Di Donatella Di Pietrantonio

Certe volte che ti odio. Odio il tempo che mi costi. Sei stata avara di tempo con me, quando ero bambina le tue mani mi parevano d’ossa, mi arrivavano scarse e perpendicolari, mi lavavano, cambiavano, porgevano il cibo e poi via, verso campi da lavorare, animali da accudire, verso sacrifici e doveri che non mi riguardavano. Ci mancava il momento delle carezze inutili, del palmo tangente alla guancia, della pelle che si scalda e suda a contatto con l’altra.
Ubbidivi agli ordini del suocero-padrone, non era colpa tua. Ma qualche volta ti avrei voluta partigiana e rivoluzionaria, per me. Eri una madre inaccessibile, separata, non per disamore, per fretta, quest’altra forma del disamore. Ti inseguivo, certi giorni con l’andatura dimessa del cane pulcioso che esala disperazione dal muso. Solo la notte ti raggiungevo, infilandomi nel tuo letto. Annusavo dai capelli l’ordine del giorno appena trascorso: stalla delle mucche, pecorino fresco, foraggio, peperoni fritti. Di nuovo lontana, perduta nella profondità del sonno, ma ti stavo io accanto, espiravo sulla tua nuca, potevo vegliarti un po’ e poi finalmente dormire anch’io appoggiandoti una mano nell’incavo tra il collo e la spalla, dov’eri più morbida e viva. Sei stata il principio di tutti i miei desideri, la madre di ogni solitudine.
Mi piacevano i tuoi capelli lunghi, li guardavo al tramonto mentre ci lavoravi in camera tua, vicino alla finestra che dava sul boschetto. In piedi, ti muovevi nello specchio parlando con me. Sciolta la crocchia, disfacevi la treccia, il fiume nero si liberava lungo la schiena. Erano un fiume, giuro, che pettinavi ciocca per ciocca con la testa un po’ reclinata a favorire il movimento del braccio. Stavo lì a bocca aperta ad ammirare il tuo tesoro e la cura che ne avevi. In quel solo punto della giornata perdevi la fretta e la grinta, la lentezza mi conciliava il sonno. Una volta i tuoi capelli li ho sognati sotto forma di zucchero filato bruno e me li mangiavo a poco a poco. E tu non rimanevi calva, perché erano infiniti.
Ora dormi, come dopo una favola. Intanto scrivo la lettera che strapperò tra poco, come tutte le altre indirizzate a te. Così ti ho sempre protetta dal mio odio, distruggendo le prove. Respiri a bocca aperta, con un sibilo leggero e regolare. Al risveglio sarai disorientata, ti sembrerà mattina o di trovarti da me. Poi ti vedrai sul tuo vecchio divano e poco alla volta riconoscerai la casa e forse il pomeriggio. Sussulti di chissà quali sogni. Ti osservo da vicino, hai l’espressione dolorosa della luna non proprio piena. La pelle è sottile sul naso, sugli zigomi, tesa e lucida, quasi prossima a lacerarsi.
Ti giri sul divano, con un lamento. Muovi più volte la bocca per bagnartela di saliva e infine la chiudi. Il respiro si fa silenzioso, solo il lavoro del petto, adesso. E dei globi oculari sotto le palpebre.
Sulla mano ti cade un raggio di sole dalla finestra. Le nocche e le vene sono gonfie. L’ultima falange di ogni dito cambia improvvisamente direzione rispetto all’asse, come deviata verso il pollice da un colpo di vento. Sull’anulare l’angolo è così netto che sembra rotto e riattaccato male. Anche il polso è gonfio. Mi guardo addosso per vedere se sono io il mostro che ha lasciato accadere tutto questo.
Non riesco a usarti dolcezza. Non ti tocco mai. Immagino, solo, di poterti accarezzare, sulle braccia, le mani deformate dall’artrosi, le guance, la testa. Ma non mi avvicino, se ci provo sento la forza che si oppone quando accosti i poli dello stesso segno di due calamite.
Non ti ho perdonato niente. Non ti ho superata. Aspettavo ancora di regolare i conti con te quando mi sei sfuggita nella malattia. Fremevo di rabbia, quasi fosse un dispetto. Oppure dubitavo di essere io la causa.
Giovanni è arrivato la notte del solstizio d’inverno, tra i segni del Sagittario e del Capricorno. Il nevischio sferzava le finestre. Abbiamo voluto accogliere la nostra creatura soli, io e Pietro. Quando gli ho chiesto di avvisare te e papà, le infermiere già lavavano il bambino.
Hai insistito, dopo, per rimanere nella stanza d’ospedale ad assistermi. Avvolta nello scialle verde a fiori che ti avevo regalato, hai dormito sulla poltroncina nell’angolo, stanca di una giornata che era sembrata normale fino alla fine. Così stanca da russare e non sentirmi quando ho tentato di chiamarti sottovoce per non disturbare l’altra puerpera. Ti sei alzata una volta per offrirmi un bicchiere d’acqua. Tutta la notte ti ho scritto una lettera a mente, una delle molte, e poi non la sapevo più. Tremavo, di rabbia e del freddo che mi veniva da quel sonno senza riguardi, dalla tua consumata esperienza nell’essere insieme invadente e lontana. Mi sono indignata per come avevi profanato il momento facendomi notare ancora sulla porta la camicia e il lenzuolo macchiati di sangue, che andavano cambiati. Poco prima dell’alba mi ha sopraffatto l’amore per te, ostinato e terribile, colpevole di non aver saputo trovare le vie del tuo.
