paziente e analista. La fantasia inconscia bipersonale: il livello più profondo, costituito dalle identificazioni proiettive e introiettive reciproche, che danno forma a una realtà psichica condivisa. Secondo questo modello, l’analista non è un osservatore esterno, ma parte integrante del campo, influenzato e influenzante. Il controtransfert e le rêverie dell’analista diventano uno strumento prezioso per comprendere le dinamiche emergenti e per facilitare il processo di trasformazione del paziente.

L’assetto dell’analista in consultazione: presenza, ascolto, accoglienza

Ritengo che l’analista in consultazione non si presenta come uno specialista dotato di strumenti oggettivi per raccogliere dati e formulare diagnosi, ma come un essere umano attraversato, permeabile, disposto a farsi toccare. L’assetto analitico inizia prima ancora che il paziente varchi la soglia dello studio: già nella telefonata o nell’email di contatto si attiva un primo movimento psichico, un avvicinamento tra due mondi interni. Come suggerisce Bolognini parlando dell’intake, già in questa fase iniziale entrano in scena dei “personaggi interni”, fantasmi, aspettative e paure da entrambe le parti. È un momento carico di senso, che va ascoltato con la stessa sensibilità con cui poi si ascolteranno le parole, i silenzi e i sogni nella stanza.

Spesso i pazienti portano inconsciamente delle domande radicali: “Chi sei tu? Posso fidarmi? Sei come gli altri?”. L’analista, pur restando nella propria funzione, non può sottrarsi allo scontro emotivo che precede ogni possibile incontro autentico.

Durante la consultazione, emergono forme preverbali e inconsce di comunicazione. Il paziente non porta solo un sintomo o una richiesta razionale, ma mette in scena una parte del proprio mondo interno. La relazione stessa diventa il luogo in cui si manifesta il conflitto, spesso sotto forma di sogni, acting, immagini, pause, toni e silenzi. È in questo campo che l’analista osserva, sente e partecipa.

Gli aspetti da tenere a mente ancor prima dell’arrivo del paziente hanno, a mio modo di pensare, a che vedere con la centralità della relazione analitica, il cuore del lavoro è l’esperienza emotiva condivisa tra analista e paziente, la funzione trasformativa dell’analista che non è mero osservatore, ma partecipante attivo nel co-costruire significati e infine, l’importanza del preverbale e dell’inconscio profondo poiché l’attenzione va ai livelli non simbolizzati dell’esperienza psichica.

Accogliere un paziente in consultazione significa per l’analista mettersi in una posizione di disponibilità radicale, senza difese investigative, rinunciando a ogni premura di classificazione. Non c’è fretta di capire, ma desiderio di incontrare. L’assetto analitico implica un atteggiamento di sospensione, che non è distacco ma apertura; una forma di “attenzione fluttuante” che coinvolge non solo il pensiero, ma l’intero corpo emotivo dell’analista. Si tratta di abitare un tempo altro, non cronologico, un tempo kairologico (καιρός) che è un concetto di tempo qualitativo, che sottolinea l’importanza di cogliere l’attimo e riconoscere i momenti cruciali nella vita, il tempo in cui le immagini, i vissuti e le tracce preverbali del paziente possono iniziare a prendere forma, contrapposto al tempo cronologico (Χρόνος), che è il tempo misurabile e quantitativo.

La consultazione psicoanalitica chiede all’analista di rinunciare a posizioni direttive, interpretative o esplicative precoci. Non si tratta di spiegare, ma di co-abitare un campo dinamico fatto di proiezioni, paure, desideri e fantasmi. Un campo attraversato da momenti di disorientamento, attivazioni intense ed è qui che l’analista deve essere attrezzato internamente: non per difendersi, ma per restare, per sostenere l’angoscia propria e dell’altro senza doverla evacuare o etichettare.

L’analista, in questa fase, non cerca il sintomo da decodificare né la causa da indagare. Piuttosto, si pone come presenza sensibile e responsiva, capace di aspettare, di stare dentro l’opacità dell’incontro. Come scrive Angelo Macchia in Tracce mute, è attraverso una posizione analitica capace di intercettare ciò che ancora non ha parola — il pre-simbolico, l’informe, il non pensato — che può emergere un primo movimento trasformativo. Talvolta, questo significa anche ingegnarsi, trovare una strada per far accadere qualcosa che non si mostra subito: offrire un’immagine, una rêverie, una sponda emotiva. Lo si fa non per “interpretare”, ma per fare spazio a un’esperienza estetica condivisa, che possa risuonare nel paziente e permettere l’inizio di un pensiero nuovo. Quando parlo di estetica intendo ciò che dà una forma significativa alle cose. È quella qualità che conferisce senso, come un’immagine o un quadro che riesce a comunicare profondamente. È una forma che parla, che rende riconoscibile e pregnante una situazione.

Accogliere, dunque, significa sporcare la propria neutralità, lasciarsi toccare, rischiare. È un atto clinico ed etico insieme. La consultazione non è un momento neutro o preparatorio, ma è già cura. È già campo. E l’analista, in questa prima scena, è chiamato non a sapere, ma a sentire. A tenere dentro di sé un’attesa abitata, capace di accogliere anche ciò che il paziente ancora non sa di portare.

La consultazione, in altre parole, è l’ouverture di cui parla il Dottor Barnà in “Forme della consultazione psicoanalitica”, non è solo l’inizio di qualcosa ma anche un atto autonomo e trasformativo. Ha un valore in sé, come spazio privilegiato di esplorazione e comprensione, capace di produrre effetti significativi sulla vita delle persone.

