Di Sandra Granchelli

Per anni ho portato con me un taccuino.
Nei momenti di attesa annotavo pensieri o disegnavo. Erano sciocchezze, per lo più, descrizioni di ambienti o persone, note che collegavo a vissuti, esperienze, paure…
Stamattina, in una sala d’attesa, ho sentito la mancanza di qualcosa su cui scrivere liberamente. Avevo lo smartphone e la possibilità di scrivere un post su facebook o su qualunque altro social, ma sono spazi pubblici, i social, non vi si può scrivere tutto ciò che ci passa per la mente, ci sono cose che, semplicemente, non si possono dire.
Una volta, per uno spettacolo teatrale, scrissi un breve monologo in cui si sosteneva che le attese non sono tempo perso, ma un tempo regalato. In vite in cui è sempre necessario occupare le ore, i minuti, i momenti con qualcosa, l’attesa diventava un tempo recuperato per sé. Al personaggio che sosteneva questa tesi (un anziano signore rimasto vedovo) facevo dire che quella mattina, ad esempio, mentre aspettava che dalla moka uscisse il caffè, aveva goduto delle sfumature di cui il cielo si stava colorando, all’alba; avesse avuto la macchinetta con le cialde, per dire, non avrebbe avuto quel momento di serenità; avesse avuto uno smartphone, forse avrebbe passato quel tempo a testa bassa, concentrato su uno schermo (ma all’epoca non esistevano gli schermi).
In questo tempo perso (al CUP) mi circonda una specie di caravanserraglio di varia umanità. Il mio vicino è un signore anziano (posso dire vecchio?) che guarda, e soprattutto ascolta ad alto volume, le previsioni meteo sul cellulare e ora appare concentrato, a giudicare dai rumori, sul video di un temporale (o è un bombardamento?). Poco fa un gruppo di donne e bambine africane molto chiassose (le mamme più delle figlie) ha attraversato la sala. Una piccola bimba di un anno si è allontanata dal gruppo e, con la sua camminata buffa ed esitante, si è avvicinata ad un ragazzo e ad una ragazza entrambi troppo impegnati a guardare altrove – il cellulare l’uno, il vuoto l’altra – per accorgersi di lei. E io mi sono trovata a chiedermi come si possa ignorare un bambino così piccolo, come si possa non restare incantati dallo spettacolo di un bambino che esplora il mondo.
Il signore alla mia destra continua a guardare, ipnotizzato, video di temporali con tanto di tuoni (non voglio credere sia il rumore di un bombardamento). I più si lamentano del dolore e del tempo troppo lungo dell’attesa. (Dal cellulare del vicino, all’improvviso, arrivano suoni che sembrano proprio colpi di fucile!).
I più si lamentano, dicevo, ma non è esattamente vero: molti si lamentano, ma molti altri sono come me concentrati su un cellulare che riempie il loro (e il mio) tempo isolandoli (isolandoci) da tutto il resto.
Verrà un tempo in cui gli uomini, abituati a guardare solo schermi, alzando gli occhi si accorgeranno di essere rimasti irrimediabilmente soli.
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