Ho avuto paura per il bambino. Non lo meritavo, per i miei cattivi pensieri. Sembrava appena uscito dalla fabbrica degli angeli, con la testa di pane fragrante e l’alito di latte tiepido, gli occhi vasti già così aperti al mondo. Invece di contenerlo in tutti i miei pensieri, lasciavo che tu ne occupassi una parte.
Ti sei svegliata. Ci avviciniamo con le sedie al focolare. Mi tocchi la gamba all’improvviso e parli di questa mia gonna così morbida, chiedi se è nuova. Apprezzi la stoffa con le dita deformi e intanto ho la mano addosso. È quello, che cerchi. Vuoi me, adesso. A volte lo fai con le maglie, mi prendi il braccio e valuti la lavorazione. Ti attardi sulla lana, ti stacchi con un movimento lungo dalla spalla verso il polso, come una carezza, una nostalgia.
Soffro il contatto, avverto il disturbo. Vorrei chiudere forte gli occhi e aspettare che smetti, tremando un po’. Controllo la reazione. Cerco di sembrarti disponibile ma non mi credo, sono rigida. Dove si posa il palmo, la pelle scotta sotto il tessuto. Incontra un pezzo di ghiaccio secco e ruvido, con una peluria di brina in superficie che si attacca e ustiona. Quando vai via resto irritata, per un po’.
Ancora mi cerchi, solo a volte. Non mi trovi. Mi cerchi. Quanto a me, ho paura.
Sono stanca di te, di portare i tuoi segni. Non mi sono liberata. Lascio che mi occupi, ancora. Che m’infesti. Reagisco e perdo tempo. Continuo a girare in tondo senza trovare la via di uscita dalla tua orbita verso altri mondi. Vado invecchiando, in questa immaturità.
Ti muovi dentro camere oscure. Ogni tanto mi vedi, oltre. Riprendi in mano il metro, me lo accosti. Come al solito, non gli corrispondo. Provi un attacco. Questi capelli che non pettino mai, l’andatura da cane bastonato, le spalle curve. Me lo dici da sempre. Ti guardo come il cane al bastone, rinuncio ad azzannare. Tengo i denti stretti.
Una sera, avevo forse otto anni, sono andata a letto con la certezza di non svegliarmi più. Il cuore aveva perso un battito, segno che presto si sarebbe arrestato, nel sonno. Il presentimento era così forte che di sicuro doveva accadere. Bevuta l’ultima acqua in cucina, ho lavato e capovolto il bicchiere a scolare. Mi sono spogliata, appoggiando i vestiti ripiegati con cura sulla sedia accanto al letto. Ti ho annunciato che stavo per morire, il cuore perdeva colpi. Hai risposto di non dire mattità e buonanotte. Potevo infilarmi nel lettone vicino a te? No, non potevo. Allora via sotto le lenzuola, testa compresa, a tremare di freddo e paura. Respiravo a bocca aperta per scaldarmi con il vapore. Poi, fuori fino al collo, ho recitato le ultime preghiere, con lo sguardo al mattino dopo.
Mi vedevo non rispondere ai richiami, tu esasperata che provavi a scuotermi nel letto, l’orrenda scoperta del cadavere già freddo e rigido. Ah le tue urla, lo strazio. Ti strappavi i capelli gridando alla gente accorsa che te l’avevo detto e non mi avevi creduto, non mi avevi concesso di dormire l’ultima volta accanto a voi. E avevo lasciato tutto in ordine, i vestiti piegati sulla sedia, il bicchiere dell’ultima acqua bevuta capovolto sul lavandino, secondo le regole.
Al culmine della scena mi pizzicavano gli occhi, la gola costretta. Poi sgorgavano lacrime calde e quiete, scorrevano nelle volute delle orecchie fino a bagnare i capelli, il cuscino. Piangevo per te che mi avresti pianto. Dalla pietà scivolavo insensibilmente in un sonno umido e consolato. Ti eri negata fino al possibile. All’alba avrei avuto tutto il tuo dolore.
Non avevi mani per tenermi unita, mentre andavo in pezzi, non sentivi il crepitio, ignara del mondo dentro di me. Quella notte mi sognavo sotto forma di latte cagliato, formaggio fresco che stringevi. Non hai potuto contenere le angosce di bambina. Sono diventate, dopo, attacco di panico, incubo e, ancora oggi, sottile disagio.
Divenne quella la fantasia di ogni sera. Al mattino mi svegliavo viva, e delusa. Non avevo trovato la tua attenzione morendo. Mi ricomponevo alla meno peggio, indossavo i vestiti piegati sulla sedia.
Sono disarmata con te. Ignoro come aiutarti senza avvicinarmi. Non so restituirti che la mancanza. Come un ragno crudele filo la tela della mia colpa nei tuoi confronti, ne resterò prigioniera. La colpa è vuota. È il vuoto delle mie omissioni. Ometto l’amore, le mani. La cura di cui più hai bisogno, lascio che ti manchi. Ti somministro ogni dodici ore la memantina idrocloruro da dieci milligrammi, compresse divisibili, con la moderata speranza che rallenti la degenerazione dei neuroni. E ti racconto la tua storia mentre me la racconto per convincermi che diversa non potevi essere. Ti ripeto il lavoro che hai fatto nel mondo, te lo restituisco ogni volta che lo dimentichi. La tua vita è stata utile, solo non mi hai consentito di amarti. Tutto il tempo ti ho cercato, accattona che non sono altro. Ancora ti cerco. Non ti trovo. Ti cerco.