Il sogno come evento clinico: la consultazione con Marco

Marco, si presenta alla consultazione con sintomi vaghi: ansia, insonnia, senso di vuoto. È composto, ma affaticato. Dopo un lungo silenzio, racconta un sogno:

“Ero su un treno fermo. Le porte non si aprivano. Guardavo fuori, ma c’era solo nebbia. Sentivo come se qualcosa stesse per succedere… ma niente succedeva.”

Io percepisco un’atmosfera sospesa, densa, come una nebbia emotiva che invade anche lo spazio della seduta. Non intervengo con un’interpretazione classica. Condivido invece una rêverie:

“È come se ci trovassimo in uno di quei momenti immobili… che sembrano silenziosi, ma dentro custodiscono un’emozione che non si mostra.”

Marco risponde:

“Sì… è come vivere trattenendo il fiato. Tutto sembra normale, ma dentro sto aspettando qualcosa… un’esplosione o un crollo.”

In questo scambio, il sogno non è trattato come contenuto latente da decifrare, ma come evento estetico e relazionale. Si attiva il campo analitico: un’atmosfera condivisa che parla attraverso immagini e sensazioni, non solo parole. La comunicazione passa attraverso immagini, tonalità, atmosfere, più che spiegazioni.

Il sogno, anche in consultazione, è un evento onirico intersoggettivo. L’analista è un “sognatore sveglio”, che abita le immagini insieme al paziente. Il sogno parla con toni, silenzi, immagini: non si spiega, si vive. La trasformazione avviene grazie a una restituzione estetica, capace di risuonare nel corpo emotivo dell’altro.

Falci, nel suo contributo, ricorda che la prima consultazione non è solo uno strumento diagnostico, ma una scena viva dove si attivano esperienze fenomenologiche, transfert, narrazioni profonde e atmosfere condivise. È un’“esperienza emotiva vissuta”, come avrebbe detto Bion, ma è anche un luogo in cui il vero Sé può iniziare a emergere (Winnicott) e il pensiero non pensato può iniziare a prendere forma (Ogden, Ferro, Civitarese).

La consultazione diventa quindi:

· Assesment dinamico, più che descrittivo.

· Esplorazione condivisa, non solo raccolta anamnestica.

· Inizio di una trasformazione: estetica, simbolica, narrativa.

Ma cosa accade quando il sogno non arriva? Dobbiamo cercare di avvicinarci al pre-simbolico.

Non sempre il paziente arriva portando sogni. Anzi, spesso accade il contrario: il paziente si presenta con racconti concreti, densi di eventi, cronache, descrizioni operative. Apparentemente, tutto è chiaro. Ma dietro questa chiarezza si cela un’assenza: mancano le immagini, manca il sogno, manca lo spazio simbolico.

È proprio in questi casi che dobbiamo affinare le nostre antenne analitiche. Cercare il sogno dove il sogno non c’è. Ascoltare il non detto, il gesto, la pausa, la concretezza che copre una frattura emotiva. È in questi frammenti corporei, stilistici, narrativi che può emergere la “traccia di una scena originaria” non rappresentata (Angelo Macchia in Tracce mute). E noi, come analisti, possiamo e dobbiamo ingegnarci – con sensibilità estetica e tecnica analitica – per far sì che qualcosa accada.

La traccia muta nella consultazione con Elisa

Elisa, si presenta per “problemi sul lavoro”. Il racconto è dettagliato, lineare, ben confezionato. Nessuna esitazione, nessuna incrinatura visibile. Sento però una sensazione di freddo, un silenzio che non è vuoto ma glaciale. In me nasce un’immagine: un palazzo con tutte le finestre chiuse, serrande abbassate, luci spente.

Non intervengo subito. Lascio agire questa immagine dentro di me, finché a un certo punto, con voce quasi impercettibile, Elisa dice:

“A volte mi sento… come trasparente. Come se non esistessi davvero.”

Questa incrinatura minuscola diventa un’apertura. Commento, con voce quasi sognante:

“Come un vetro che non riflette più nulla… né dentro, né fuori?”

Lei annuisce. Si fa silenzio. Poi aggiunge:

“Mi succede anche con mia madre. Parlo… ma è come se parlassi da sola.”

In quel momento, pur in assenza di sogni, si apre uno spazio onirico. Non è un sogno raccontato, ma un sogno generato nella relazione. È una traccia muta che diventa parola, immagine condivisa. La consultazione si trasforma in un’esperienza emotiva viva, in cui inizia un processo di simbolizzazione e, un’affettività trattenuta, finalmente trova uno spazio di risonanza.

La consultazione psicoanalitica può essere pensata come una scena viva e condivisa in cui sogni, parole, immagini e atmosfere emergono non per essere decifrati, ma per essere abitati insieme. È in questa abitazione condivisa che si produce un cambiamento: non solo nella comprensione del paziente, ma anche nella sua possibilità di sentirsi visto, accolto e trasformato.

Come mostrano Marco ed Elisa, i sogni possono arrivare sotto forma di racconto o come atmosfera implicita. In entrambi i casi, l’analista è chiamato a un ascolto profondamente immersivo, sensibile, estetico. La consultazione, allora, è davvero un incontro tra soggettività, in cui accade qualcosa che prima non poteva accadere.

È un luogo dove, anche senza parole, si sogna insieme.

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